Ci sono libri che ci parlano di luoghi, di persone e di fatti a noi del tutto estranei, la cui lontananza è tale che potrebbe risultarci incolmabile. Tanto più quando questi libri parlano di un mondo non solo distante ma che non esiste più. Anzi che non esisteva già più nel momento stesso in cui sono stati scritti. Eppure può accadere che, come per effetto di un misterioso incantesimo, quei libri luccichino, preziosi e smaglianti di fronte a noi, con un nitore che fa apparire quel mondo lontano, vicino, più di quanto sia quello in cui viviamo, che ce lo fa sentire vivo nonostante noi sappiamo che è scomparso per sempre.
E questo perché quei libri hanno in sé un segreto richiamo che tocca e ammalia la nostra anima e la nutre, il richiamo della bellezza. Allora accade che le barriere di tempo e di spazio si annullino e si instauri un’ininterrotta quanto suadente attrazione tra noi e ciò di cui quei libri parlano, catturandoci e rendendoci felici di essere divenuti dei loro inermi prigionieri. E “Un ermellino a Cernopol” è proprio uno di questi libri. L’incantesimo che le sue pagine emanano sprigiona quell’intima bellezza che solo le cose depurate della loro materialità e trascese nella loro essenza possiedono.
In tutto ciò che vi è narrato è sempre presente uno sguardo che non nega, non nasconde nulla ma, nel rispecchiare quella realtà, ne smaschera la sua intima irrealtà e come tale ce la restituisce. E’ come se fossimo contemporaneamente nel regno del “dove” ma anche in quello del “non dove”. Perché se è vero che lo sguardo dell’io narrante è lo sguardo dell’infanzia, giacché è attraverso gli occhi di se stesso bambino che Rezzori racconta, tuttavia egli non fa una riduzione “favolistica” di ciò di cui narra, ma introduce in quello sguardo una sorta di “spregiudicata innocenza” che libera quello sguardo, facendolo spaziare su quel mondo di Cernopol che finisce per apparirci come la rappresentazione di se stesso pur non venendo mai meno a se stesso, come se la scena fosse già essa stessa messa in scena.
L’effetto è una qualità narrativa che rende “Un ermellino a Cernopol” un capolavoro di leggerezza. Perché Rezzori coniuga in modo impareggiabile il senso dell’epos con una innata capacità di mantenere sempre viva quella leggerezza con cui stempera i drammi dalla loro tragicità lasciando intatta tutta la loro epicità. Anzi si ha spesso la sensazione che la sua prosa lieviti, si sollevi sulle cose, rendendoci sopportabili anche quelle cose che per loro natura non lo sarebbero. Lungi dall’essere un libro autobiografico “Un ermellino a Cernopol” è piuttosto una rievocazione e al tempo stesso un’evocazione, un “ritratto dal vero” lo potremmo definire, di quel luogo Cernowitz (la Cernopol del romanzo) dove Rezzori nacque. Non un libro di memorie quindi, ma un libro di memoria, di una memoria trasfigurata fino a farsi poesia.
Cernopol e la sua regione la Bucovina erano state parte dell’ Impero Austro-ungarico, venendo, dopo la sua caduta, annesse al regno di Romania. Siamo quindi nel sudest europeo e in quel particolare momento immediatamente successivo al primo dopoguerra e alla scomparsa del dominio asburgico, essendo quello il momento in cui Rezzori ambienta il romanzo. In virtù di quella sua collocazione geografica Cernopol è un crogiolo di razze, di lingue, di culture, è un crocevia a cavallo tra oriente e occidente, è levantina e, al tempo stesso, europea. E, in ragione di quel momento storico, in essa riecheggia ancora la eco di quel mondo imperiale e asburgico a cui essa era appartenuta di cui le è rimasta “l’eredità del più sclerotico ordinamento burocratico di tutta la storia universale”, a fronte del riemergere di quella eterogeneità fatta in primo luogo di slavi, di tedeschi, di rumeni, di ebrei che, privi del collante della monarchia, si reimpossessavano della propria identità vuoi per difenderla, vuoi per imporla.
