“Il viaggiatore incantato” – Nikolàj Leskòv

“Il viaggiatore incantato” è uno dei due racconti che compongono il volume da cui, appunto, prende il titolo. L’altro è “L’angelo suggellato”. Ebbene consiglio vivamente di leggere questi due racconti, perché sono di rara bellezza, perché sono espressione di una originalità di scrittura fuori dal comune, perché sono di Nikolàj Leskòv che, se pur meno famoso degli altri grandi scrittori russi suoi contemporanei è, in realtà, anch’egli uno dei grandissimi della letteratura russa dell’Ottocento: così lo definiva peraltro, già allora, Tolstoj.

E, non a caso, W. Benjamin ne ha scritto in un suo famoso saggio del 1936, intitolato: “Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolàj Leskòv”. Prima di tutto va detto che entrambi i racconti si basano su di un impianto narrativo simile, pur cambiando le vicende narrate, i luoghi, i personaggi e i protagonisti. In ciascun racconto il protagonista, che coincide con l’io narrante, narra le vicende di cui parla ad un uditorio che lo ascolta e lo sollecita, assecondandolo perché porti avanti il racconto. Ciò determina una narrazione in forma di monologo, ma nella scrittura di Leskòv tale narrazione viene costantemente tenuta viva e animata dall’uso ricorrente del dialogo. I contenuti delle vicende narrate vengono infatti riportati dal protagonista narrante, prevalentemente, sotto forma di resoconto dei dialoghi con gli altri personaggi con cui egli è entrato in relazione nel corso delle vicende stesse.

Sottolineare questi aspetti è importante non solo per capire la struttura in sé di questi due racconti di Leskòv, ma perché tocca un aspetto fondamentale dell’identità stessa di Leskòv come scrittore e cioè la sua fondamentale identità di narratore da intendersi come cosa diversa da quella di romanziere, distinzione evidenziata e descritta da Benjamin nel saggio di cui si è detto. In quanto, peculiarità del narratore è che egli “prende ciò che narra dall’esperienza – dalla propria o da quella che gli è stata riferita – e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia”. Tutto ciò rimanda alle pratiche dell’oralità e della tradizione orale, che non hanno nulla a che vedere con il romanzo. Tanto che pare che Leskòv amasse, lui personalmente, intrattenere degli uditori, raccontando loro il contenuto dei racconti che aveva ideato per la pubblicazione.

Ora, in Leskòv, la “resa” di questa narrazione è di una vivezza, di una forza e di una visualità immaginativa estremamente seducente e suggestiva, ricreando atmosfere, situazioni e sensazioni che ci fanno sentire come se anche noi fossimo lì con gli uditori immaginati da Leskòv ad ascoltare quella storia insieme a loro. Questo discorso ci introduce nel mondo di Leskòv che, va detto subito, è un mondo fortemente connotato in senso magico e fiabesco. Leskòv traspone, infatti, vicende che hanno concreti retroterra reali su dimensioni che ne esaltano l’aspetto evocativo e fantastico vuoi attraverso lo sviluppo in sé che dà alle vicende narrate vuoi attraverso il suo peculiare uso del linguaggio con cui imprime accelerazioni e rallentamenti, produce squarci inattesi spostando repentinamente l’attenzione del lettore, modifica i toni andando dal poetico all’epico, dal picaresco al comico e soprattutto al tragicomico che ne “Il viaggiatore incantato” lui stesso definisce “dramma-commedia”. Ne scaturisce una poetica della leggerezza, un senso di sospensione e di irrealtà, un miniaturismo e al tempo stesso un’epicità degli eventi narrati.

Le sue storie apparentemente possono far pensare a delle parabole aventi finalità educative e devozionali, in realtà, pur nella pregnanza dei contenuti mistico-religiosi di cui sono intrise, si muovono su un terreno mitico, fondativo di strutture immaginative ed evocativo di simbologie ed archetipi. In tal senso ho trovato in Leskòv, per la visività e i contenuti di ciò che narra, riferimenti e rimandi che mi hanno fatto venire in mente le opere di due grandi artisti russi nel campo delle arti visive. Mi riferisco alle pitture favolistiche di Chagall e al cinema poetico di Paradjanov (in relazione al quale penso per esempio a quello stupendo film che è “La leggenda della fortezza di Suram”), laddove nei lavori di entrambi questi artisti campeggiano una messe di elementi iconici e simbolici che affondano nella tradizione sia delle iconografie che delle leggende popolari russe. Di ciò, in Leskòv, ne è un mirabile esempio il racconto “L’angelo suggellato” che ruota intorno al tema del culto e della sacralità dell’immagine.

