“Ferito a morte” – Raffaele La Capria

“Ferito a morte”, non è un libro di facile presa. Soprattutto all’inizio costringe il lettore a mettere e tenere insieme elementi narrativi diversi, che vengono descritti per frammenti, con modalità temporalmente sfalsate, disseminati senza un’apparente unità.

Questo senso di spaesamento che induce la lettura di “Ferito a morte”, incide sulla comprensione delle singole parti, ma anche del senso generale che per un bel p0′ sfugge e si fa fatica a trovare.

Ad alimentare tutto ciò, contribuiscono poi le scelte stilistiche e il linguaggio volutamente scelti da La Capria che, ispirandosi alle sperimentazioni linguistiche di Joyce e alle tecniche narrative della Woolf, introduce per la prima volta, nella letteratura italiana, innovazioni nell’uso del linguaggio e nella scelta delle modalità espressive che rompono la linearità e consequenzialità tradizionali, non solo della narrazione in sé, ma anche delle modalità narrative, alternandosi: monologhi, flussi di coscienza, discorso diretto e discorso indiretto, incisi, digressioni, cambi frequenti dell’io narrante (pluralità dei soggetti narranti).

Detto ciò “Ferito a morte” è però un’opera profonda e complessa sia da un punto di vista letterario che intellettuale. In essa si intrecciano più discorsi: soggettivi, personali, introspettivi, esistenziali, ma anche civili, storico-sociali, culturali, collettivi. Parlando di Massimo il protagonista, delle sue vicende in relazione al contesto familiare, umano, sociale e ambientale in cui si muove, La Capria ci descrive un mondo individuale e collettivo votato ad un ineluttabile fallimento e decadimento, dove un declino ed un disincanto inesorabili avvolgono e permeano il destino di tutti.

In pratica, volendo, già nella prima pagina si consuma e si staglia tutto ciò che verrà detto e descritto dopo, allorché la famosa “Grande Occasione” della cattura della spigola da parte di Massimo, si trasforma inesorabile, in pochi attimi, nella “Grande Occasione Mancata”, in conseguenza del fallimento di tale cattura, essendo la spigola sfuggita ad essa.

E così, man mano è come se si dipanassero due livelli, uno quello reale e concreto dei fatti e degli avvenimenti narrati, ed un altro metastorico e più universale che evoca miti profondi che rimandano al binomio vita/morte e all’impossibilità dell’uomo di dominare il mondo e di conoscerlo effettivamente.

Ci resta in sostanza l’impressione che al più ci sia dato possedere dei frammenti, dei momenti, dei ricordi il cui senso unitario e compiuto però ci sfugge, perché ci sfugge la possibilità stessa di essere padroni e protagonisti fino in fondo della nostra vita. Ed è forse proprio la parola sfuggire la parola chiave di “Ferito a morte”.

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