In questi racconti e anche leggendo quella sorta di postfazione che è “Superflue spiegazioni” – con cui termina “Legami familiari” – nella quale la Lispector (L.) accenna alle “fonti” che hanno ispirato i singoli racconti, si ha l’impressione che la L., nella sua scrittura e nella sua immaginazione, sia dominata da impulsi profondi e sotterranei da cui sembra quasi venire inconsciamente guidata. Ciò pur nell’ assoluto controllo e nell’ assoluta padronanza del “gesto” narrativo intendendo il possesso di una capacità di scrittura notevolissima, originale, fluente e spiazzante.
E’ come se il suo sguardo penetri inesorabile dentro tracce mnestiche che si porta dentro e ne svela la loro natura recondita: oscura e inquietante, in un certo senso persino spaventosa, come lei stessa ammette quando, parlando del racconto “Il bufalo”, dice: “Un giorno l’ho riletto e ho provato malessere e spavento” I racconti della L. sono visivamente degli scavi. E’ come se la L. aprisse uno scavo e ci facesse vedere che cosa si nasconde dentro questo scavo. Non ha nessun rilievo la “storia” dello scavo, né tanto meno il “futuro” dello scavo, anche perché si capisce bene che questi scavi non hanno neanche una speranza di futuro. E’ guardare dentro lo scavo che interessa alla L. ed è là dentro che porta anche noi.
Non sono resti archeologici che troviamo in questi scavi, bensì essi ci appaiono come luoghi tombali, di cui mantengono la gelida freddezza marmorea, ma che dietro la levigata, tersa, immacolata superficie della lastra, nascondono un brulicare feroce e talora terribile di vita e di vite che vorrebbero uscire da quella tomba, vorrebbero liberarsi e liberare quelli e soprattutto quelle (perché la L., in questi racconti, appare una scrittrice molto femminile: per la sensibilità, per i personaggi, per lo stile) a cui appartengono. Ma questo non accade. Queste vite restano nello scavo in un ribollire muto e anestetizzato, in attesa del prossimo tentativo di riemersione.
Il modo di gestire la “forma” racconto della L. è esemplare. Perché, di norma, un racconto non deve avere un prima e un dopo, bensì deve impressionare sulla pagina un fotogramma, deve essere la visione di una cosa, magari minore, banale, quotidiana, ma di quella sola cosa. Ed è questo che la L. fa. Ma da “quella sola cosa”, il più delle volte minore, banale, quotidiana, la L. ricava e suscita mondi che si aprono su scenari di esistenza e di esistenze assai più vasti di “quella sola cosa” di cui si sta parlano e ciò soprattutto per le implicazioni interiori, profonde, umane e disumane che essi hanno. Il titolo “Legami familiari” di questa raccolta non è casuale e, al di là di essere anche il titolo di uno dei racconti è, in realtà, quanto mai appropriato nel rendere l’insieme della tematica comune a questi 13 racconti
In tal senso l’originale in portoghese “Laços de família” che, tradotto in modo meno linguisticamente appropriato, ma più crudamente letterale starebbe per “lacci familiari”, rende ancor meglio l’intenzionalità comune a questi racconti.
Perché il tema ricorrente sono quelle cose misteriose e, al contempo, sordamente oscure, opache, per non dire crudeli che sono appunto i “legami familiari”, dove legami, qui, è tutt’ altro che foriero di tenerezza. Al contrario è un nodo scorsoio al quale si rischia di restare impiccati, se non lo si è già impiccati senza essersene neanche accorti. Le famiglie della L. sono delle prigioni micidiali, dove ognuno è solo con se stesso. Nelle quali e dalle quali non ci si slega neanche a morire, salvo buttarsi a capofitto nelle profondità della propria anima per cercarvi rifugio e spiegazioni ma dove, per contrasto, osservandosi spietatamente, si avverte ancora di più la desolazione e l’orrore della propria situazione. E ammiro questa scrittrice da questo punto di vista, perché la L. è lontana anni luce dall’ abusata e consunta retorica della “solarità” dei personaggi e delle famiglie che abitano tanta letteratura sudamericana e brasiliana in particolare, pur ambientando luoghi, personaggi, eventi in quel mondo, in cui lei era cresciuta e viveva.