Al centro del racconto è, infatti, un’icona raffigurante un angelo che è oggetto di adorazione da parte di un gruppo di operai, appartenenti ai cosiddetti “vecchi credenti” o scismatici , i quali mantenevano il culto per una fede basata sulla purezza della devozione alle sacre icone, chiamati, da un impresario inglese, a costruire un ponte sul Dnepr. A causa di un atto di prepotenza del locale funzionario, ai poveri operai vengono sequestrate le loro sacre icone e suggellate con della ceralacca. Tale trattamento viene applicato anche alla più preziosa delle loro icone quella raffigurante l’angelo, facendo sprofondare nella disperazione più totale i poveri operai: “Noi rispondemmo che fino a quando il viso dell’Angelo, per noi sacro, il quale era andato sempre avanti a noi, si fosse trovato suggellato col fuoco e la cera, nulla ci avrebbe potuto consolare e liberare dall’angoscia che ci logorava”. Iniziano qui le peripezie e le avventure del protagonista narratore: Mark Aleksandrovic uno degli operai, il quale viene mandato a cercare un particolare pittore di icone, l’unico per i “vecchi credenti” in grado di riprodurre l’icona raffigurante l’angelo secondo lo stile e la fattura dell’originale, col compito di portarlo sul posto e fargli realizzare una copia dell’icona, al fine di sostituirla di nascosto con quella originale, rientrandone così in possesso.

E quando – trovato il pittore, realizzata la copia, riprodotto pure il suggello, per far sì che apparisse del tutto simile all’originale sequestrato – sembra che le cose stiano per avere un lieto fine, accade un colpo di scena, lì per lì interpretato come miracoloso e inspiegabile, che finirà per mettere in crisi la fede degli operai “vecchi credenti”, portandoli a prendere una decisione che va contro i loro principi e la loro appartenenza religiosa. Lungi dal voler fare un discorso sulla religiosità in sé o dal voler dare giudizi morali, Leskòv stabilisce una dialettica tra sacro e profano, evidenziando, da una parte, l’ingenua, ma a suo modo disinteressata religiosità dei “vecchi credenti”, lietamente gioiosi nella loro fede e, dall’altra la prosaicità del mondo, oscillante fra lo scetticismo verso il culto delle icone espresso dall’inglese datore di lavoro degli operai e le manifeste meschinerie e angherie del funzionario e della moglie, per non parlare della “parte” furbescamente canagliesca fatta fare a un gruppo di commercianti ebrei che abbindoleranno il borioso funzionario.

Dal che se ne deduce come non manchi in Leskòv una forte vena grottesca e talora sfrontatamente comica che usa per mettere in ridicolo e, in un certo senso sdrammatizzare il senso delle cose. Altri aspetti peculiari del racconto sono poi il contrasto che Leskòv crea fra l’elemento russo e quello non russo rappresentato dall’impresario inglese e dalla moglie che saranno, a differenza della popolazione e delle istituzioni del posto, gli unici che aiuteranno fino alla fine i “vecchi credenti”, essendo questi oggetto di discriminazione, proprio per il loro credo, come peraltro effettivamente era nella realtà russa di allora, così come peculiare è la rappresentazione che Leskòv fa di differenti espressioni e manifestazioni della religiosità russa. Da quella superstiziosa e bassamente utilitaristica della moglie del funzionario, a quella misteriosa e magica dell’asceta Pavna che Mark Alexandrovic incontra durante il suo viaggio alla ricerca del pittore, oltre, ovviamente, a quella dei “vecchi credenti” e a quella della chiesa ufficiale, evidenziando in tal modo la dialettica tra diversi livelli di ispirazione e pratica religiosa, ma anche tra differenti visioni del mondo e modi di stare al mondo.

Ma se questi sono i temi, la suggestione dell’”Angelo suggellato” sta nelle atmosfere da cui è permeato e dalle figurazioni che vi si susseguono. E’ un “brulicare”, dove le persone, le cose, i luoghi, sono come figurine baluginanti, ora come sospese, lievitanti nell’ aria, ora luminosamente in movimento, ma come fossero state messe sotto una campana di vetro trasparente e da lì osservate. Le descrizioni di cose, luoghi, persone sono intagliate come fossero il prodotto di un fine cesellatore e questo dona loro quell’icasticità che le trasforma in simboli ed icone di se stesse. Se “L’angelo suggellato” si muove in questa dimensione poetica e figurativa, intima e interiore, “Il viaggiatore incantato”, invece, si estende e si apre nello spazio e nel tempo, in una vera e propria cavalcata tra avventure e disavventure, molto spesso al limite dell’inverosimile.

Il protagonista del racconto si chiama Ivan Sever’janyc (I.S.) il quale, racconterà ad una platea, fatta, in questo caso, di compagni di viaggio, la sua “storia”, intendendo proprio la storia della sua vita fino a quel momento. Leskòv “muove”, infatti, il racconto lungo un asse temporale prolungato, che parte dal momento in cui il protagonista, a inizio racconto, entra in scena,: “A questo nuovo compagno di viaggio, che poi si rivelò un uomo straordinariamente interessante, si sarebbero potuti dare un po’ più di cinquant’ anni” – in effetti lo stesso I.S. più avanti dirà di averne 53 – e prosegue a ritroso con la narrazione che I.S. farà delle sue vicende, dalla nascita fino a quel momento. Vicende che egli stesso, in apertura, così descrive: “….Ne ho passate di tutti i colori: ora col vento in poppa e poi alla deriva, e son stato prigioniero, e m’è toccato di combattere, e ho battuto gli altri, e degli altri m’han storpiato, e ne ho passate tante, che un altro non ci avrebbe resistito”