In questo senso Rezzori coglie e trasmette quel senso di declino derivante dal crollo dell’Impero e il sentore di quella dissoluzione foriera di conflitti che esso lascerà. Ma nel fare questo Rezzori si fa solo testimone perché lo sguardo di quel bambino che racconta è uno sguardo che guarda il mondo con una prospettiva che è in lui da prima che tutto ciò avvenisse e sente che quella sua prospettiva e il mondo che sta sorgendo sono destinati a separarsi. “Un ermellino a Cernopol” è, in tal senso, un romanzo squisitamente mitteleuropeo, perché in esso pulsa quel “mondo di ieri” che nonostante sia colto e descritto nel suo tramonto, tuttavia di esso se ne sente tutta l’intima nostalgia. Non con l’illusione di ridestarlo ma con la malinconia di saperlo perduto.
In “Un ermellino a Cenopol” tutto è come ammantato in un alone mitico, le persone si trasformano in personaggi, i luoghi in scenografie, i fatti in eventi anzi in epopee. Ogni avvenimento sebbene reale irradia un che di inverosimile, la realtà è piena di crudezze ma di esse nulla è rimosso o sottaciuto, giacché a Cernopol anche le bassezze stanno o vengono portate in scena. Alla ricerca del “significato” si sostituisce la creazione di significati e se il mondo è un enigma non resta che togliergli il peso della sua oscurità e lasciare libera l’immaginazione di fare il suo corso così come Rezzori e i suoi fratelli di cui, nel suo raccontare, egli è portavoce e interprete, facevano.
Perché se gli adulti a Cernopol del mondo ne vivono la sua dissacrazione essendo quello il senso che rivelano di attribuirgli ma, di fatto, del mondo ne ignorano il senso, i bambini che cercano di comprendere l’incomprensibile che vi è nel mondo si accorgono della sua misteriosa indecifrabilità. E, senza saperlo, ne possiedono la sua segreta verità che sta proprio in quella indecifrabilità. La quale li stupisce ma non li smarrisce venendo trasformata, come essi fanno, in una continua fonte di curiosità e di creatività. “Perchè in quella conquista del mondo che è la nostra infanzia” – dice Rezzori – “tutto rimane immagine e allegoria”.
Ma anche Cernopol e i suoi abitanti hanno una loro creatività che però è tutt’altro che trasognata ed innocente perché a Cernopol di tutto si ride e tutto è irriso: “Il riso era onnipresente, era un elemento dell’atmosfera, una carica dell’aria, scoppiettante, pronta in qualsiasi momento, sempre sul punto di irradiarsi in fasci di scintille o di esplodere in grandi scariche temporalesche…a Cernopol il riso era elevato ad arte; anzi era veramente un arte popolare”. Ma quest’anima di Cernopol non è un’anima bonaria in quanto a Cernopol non si rideva “per cercare in una cordiale risata una sorta di liberazione…Lo stile delle nostre risate… era determinato dall’ironia e dal sarcasmo” E quindi Cernopol detesta qualsiasi tentativo di dare ordine, o un’apparenza d’ordine alle cose umane. Tutto vi è molteplice, contraddittorio, perché a Cernopol domina una “cinica concordia”.
Quest’anima “latina”, come lui stesso la definisce, è incarnata dal personaggio del prefetto Tarangolian, abile manipolatore e al tempo stesso conoscitore degli intrighi umani in cui “L’autentico e il falso si alternavano e si scambiavano…secondo un gioco che era nello stesso tempo spassoso e leggermente inquietante. Ciò che era falso riusciva a sembrare autentico, mentre l’autentico aveva fatalmente un cero sapore di falso” E se, come dice Tarangolian, con un’interrogazione retorica: “c’è forse una città al mondo più ligia all’ordine della nostra?” nel contempo egli stesso smaschera tutta l’inconsistenza di tale ordine quando afferma “che cosa si può pretendere di ottenere in una città nella quale si ride di tutto e tutto è alla mercé del riso?”
