Non aveva occhi per piangere, non aveva occhi per ridere, né per posarsi lieti sull’ amata, né per mirare il sole, né per mirare la luna, non aveva occhi per osservarsi né per interrogarsi, non aveva occhi per scrutare il mare, né per esplorare le lontane distese, non aveva occhi che scorressero su le scritte parole, né aveva occhi che apprendessero da le scritte parole, né aveva occhi che si aprissero sul giorno così come che si chiudessero sulla notte, non aveva occhi per specchiarsi nella luce, né per specchiarsi in ciò che limpido è, non aveva occhi di bambino né per chi bambino è, né occhi di antico sapiente aveva, né aveva occhi innocenti, né occhi colpevoli, né stanchi né forti, né saggi né ignari, aveva solo occhi fissi nel Vuoto Orrore dell’Infinito.
Raffaele
“Lazzaro risuscitato in fissità guardava…D’allora in poi, a prova conobbero molti l’annientatrice onnipotenza di quel guardare; ma nessuno…poté mai rendere ragione a sé stesso dell’essenza orrenda che nel profondo delle nere pupille sue sussisteva immota. Semplicemente, imperturbato Lazzaro guardava, senza intenzione di dir qualcosa, senza proposito di nulla celare: guardava soltanto, glaciale, con infinita apatia, astratto da cosa vivente…
Un morto egli era stato per tre giorni: tre volte sorto e tramontato il sole…E ora di nuovo tra gli uomini: li accosta, in fissità li guarda…come da tetri vetri, in fissità guarda sugli uomini lo stesso incomprensibile Aldilà…
Ed ecco che Lazzaro giunge da due innamorati, un adolescente e una fanciulla, bellissimi nel loro amore. Baldo e vigoroso, cingendo l’amata, l’adolescente gli disse con impietosa soavità: “Dacci uno sguardo, Lazzaro, e rallietati con noi. C’è forse qualcosa di più possente dell’amore?” E Lazzaro diede il suo guardare.
Continuarono essi ad amarsi il rimanente della vita: ma triste e crepuscolare divenne il loro amore – simili a cipressi sepolcrali che, alimentando le radici nella putrefazione dei tumuli, tentino invano la placida ora della sera con la gracilità delle loro cime. Gettati nelle braccia l’un dell’altro dall’ ignota forza vitale, confondevano essi baci e lagrime, piacere e dolore, sentendosi schiavi due volte: schiavi sottomessi alle esigenze della natura, schiavi alla mercé del minacciante tacente Nulla.
Perpetuamente congiunti, perpetuamente disgiunti, sbraciavano come faville, e come faville si spegnevano nelle tenebre sconfinate…Andava così in isfacelo sotto l’estraneo guardare del redivivo tutto ciò che serve ad affermare la vita, il suo senso e la sua gioia…
L’indomani, per ordine dell’imperatore, con ferro incandescente abbacinarono Lazzaro degli occhi; e lo rimandarono in patria….La conoscenza maledetta, davanti alla minaccia del ferro incandescente, si era rinselvata nel profondo del cranio di Lazzaro; e là, s’occultava come in un covo: e dal suo nascondiglio affondava nell’uomo l’aculeo di mille invisibili occhi.
Ma ormai, nessuno più ardiva neppur guardarlo…Ora accadde una volta che, incamminatosi, più fece ritorno.”
( Leonid Andreev – “Lazzaro”, in: Andreev – “Lazzaro e altre novelle” – introduzione di Clemente Rebora; con uno scritto di Piero Gobetti – Passigli Editore – 1993 – pp. 19-53)
Ammutolita dalla bellezza dei due scritti, il tuo e quello di Andreev .
E poi stupita dalla lettura insolita ( ma assolutamente possibile ) di una resurrezione.
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Grazie davvero Giacinta.
Si, anch’io quando ho letto la novella di Andreev sono rimasto ammutolito dalla sua potenza immaginifica che, al di là dei suoi significati, è emotivamente fortissima.
Grazie di nuovo.
Raffaele
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Sono contento di essere venuto a conoscenza della tua lettura di Lazzaro per mezzo di una scrittura che corre su binari paralleli che si incontrano al cuore del problema. La morte e ciò che rimane della vita.
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Grazie della visita e del commento. Si, bello trovare, pur nella diversità delle forme e degli approcci, analogie e parallelismi negli approdi e negli esiti delle letture che si fanno.
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