E la varietà di tali vicende implica l’altro asse su cui si sviluppa il racconto, cioè quello dello spazio, laddove Leskòv farà attraversare al suo protagonista le vastità della Russia, conducendolo fino nelle sperdute steppe asiatiche. E come un moderno documentarista, Leskòv ci fa vivere, in questo modo, le diversità etnico – culturali, nonché geografiche, russe, frutto questo da attribuire alle sue personali esperienze di viaggio fatte attraverso varie zone della Russia. Ecco quindi il perché del “viaggiatore” del titolo. Ma assai più intrigante è il perché di “incantato”. Esso infatti non va ricollegato a stupore, meraviglia, sorpresa, così come il termine incantato potrebbe far pensare, bensì a incantesimo.

Perché I.S. è, dalla nascita, soggetto ad un incantesimo che consiste in questo: “Per tutta la mia vita sono stato sul punto di perire e non ci sono mai riuscito”. In quanto I.S. è un figlio promesso a Dio, promessa fatta dalla madre alla sua nascita, destinato cioè a diventare un religioso e pertanto finché non si avvererà ciò, qualsiasi cosa, anche grave, gli accada non perirà: “Molte volte sarai sul punto di perire, ma non perirai neppure una volta, finché verrà la tua vera rovina e tu allora ricorderai la promessa di tua madre e ti farai monaco”. Così, mentre era ancora ragazzo, apparendogli in sogno, gli predice un monaco, di cui, I.S., in modo sconsiderato, poco prima, aveva causato la morte. Ma I.S. non se ne darà ragione e sebbene il monaco gli appaia di nuovo e gli dica: ”Senti, Testone, ho compassione di te: domanda subito ai padroni che ti lascino andare in monastero…..vedrai quanto male dovrai patire altrimenti”., I.S. andrà per la sua strada, inanellando le avventure più incredibili, con costante rischio della vita e soffrendone le relative sofferenze, ma senza per questo incontrare mai la morte.

E così Leskòv, attraverso la descrizione delle peripezie rocambolesche di I.S., ci fa passare davanti una varietà incredibile di personaggi e di situazioni: zingari, prostitute, mercanti, cavalieri, militari, vagabondi, monaci, villaggi tartari e scene di vita tartara, mercati, maneggi, ambienti aristocratici e popolari, taverne e poi ebrei, inglesi, tedeschi. E anche in questi incontri e in queste situazioni di cui I.S. è protagonista, ogni volta sembra che una malia lo tenga prigioniero degli eventi, a sottolineare il prezzo di sofferenze e patimenti a cui è soggetto a causa del suo rifiuto di non accettare senza rinvii il suo destino. E solo con modalità impreviste e imprevedibili talora magiche egli riesce di volta in volta a liberarsi e a salvarsi: perché l’amaro destino di I.S è soffrire per salvarsi per poi soffrire di nuovo in una iterazione infinita fra penitenza e salvezza. Nel loro incedere le vicende di I.S. assumono progressivamente un tono da leggenda, ma non eroica o segnata da eroismi, piuttosto di stampo picaresco, venata di toni grotteschi e talora irriverente. A suo modo I.S. cerca di godersi la vita finché può e come può, dilazionando il più possibile il destino che lo attende: questa è l’unica libertà che gli è concessa. Ma al suo destino in modo inevitabile dovrà alla fine sottostare divenendo, quando ormai tutte le risorse saranno finite, un religioso: “Voi siete un monaco o un diacono” gli chiedono i suoi compagni di viaggio. “No per ora porto solo la veste” dice I.S. . E quelli: “Ma pure siete un religioso?” “Già; tale mi considerano in generale” risponde loro I.S..

Ma questa grande favola che è “Il viaggiatore incantato”, bella non per una qualche morale o messaggio ad essa sottesa, ma bella in sé, per questo suo stare tra terra e cielo, tra libertà e perdita della libertà, in una sorta di percorso a spirale tra i gironi della vita, a differenza delle normali favole, come finirà veramente non lo sapremo mai. “Mi sforzo, taccio, ma lo spirito è più forte” dice, alla fine del suo racconto I.S. ai suoi compagni di viaggio, “E cosa vi dice ?” gli chiedono loro, “Sempre la stessa cosa” risponde lui. ”E andrete in guerra in tonaca e cappuccio?” “No; mi leverò il cappuccio e metterò le giberne” E di fronte a questo ennesimo risuscitare dello spirito che ha animato per tutta la vita I.S., Leskòv così conclude: “E il pellegrino ammaliato come se di nuovo sentisse in sé l’influenza dello spirito profetico, cadde in uno stato di estasi tranquilla, che nessuno degli interlocutori si permise di turbare. E che cosa si sarebbe potuto domandargli di più?. Il racconto del suo passato egli l’aveva fatto con tutta la sincerità della sua anima semplice e le sue profezie rimangono per ora nelle mani di Colui che cela i suoi disegni ai dotti e ai saggi, e solo li rivela talvolta agli innocenti”

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