Perché quello di cui parla la L. in “Legami familiari” è tutto vero, anche in Brasile. E perciò ha ragione secondo me chi ha detto che nella letteratura brasiliana bisogna parlare di un’era prima della L. e di un’era dopo la L.: “La scrittrice francese Helene Cixous arriva ad affermare che nella letteratura brasiliana vi è uno stile A.C. (Antes da Clarice – Prima di Clarice) e D.C. (Depois da Clarice – Dopo Clarice).(Fonte: “Clarice Lispector” in Wilkipedia ) E, non a caso, A. Tabucchi, nella quarta di copertina, la definisce “forse la maggiore scrittrice portoghese di questo secolo”; (intendendo ovviamente il ‘900)
E nel fare queste considerazioni non si può non tener conto che la L. nacque in Ucraina da una famiglia ebrea (in casa sua crebbe parlando yddish) e pur essendosi trasferita in tenerissima età in Brasile, queste sue origini qualcosa sicuramente vogliono dire.
Venendo nel merito dei singoli racconti, ve ne sono alcuni che sono di una bellezza spietata e carichi di un humor “nero” divertentissimo e, al contempo, raffinato, elegante, letterariamente squisito e, intellettualmente, di notevole spessore. In questo senso mi riferisco in particolare a: “La donna più piccola del mondo” e “Buon compleanno”. Ma è delizioso, pur nella sua iperbrevità, anche “Una gallina”, di cui, per riprendere il concetto di come la L. si accorga “dopo” degli impatti dei suoi scritti dice: “Una gallina è stato scritto in circa mezz’ ora. Mi avevano chiesto un pezzo…e ho finito per non consegnarlo; finché un giorno ho capito che quella era una storia interamente compiuta e ho capito con quale amore l’avevo scritta. Mi sono inoltre persuasa di avere scritto un racconto”. A me è piaciuto molto anche “Preziosità”, anche se la L. un po’ lo ripudia: “Preziosità è un tantino irritante”.
Assai più introspettivi e in larga misura più dolorosi sono gli altri racconti, nei quali si “sentono” sia nei profili dei personaggi sia nello stile certi rimandi alla Woolf. Verrebbe da chiedersi in conclusione, se c’è un segnale che emerga da questi racconti a cui ci possiamo appoggiare. Pochi, anzi nessuno, secondo me, se guardiamo al mondo degli uomini, tanti, se guardiamo al mondo degli animali. Parlando di come le era nata l’ispirazione de “La donna più piccola del mondo” la L. dice: “…è come se io sentissi che gli animali sono una delle cose tuttora vicine a Dio, materia che non ha inventato se stessa, che è ancora calda dalla nascita, e nello stesso tempo, cosa che si mette immediatamente in piedi, viva fino in fondo, e che vive ogni istante per intero, mai poco alla volta, senza mai risparmiarsi, senza mai consumarsi” .
E questi animali li troviamo amorevoli, simpatici, autorevoli in molti racconti: da “Una gallina” a “Il bufalo” a “Il delitto del professore di matematica”, nel quale la crudeltà di avere abbandonato un cane fa provare al professore un’umiliazione così forte, rispetto a cui, per contrasto, il cane abbandonato, così come descritto dalla L., ha un ”umanità” che nessun essere umano riuscirà mai ad avere. Laddove la “disumanità” oggettiva del professore assurge a “colpa originaria”, a condanna muta e atavica, comune a tutti gli esseri umani. Perché dietro il desiderio di amore e di amare, dietro la ricerca della felicità si annidano le parti più oscure di noi: ”E rifletté sulla crudele necessità di amare. Rifletté sulla malignità del nostro desiderio di essere felici. Rifletté sulla ferocia con la quale desideriamo giocare. E sul numero di volte in cui uccidiamo per amore.”