“Gli amori di mia madre” – Peter Schneider

“Gli amori di mia madre” è, prima di tutto, un romanzo su una grande passione amorosa, sul sentimento dell’amore, sul bisogno di essere amati. Ne è protagonista la madre di Peter Schneider il quale, a più di 60 anni dalla morte della madre, decide di raccontarne le vicende sentimentali che ella visse nel pieno degli anni della guerra e di cui lasciò testimonianza nel fitto epistolario che intrattenne con gli uomini di cui si innamorò, sebbene sposata e madre di quattro figli.

Quello in cui veniamo condotti è un esemplare lavoro di ricostruzione di quelle vicende di cui, senza perdere nulla in termini di ancoraggi storico-biografici, Schneider ce ne fa vivere tutta l’eccezionalità, intensità e cupa drammaticità che le contraddistingueranno. In un gioco speculare di narrazione “interrogante” qual’è quella che Schneider fa sulle narrazioni contenute nelle lettere di sua madre, immesse nel flusso testuale diventandone parte integrante, assistiamo – nell’apparente distacco di un procedere narrativo disteso e pacato che toglie ogni sentore tragico ad una storia di per sé tragica – a un lavorio incessante e talora impietoso sulle dinamiche, la psicologia, i sentimenti, le emozioni anche laceranti a cui quelle vicende diedero luogo. E, pur senza perdere mai il filo del suo personale percorso privato, Schneider riesce a liberare la storia di sua madre dalla sua natura di caso particolare e a farla diventare creazione letteraria, scolpendo e scavando i caratteri di un personaggio, di una “figura” che ben presto vive di luce propria e ci parla di quell’eterno mistero che è l’animo umano e, in misura ancor più complessa, l’animo femminile. Il movente che spingerà Schneider a “indagare” su sua madre e a scriverne nasce da un bisogno di scoprire ciò che di lei in fondo non ha mai saputo, né voluto saperne, essendosi deliberatamente, per tutta la vita, staccato dal suo passato. Nasce, insomma, da un’esigenza di ricongiungersi con quel passato, in una sorta di ricerca di riconciliazione e riappacificazione con esso e con quella madre, di fatto poco o niente conosciuta: “Nelle lettere parla una donna che non conoscevo” egli dice, essendo per altro morta a 41 anni quando egli ne aveva solo 8. Vi è quindi alla base de “Gli amori di mia madre” un bisogno di comprensione scevro da alcun intento giudicante: “Potevo solo tentare di comprendere lei e la sua breve esistenza” dice Schneider, che, la lettura delle lettere, conservate per anni, ma mai lette fino a quel momento, farà diventare una vera e propria necessità.

E il tema di affrontare la propria storia familiare e scriverne per comprenderla, risalendo a partire da essa a una “lettura” più complessiva dello sfondo esistenziale, pubblico, storico e sociale in cui essa si inscrive si ripropone qui, evidenziando un suo ricorrere nella letteratura tedesca contemporanea. Penso a lavori come “Infelicità senza desideri” di Peter Handke, e “Ritratto della madre da giovane” di Friedrich Christian Delius entrambi incentrati anch’essi sulla figura materna o a “Come mio fratello” di Uwe Timm incentrato sulla figura del fratello e della sua famiglia. Ma “Gli amori di mia madre” è anche un libro sulla memoria e sul bisogno di alimentarla, risentendosi al suo interno lo spirito della lezione sebaldiana sull’incombere dell’oblio che cancella le cose e le getta in un cono d’ombra che le risucchia e le fa scomparire: “Eventi che non vengono mai verbalizzati finiscono prima o poi nell’oblio. E infine è come se non si fossero mai verificati” dice a un certo punto Schneider. Sebbene questo non significhi necessariamente che lo svanire del ricordo delle cose non lasci tracce nelle storie individuali e collettive di coloro a cui quei ricordi appartengono, così come più oltre egli si interroga: “I miei ricordi delle cantine e dei rifugi sotterranei sono completamente svaniti. Ma ciò significa anche che non hanno lasciato tracce? Le esperienze di cui non ci ricordiamo non sono forse anch’esse esperienze? Fanno parte della biografia e del carattere oppure, dato che sono state dimenticate, possono essere definitivamente stralciate, considerate come non avvenute?”.

