Tonio Kroger (T.K.) è un testo affascinante perché con una prosa, uno stile e un procedere narrativo di impareggiabile bellezza affronta e sviluppa, con lucide analisi, prive di concessioni, questioni di tale rilievo da farne un’opera di altissimo spessore intellettuale.
Ma pur contenendo tali raffinate riflessioni T.K. resta, prima di tutto, un’opera di squisita letteratura, perché ci parla con intensità e lirismo e ci rende sinceramente partecipi delle vicende di T.K., facendoci penetrare con uno scavo, talora impietoso, nel più profondo della sua esistenza.
I punti di approccio da cui partire per la lettura di T.K. sono innumerevoli data la ricchezza e complessità dei temi in esso contenuti. C’è tuttavia un nesso profondo, nonché elemento ricorrente che attraversa tutto T.K. ed è quello delle diversità e degli opposti, dell’illusione di una loro conciliazione e dell’inesorabile presa d’atto finale della loro inconciliabilità.
La prima e più assoluta di tali diversità a cui tutto rimanda è quella relativa al mistero stesso del modo in cui si manifesta la natura umana, all’ esistere cioè di un modo diverso di vivere e percepire le cose, di una diversa sensibilità che porta alcuni, come T.K., a sentire più profondamente e intimamente l’esistenza di quanto facciano altri come Hans Hansen e Ingeborg Holm rispettivamente il miglior amico e il primo amore di T.K. i quali sono per loro natura felici e risolti, privi di inquietudini e di introspezioni.
T.K. sa di essere diverso da loro ma ne è attratto e vorrebbe legare a sé Hans e Inge, provando per loro un profondo amore, ma ciò non si realizzerà mai, né durante le frequentazioni che T.K. ha con loro quando è ancora ragazzo, né in età adulta quando li rincontrerà dopo molti anni. T. da una parte e Hans e Inge dall’altra non parlano e non parleranno mai la stessa lingua: “Poiché la loro lingua non era la sua”. Se Hans e Inge esprimono il fluire libero e potente della vita, della sua forza misteriosa e incessante, T. vive tutta la irrimediabile diversità di uno spirito superiore ma profondamente tormentato che lo porterà, quasi come fosse un destino inevitabile, all’ esperienza della creazione artistica, divenendo scrittore e letterato affermato.
Eppure T.K. porta in sé questa ambivalenza fra aspirazione ad un comune sentire con chi libero da ogni sorta di conflitto è risolutamente normale e quella sua ipertrofia esistenziale che è alla base stessa dell’atto creativo e del fare arte. Ma questo conflitto in T.K. è un conflitto esistenziale che rimanda ad un conflitto biografico, manifesto nelle diversità che già intercorrono fra il suo nome e il suo cognome. Cioè fra quel Tonio, diminutivo di Antonio, nome di impronta mediterranea, ben diverso dagli Erwin e dagli Hans organicamente tedeschi, che lo farà sentire da subito un diverso, a fronte di quel cognome Kroger inoppugnabilmente borghese e germanico.
Laddove nel nome vi è contenuta “mia madre, d’indefinito sangue esotico, bella, sensuale, ingenua, al tempo stesso passionale e indolente e di un’impulsiva leggerezza” e nel cognome: “Mio padre…un temperamento nordico: contemplativo, profondo, corretto per puritanesimo e incline alla malinconia”. Duplicità peraltro corrispondente a quella della biografia di Thomas Mann essendo la madre di origini brasiliane e il padre assolutamente tedesco.
Ma tornando a T.K. egli vive scisso e in conflitto fra questi due mondi: “Io sto tra due mondi, di cui nessuno è il mio, e per questo la mia vita è un po’ difficile”. La sua natura borghese lo attrae verso le regole e la normalità, le origini materne verso il lavorio instancabile e incessante che l’atto creativo implica, da cui la famosa frase che gli rivolgerà Lisaweta Iwanowna, la pittrice sua amica che nel dialogo che occupa tutta la parte centrale del racconto alla fine gli dirà: “Lei è un borghese sulla strada sbagliata, Tonio Kroger – un borghese che si è smarrito” .
