Il presente volume, edito da Adelphi, con il titolo di “Autobiografia”, raccoglie i cinque libri che costituiscono l’ “autobiografia” di Thomas Bernhard e cioè: “L’origine. Un accenno”, 1975; “La cantina. Una via di scampo”, 1976; “Il respiro. Una decisione”, 1978; “Il freddo. Una segregazione”, 1981; “Un bambino”, 1982. A corredare questa edizione concorrono i seguenti apparati: “Introduzione. Nell’attimo decisivo” di Luigi Reitani; “Cronologia”; “Note ai testi”; “Figure e luoghi dell’ “autobiografia””; “Bibliografia”. In considerazione della ricchezza e dell’estrema cura di tali apparati, nonché per la particolare qualità della veste editoriale complessiva, tale edizione riveste un notevolissimo pregio e si rivela preziosissima per la conoscenza e la comprensione dell’opera di Thomas Bernhard qui contenuta.
Tutto in Bernhard ha origine da un contrasto perché, sin dalle sue origini, egli è in una situazione di contrasto. Il contrasto preesiste alla sua nascita, ne contrassegna la nascita e dà l’impronta all’immediato inizio della sua vita. “Nel millenovecentotrentuno, quando ero stato messo al mondo,… in un’epoca che non accettava i bambini illegittimi l’inevitabile conseguenza di questa nascita sarebbe stata lo scandalo e l’ ostracismo ai danni di mia madre…per di più il figlio di un mascalzone, come mio padre soleva essere definito… Sembra che i due si incontrassero con una certa frequenza sotto la cosiddetta pergola del pometo della zia Rosina. Questo è veramente tutto ciò che so della storia delle mie origini. Lei fuggì dunque dal luogo della sua vergogna e se ne andò in Olanda dove fu accolta a Rotterdam da [un’] amica…Poichè non poteva guadagnarsi da vivere e nello stesso tempo starmi vicina, fu costretta a separarsi da me. La soluzione fu offerta da un motopeschereccio ancorato nel porto di Rotterdam nel quale la moglie del pescatore aveva sottocoperta dei bambini da curare sistemati in piccole amache…il primo anno della mia vita, tolti i primi giorni, l’ho passato interamente sul mare, non al mare bensì sul mare…Io sono, in fondo, un uomo di mare…sono figlio del mare, non delle montagne. In effetti in montagna non mi sento a mio agio, ho paura ancora adesso che le montagne mi schiaccino, in montagna mi sento soffocare.” ( “Un bambino” p.486)
Sin da questi primi momenti di vita tutta la vita di Bernhard – così come da lui narrata nella sua “Autobiografia”- si svolgerà in una sequenza di contrasti. In primo luogo vi saranno i contrasti che si manifesteranno sotto forma di un’insopprimibile insubordinazione verso tutto ciò che gli apparirà insopportabile, opprimente, soffocante. Verso cioè tutte quelle coercizioni, costrizioni, vessazioni, imposizioni con cui il mondo, la vita, l’esistenza tenteranno di imporsi su di lui. Ma in realtà egli vivrà anche cercandolo il contrasto, elaborando un modo di stare al mondo improntato sul contrasto, facendolo diventare la sua forza, il suo modo di vivere per restare attaccato alla vita, facendone il suo istinto vitale. Si, istinto, perché prima di essere una consapevolezza il vivere nel contrasto, in contrasto e per contrasto sarà per Bernhard un istinto connaturato e inestinguibile – ”…seguendo il mio istinto io ero andato nella direzione opposta. Al culmine della disperazione e del disgusto ero andato istintivamente,…ero corso nella direzione opposta, finalmente ero scappato via dalla direzione sbagliata e di corsa ero andato nella direzione giusta” (“La cantina” p.201) – e così facendo questo si rivelerà, per tutta la sua vita, la sua salvezza.