Questo intercalare la riflessione e il pensiero, il soffermarsi a cercare un senso, l’ipotizzare ragioni e cause in merito ai fatti e agli avvenimenti narrati è una costante nel procedere di Schneider che tesse in tal modo un tessuto connettivo introspettivo e interpretativo intorno allo sviluppo narrativo vero e proprio di quella sorta di epopea materiale, sentimentale ed esistenziale che fu la vita di sua madre così come filtrata attraverso le sue lettere. E quello che più colpisce nella ricostruzione di questa epopea è l’assoluta anticonvenzionalità di questa donna che si espone, senza difese, ad una radicalità e ad una idealizzazione estrema nel vivere ed esternare i propri sentimenti. Tuttavia questa anticonvenzionalità non è il frutto di un qualche consapevole processo di rottura di regole e schemi socialmente condivisi, non è, in altre parole, la madre di Schneider, una precorritrice di un nuovo e diverso modo d’essere dei costumi del suo tempo, né è una paladina di una concezione trasgressiva del vivere bensì è una donna agita da una pulsione amorosa fortissima di cui saranno investiti uomini che non solo non la corrisponderanno così come il suo altissimo desiderio d’amore pretenderebbe, ma ne frustreranno e ne deluderanno continuamente le sue aspettative.

E’ quindi il versante privato e psicologico di questa donna che ne rivela tutta la sua anticonvenzionalità. In questo senso, già nelle prime righe, Schneider ce ne dà una definizione indicativa della sua personalità: “… la madre che ho nella memoria, una forza della natura a volte dolce e protettiva, a volte profondamente triste, altre volte ancora selvaggia e incontrollata”. Una sorta di personalità multipla capace, come sarà, di incarnare diversi ruoli e diverse identità: madre irreprensibile e, al tempo stesso, amante appassionata e senza freni; moglie che resterà sempre affezionatissima a un marito con cui farà 4 figli ma che tradirà incessantemente facendolo per altro partecipe, lui consenziente, dei suoi amori; donna coraggiosissima e dotata di grande senso pratico che traghetterà, da sola, se stessa e tutti i figli, sani e salvi, dall’estremo nord all’estremo sud della Germania in pieno conflitto bellico e, al tempo stesso, donna sognatrice e irrealistica votata a un’idea di amore assoluto e puro.

Ed è proprio questa assolutizzazione nel darsi e nel pretendere dall’altro che faccia altrettanto che connoterà le storie d’amore e l’idea dell’amore di questa donna. E se ciò non avviene, come appunto non avverrà, questo non toglie che l’intensità del sentimento resti inalterata, come se si fosse preda di forze superiori alle quali non ci si può sottrarre. Vi è, nella madre di Schneider una visione destinica dell’amore, nella quale ci si disinteressa dei dati di realtà che evidenziano l’impraticabilità di quell’amore e, indifferenti a ciò, si resta ostinatamente, direi intransigentemente, fedeli al proprio sentimento e a colui a cui è rivolto. L’amore diventa un’esperienza eroica, coltivata e nutrita prima di tutto con se stessi e in se stessi, una sfida al suo stesso inappagamento e le lettere e lo scrivere sono il mezzo per alimentare, sfogare, dare uno sbocco a quella violenta e, al tempo stesso, dolorosa esperienza emotiva: “La scrittura era per mia madre un mezzo di sopravvivenza, un’arma con cui cercava di tenere a bada le forze distruttrici che la assalivano sia dall’esterno che dall’interno. E la forma della lettera fu la traduzione di ciò”.

E, in tutto questo, vi è un’intrinseca provocatorietà che stordisce e disorienta gli uomini di cui si innamorerà, assolutamente refrattari ad un coinvolgimento di quel tipo, legati, come essi sono e come essi vogliono restare, alle loro vite reali e ufficiali che non consentono, se non entro ristretti limiti, di concedersi a quella donna e a quel tipo di amore. In questo senso, letterariamente parlando, la madre di Peter Schneider sembra un personaggio kleistiano proprio per questa ricerca di assoluto e per l’intransigenza che lo pervade, basti pensare al “…suo motto, caparbiamente ostentato: quanto più difficile e disperata è la situazione, tanto più intransigente divento” riporta Schneider. C’è una sorta di senso morale assoluto, un’ingenuità e insieme una rettitudine che rendono questa donna fiera, orgogliosa, passionale e rigorosamente fedele a se stessa, ricordando, in questo senso, i tratti di un personaggio tipicamente kleistiano quale Michele Kohlhaas e, non a caso, ella stessa da giovane aveva “il sogno di diventare attrice…per interpretare la Katchen di Kleist” ci dice Schneider, cioè quella Caterina di Helbronn protagonista del noto e omonimo dramma di Kleist, le cui vicende sono dominate dall’amore totale della protagonista per un cavaliere.

Insomma è come se questa donna vivesse in una sorta di eterno apogeo romantico segnato, com’è tipico della più classica tradizione romantica, da una profonda malinconia: “Fin dall’inizio l’amore di mia madre per Andreas è segnato da una profonda malinconia, da un presagio di inutilità e di fine. Per riuscire a dominare questo sentimento cerca di fissarlo in immagini di cupa bellezza”, ci dice Schneider a proposito di come sua madre visse l’amore per Andreas, l’uomo che più di ogni altro ella amò, ma senza essere da questi mai pienamente corrisposta, rivelandosi anzi più volte, nei confronti di lei, un vigliacco.