Ma l’identità di T.K. si gioca tutta nella sua identità di artista e il tramite col mondo e con la vita è filtrato inevitabilmente dall’ essere artista. E qui si introduce un altro conflitto e un’altra opposizione lacerante in quanto T.K. non vuole essere un letterato esclusivo ed elitario, amato ed apprezzato solo da chi ha la sua stessa sensibilità: “Di tanto in tanto mi capita di salire su un podio, di trovarmi in una sala di fronte a esseri umani venuti per ascoltarmi…succede che io mi osservi a guardare tra il pubblico…Ma non trovo mai quello che cerco…Trovo il gregge e la comunità che già conosco, un’adunanza, quasi di primi cristiani: gente dai corpi sgraziati e dall’ anima sensibile, gente che, per così dire, cade sempre, …e per la quale la poesia rappresenta una dolce vendetta sulla vita – sempre e solo gente che soffre, che è consumata dal desiderio e che è delusa, e mai nessuno degli altri, di quelli dagli occhi azzurri,…che non hanno bisogno dello spirito”
T.K. vorrebbe parlare ed essere ascoltato anche da questi ultimi e non essere un “letterato per letterati” per usare al riguardo una efficace espressione adoperata da Giuliano Baioni nella bella introduzione. Dirà sempre a questo proposito T.K. : …il mio amore più profondo e più nascosto va ai biondi, a quelli dagli occhi azzurri, ai luminosamente vivi, ai felici, agli amabili e ordinati. Non biasimi questo amore Lisaweta; è buono ed è fecondo. C’è nostalgia, dentro, e malinconica invidia, appena un po’ di disprezzo e una grande, casta felicità”.
Ma in questo appello, quasi sofferente che T.K. esprime e con cui si chiude, non a caso, il racconto, si afferma, l’aspirazione di Thomas Mann per una letteratura alta ma universale che arrivi anche a quel pubblico a cui vorrebbe arrivare anche T.K., perché, come osserva Giuliano Baioni, per Mann :”L’artista… scrive per la vita, scrive per gli altri”.
Da cui quest’ulteriore considerazione di Baioni, sul modo di procedere di Mann: “Il lirismo malinconico e sentimentale del racconto ha così assicurato già a diverse generazioni di intellettuali il piacere di sentirsi diversi dai semplici e superiori ai semplici e di conservare al tempo stesso, proprio attraverso l’esperienza di questa malinconia, l’illusione o il desiderio della semplicità…D’altra parte… anche il lettore più semplice…poteva avere l’illusione di partecipare pienamente all’impervia avventura dello spirito. Soddisfacendo in questo modo, da vero imparziale monarca della cultura, sia il bisogno di semplicità del lettore intellettuale che il bisogno di cultura del semplice lettore”
Insomma un’operazione sofisticatissima dove l’inconciliabilità che si afferma nel racconto, in realtà si supera nell’ opera d’arte in sé, nella creazione dell’artista inteso come Thomas Mann.
Merita in conclusione di accennare anche ad un altro tema forte presente in T.K. e cioè l’impossibilità dell’arte di ricomprendere e contenere il fluire e la complessità della vita, emergendo in tal senso un ulteriore conflitto/opposizione tra quelli presenti in T.K.: “…il letterato non capisce che la vita può voler continuare a vivere e che non si vergogna per questo, anche dopo essere stata espressa e “liquidata”. Invece pecca, continua sfrenatamente a peccare, indifferente ad ogni redenzione da parte della letteratura”.
E per quanto il letterato e l’artista in generale si illuda di “sistemare” la vita tanto più essa gli sfugge inesorabilmente, “la vita nella sua seducente banalità”.