“Io e te” – Niccolò Ammaniti

Lontano dallo schema degli adolescenti immersi nei loro gruppi dei pari e già proiettati verso agiti adulti, Ammaniti, al contrario, ci descrive un quattordicenne, Lorenzo (L.), solitario, taciturno, desideroso di non appartenere a niente e a nessuno, ancora legato con modalità fortemente fusionali ai genitori, in particolar modo alla madre.

Tuttavia, L. non è un ragazzino passivo o inerte, non è uno stupido, né tanto meno privo di coraggio, elabora strategie, mette in atto comportamenti lucidi e consapevoli, tuttavia finalizzati ad un unico scopo, dilazionare il più possibile l’ingresso in una dimensione relazionale, ritardare l’emancipazione dall’infanzia, in altre parole non affrontare la questione della nascita sociale. Perché lo fa? Perché questa è la modalità con cui L. agisce la sua personale controdipendenza genitoriale, e sviluppa il suo personale processo di individuazione e cioè reagendo alle forti aspettative dei genitori, in primis della madre, che desiderano che egli sia come gli altri, si integri, diventi socialmente accettato e accettabile. In altre parole più gli si chiede di entrare in relazione, più L. reagisce, agendo comportamenti adattivi per compiacere gli altri, facendo credere di adeguarsi, in realtà camuffandosi come le mosche-vespe, che sembrano vespe ma bensì sono mosche che si camuffano in tal modo per sfuggire ai loro predatori.

L., invece, al fondo, cova e nutre un rifiuto profondo dello stare con gli altri, dello stare in società, che vive come un obbligo e vi si oppone rifugiandosi in se stesso, senza manifestare apertamente il suo disagio, il suo senso di inadeguatezza, che pur tuttavia trapela. L’oscillare tra la maschera pubblica, le apparenze e il sogno dell’isola deserta, lontano da tutto e da tutti trova il suo culmine allorquando L. si inventa e comunica alla madre di essere stato invitato a trascorrere una settimana bianca a Cortina da alcuni compagni di scuola, i quali la stavano effettivamente organizzando ma tra di loro e, di fronte all’immensa gioia della madre per questa notizia, non riuscirà più a dire la reale verità e impianta una messa in scena portata fino a delle conseguenze estreme.

L. finge di andare all’appuntamento per partire per Cortina, per tornare invece di nascosto a casa e chiudersi in cantina con libri e play station e cibo e bevande per una settimana. Il punto però è che L. diventa vittima di questo meccanismo della doppiezza tra immagine esterna e immagine interna, perché è talmente abituato a compiacere, che preferisce inscenare la fuga in cantina con tutte le complicazioni, i rischi e i disagi che questo comporterà che venire meno all’immagine di adolescente risolto e sdoganato che il presunto invito degli amici gli consentiva di acquisire agli occhi altrui. In realtà lui stesso sa che non è più questo il vero motivo per cui non dirà la verità. Si chiede quale sia ma non lo sa. E non sapendo darsi una risposta finisce per adeguarsi al dispositivo che gli è più familiare, proiettare all’esterno ciò che gli altri vogliono che lui sia, salvo alimentare e nutrire nel suo io più profondo le istanze di separatezza e distacco di cui l’esperienza di rinchiudersi in cantina e il suo svolgersi rappresenteranno un vero e proprio distillato.

Senonché mentre L. sta assaporando la sua fuga nella assoluta libertà, autorinchiuso nella sua cantina, piomba sulla scena, inattesa e neanche lontanamente immaginata Olivia (O.), la sorellastra di L., di dieci anni più grande di lui, la quale anch’essa in fuga, ma dalle sue sofferenze esistenziali e fisiche di tossicodipendente, finirà per insediarsi nella cantina di L.. Inizialmente L. tenta di espellerla dal suo mondo che così bene si era creato intorno a sè, vivendola ovviamente come un corpo estraneo e disturbante, non foss’ altro perché, in quanto essere umano, O. lo costringe a relazionarsi con lui. Poi l’impatto con la paura della morte di lei, in preda agli effetti di una crisi di astinenza, spaventano L. e muovono in lui un senso di pietà, una consapevolezza istintiva che bisogna tener conto degli altri, occuparsi degli altri, relazionarsi con e in ultima istanza assumersi anche della responsabilità.

Ed è in quel frangente, in quelle circostanze convulse, e in certo senso avventurose che L. non solo fonda e realizza con O. la sua prima vera relazione con l’altro della sua vita, ma comprende che quella bugia da cui tutto è nato e che l’ha portato a chiudersi in cantina, era stata dettata non dalla volontà di compiacere la madre, ma in realtà era la manifestazione di un desiderio. Dire di essere stato invitato è perché L. voleva proprio essere invitato da quei suoi compagni e senza volerlo, senza sapere come, si accorge che il desiderio dell’altro, dello stare con gli altri, dello scambio, esiste anche per lui. E l’esperienza vissuta con O., una sorta di iniziazione a diventare grandi, gli ha svelato che anche lui sta diventando grande.

A me, in conclusione, “Io e te” sembra adeguatamente risolto e compiuto. Pur non avendo una struttura narrativa complessa, né un linguaggio particolarmente elaborato ha tuttavia il pregio di dire tanto con poco. Di condurci a svelare un mistero che più che fuori dai personaggi stava dentro i personaggi. Ammaniti in sostanza ci avverte che diventare grandi non è facile, non solo quando si è piccoli ma anche quando si è già grandi come, nel finale, il triste epilogo di O. ci suggerisce.

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