Insomma è come se ci fosse in questa donna una tensione fortissima verso una ricerca di armonia la quale, però, non solo non è raggiunta ma è come se ella volesse perseguirla anche di fronte all’evidenza dell’impossibilità del suo raggiungimento e, in questo senso, un tormentato senso di fatalità aleggia in questa donna e su questa donna: “ Una volta ascolta in albergo una giga di Johann Sebastian Bach…L’incorruttibile integrità, l’assolutezza e l’ammaliante tenerezza di questa musica, scrive ad Andreas, l’ha soggiogata e sconvolta. Ha percepito di nuovo come tutte le cose grandi siano apparentate. Quando l’anima – in ragione di un grande, forte appagamento – abbandona la propria scorza, lasciandosi catturare ed elevare, allora lo stato raggiunto è simile a quello di ogni altro sentimento di felicità, a prescindere se l’occasione è una forte esperienza artistica o di tipo personale. E così, conclude, si formano questi strani legami, quasi inestricabili, che un cuore che ama crea tra l’oggetto del proprio amore e ogni cosa bella, sublime di questa terra”, racconta Schneider riportando le parole di sua madre.

Ma questa percezione del sublime si scontra nella realtà con la continua e penosa dilazione del suo esito: “Non sono forse giustificata dal fatto che dei 5 anni da quando ti conosco ne ho passati 4 ad attendere senza far nulla, spesso invano, solo ad aspettare te? Speravo nei pericoli della guerra, speravo che finisse, speravo nella vicinanza con te, che eri a Monaco: in ogni situazione il cuore cercava un futuro, un senso per la tua vita. E se non c’era lo inventava”, scrive ad Andreas. In realtà ella vive in una condizione di profondo isolamento, chiusa in suo mondo fatto di proiezioni, fantasie e desideri, lontano dallo stabilire effettive e concrete relazioni di condivisione della vita, tanto che persino il marito non le sarà di fatto mai accanto – occupato anch’egli dal suo lavoro di musicista come per altro Andreas, regista d’opera, oltretutto entrambi amici e impegnati artisticamente negli stessi ambiti – pur restando lei e il marito sempre uniti e affettivamente legati risultando egli colui che incarnerà la sicurezza, lo scoglio a cui aggrapparsi ed accettando, a sua volta, gli amori della moglie senza apparenti turbamenti.

E così il grande amore non si concretizzerà mai, non essendo impersonato dal marito, né si realizzerà con i suoi amanti perché al fondo vi è un bisogno di affetto così profondo e radicale che affonda nell’infanzia e che pretende un investimento altissimo per poter essere soddisfatto, e ciò non solo da parte di Andreas, per altro assolutamente inadeguato ad un compito di questo tipo ma, presumibilmente, da parte di qualsiasi uomo. Scrive infatti in una delle sue ultime lettere la madre di Schneider: “ Ebbe inizio già nell’infanzia, e nessuna ora di sonno conquistata a fatica è riuscita a farmene dimenticare la mancanza. Non ci fu mai l’abbraccio che trattiene la bambina nel cuore del proprio mondo, mai il sonno sereno vegliato dai genitori, mai l’assolutezza dell’amore che tutto dona. E spesso dispero di trovare qualcuno che possa cicatrizzare questa ferita, qualcuno che senza parole sappia recarmi un aiuto che non sia un inganno, perché la ricerca di un surrogato è sempre un inganno. E all’improvviso ci sei tu, e io lo sento dalle tue mani , dai tuoi occhi, da tutto ciò che non dici: ecco colui che potrebbe riuscirci. E così il bisogno si fa forte, alza la voce, sempre più, contro la mia stessa volontà, e sovrasta la mia coscienza e il mio buon senso: copre ogni cosa. E di nuovo mi spezzo, perché sento tutti gli spazi ancora vuoti con la consapevolezza che non saranno mai colmati”. Ed è questo forse il vero, autentico, sincero e doloroso ritratto di questa donna, rimasta per tutta la vita sola con questo suo grande bisogno d’amore inappagato e irraggiungibile al punto che quel desiderio ha finito per vivere di una vita sua propria, indipendente dall’oggetto a cui era rivolto, perché, come si chiede con un’interrogazione amaramente retorica Peter Schneider alla fine: ”Ma il sentimento di un desiderio che consuma, un desiderio magari inappagato, non è sempre stato più importante per lei dell’oggetto che lo incarnava?”

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