E di questa irriverenza sfacciata ed impietosa a farne le spese erano “coloro ai quali il destino aveva inflitto un carattere intransigente, tutto d’un pezzo [i quali] erano condannati al naufragio, dovevano rassegnarsi a perire senza pianto né compianto: facevano ridere tutti senza suscitare le simpatie di nessuno” E vittima predestinata di ciò sarà il maggiore Tildy, personaggio chiave del romanzo, le cui vicende ne costituiscono il filo conduttore. In un mondo come quello di Cernopol pieno di doppiezze, compromessi e sotterfugi la figura di Tildy è l’opposto di quel mondo. Il suo rigore, la sua inappuntabile serietà, il suo distacco altero, il suo esimersi dalla finzione, la sua correttezza estrema, porteranno Tildy alla rovina, in una parabola autodistruttiva quanto paradossale.
Perché Tildy non sarà colpevole per delle mancanze ma proprio perché non ha mancanze e non avere mancanze a Cernopol è la cosa peggiore che si possa fare. E così Tildy in nome della difesa dell’onore, di un onore peraltro indifendibile, quello della cognata nota in tutta Cernopol per i suoi facili costumi, pur di fronte all’evidenza del ridicolo in cui si sta cacciando, sfiderà a duello, uno dopo l’altro, tutti i suoi superiori finendo per essere preso per pazzo e come tale ricoverato in manicomio. Ma Tildy non è pazzo. Tildy è un sopravvissuto in quanto incarna nella sua estetica e nella sua condotta quel mondo che non c’è più da cui egli proviene, quel mondo austro-ungarico del cui esercito era stato ufficiale: “un mondo tramontato – appena ieri, ma in maniera tanto più irrevocabile – …un’epoca in cui…non si era gentiluomini se non si manteneva una posa di impassibile compostezza anche nel momento delle decisioni mortali”.
Tildy nel suo fare cavalleresco è un simbolo di purezza, anacronistico, ma pur sempre affascinante: “Un giorno vedemmo un ussaro a cavallo, lo riconoscemmo e ce ne innamorammo” rievoca Rezzori. Ma la purezza di Tildy non è solo estetica ma racchiude una umanità, di cui peraltro si rivelerà anche concretamente capace e che sarà la causa della sua morte che – in un mondo come quello di Cernopol, che rifuggiva dall’ idea delle anime belle – nessuno capirà.
Ma se la “storia” di Tildy è il fulcro essa è solo una delle innumerevoli storie che, come una fitta ragnatela, si intersecano e si intrecciano all’interno del romanzo. Attraverso questo senso di coralità, di affresco collettivo con cui Rezzori ricostruisce quello che, in fondo, è un microcosmo, egli riesce a farlo diventare uno “spazio letterario”. Un luogo cioè dove prendono vita personaggi simbolo che nella loro straordinarietà incarnano l’imperfezione del mondo e tutta l’umana disumanità della vita. Non solo Tildy ma un po’ tutti i personaggi di “Un ermellino a Cernopol” sono alla mercé del loro destino, come prigionieri di se stessi essendo a loro volta prigionieri del grande carcere della vita, come, a un certo punto, Rezzori stesso dice.
Una parola che ricorre nella parte finale del romanzo è la parola disinganno. Come il punto di arrivo della parabola della vita il disinganno sarà per molti dei personaggi che abitano il romanzo, anche per quelli più prometeici, lo scoprirsi vulnerabili e impotenti di fronte a forze “estranee e superiori”. Nella fine o nella non fine di molti personaggi vi è sempre qualcosa di grottesco e di misterioso insieme, che ci riporta a quell’enigma che sovrasta le cose, a quella indecifrabilità del vivere di cui si diceva. Ma forse tutto “Un ermellino a Cernopol” è un romanzo sul disinganno: su quello che sopravviene all’uscita dall’infanzia come accadrà a Rezzori, su quello derivante dalla fine di un’epoca, su quello che attende allorché si scoprono gli inganni della vita. E tra le tante cose affascinanti di “Un ermellino a Cernopol”vi è che il finale di questo libro è già scritto al suo inizio, perché nel suo incipit è racchiusa tutta la sua profonda verità: “Vi sono realtà estranee e superiori a questa nostra realtà che, essendo l’unica a noi nota, ci appare l’unica esistente”.