Vivendo in questo modo, questo gli consentirà infatti di elaborare vere e proprie strategie di sopravvivenza ma anche evolutive che lui stesso variamente declina, come appare da queste asserzioni tutte contenute ne “La cantina”.
Il contrasto come riappropriazione di sé: “Affidandomi completamente e al cento per cento al quartiere di Scherzhauserfeld in quanto direzione opposta alla mia esperienza e alla mia educazione, in esso avevo trovato protezione, nel contrasto più totale mi ero sentito ad un tratto a casa mia” (p.205);
il contrasto come coesistenza degli opposti per un’integrazione di bisogni e realtà diverse: “Era un anno, credo, che andavo nel quartiere di Scherzhauserfeld…Io amavo il contrasto, come amo ancora oggi soprattutto il contrasto, il contrasto fra il quartiere di Scherzhauserfeld e quindi la cantina e l’anticamera dell’inferno in quanto inferno e la vita in casa mia da un lato, e la musica e la Pfeifergasse dall’altro, è stato proprio il contrasto far tutte queste incompatibilità salisburghesi della mia giovinezza ciò che mi ha salvato, a questo contrasto io devo tutto” (p.112);
il contrasto come applicazione rigorosa su di sè: “Non facevo a me stesso nessuna concessione, e questo mi ha salvato e, fino a un certo punto mi ha reso felice.” (p.212); il contrasto con se stessi come condizione stessa dell’esistere: “Solo perché mi metto contro di me e perché in effetti sono sempre contro di me, mi riesce di esistere” (p.119);
il contrasto come controdipendenza sistematica verso il suo prossimo: “Dove saremmo andati a finire se avessimo dato retta alle persone che sono per così dire il nostro prossimo? Siamo sempre stati indotti a fare il contrario da questa evoluzione, che forse sarà ridicola, ma, come si vede, è vitale” (p.226)
Ora, da tutto questo, si coglie come questo vivere nel contrasto nasca, in Benhard, non da una costruzione ma da una sua innata sensibilità. Perché Bernhard che ha saputo raggiungere punte di raffinatezza intellettuale altissime, che ha saputo sviluppare nella sua opera capacità speculative e analitiche acutissime, che ci appare, dalla lettura dei suoi libri, dominato da un pensiero lucido e razionale è, in realtà, prima di tutto, un uomo di una sensibilità fuori dal comune. Che ha avuto il grandissimo merito, che ne fa la sua grandezza, di avere sempre, prontamente e instancabilmente, per tutta la vita, dato ascolto a quella sua sensibilità fuori dal comune che lui stesso definisce ipersensibilità: “Dopo tanti anni di vulnerabilità e violabilità siamo ormai diventati quasi inviolabili e invulnerabili, percepiamo le ferite che ci vengono inflitte, ma non siamo più ipersensibili come una volta” (p.222) il che non è solo dire l’intrinseca dolorosità che quella sensibilità procura ma è ammettere e riconoscere l’esistenza di quella sensibilità.
La quale lungi dall’essere un mero aspetto pulsionale si è tradotta in Bernhard in un profondo radicamento etico, lo ha portato ad un continuo e spietato esercizio di coraggio, si è imposta in lui come intransigenza radicale che non prevede compromessi: “Per tutta la vita io sono stato un disturbatore, e sempre sarò e rimarrò un disturbatore della pubblica quiete, così sono sempre stato definito dai miei parenti, già mia madre, per quanto posso ricordarmi, mi chiamava disturbatore della pubblica quiete, e così il mio tutore e i miei fratelli, e in effetti in ogni mio respiro, in ogni riga che scrivo sono sempre rimasto un disturbatore della pubblica quiete. Per tutta la vita la mia esistenza non ha fatto altro che disturbare. Io ho sempre disturbato e ho sempre irritato. Tutto quello che scrivo, tutto quello che faccio, è disturbo e irritazione…Giacché richiamo l’attenzione su dei fatti che disturbano e irritano” (p.143).
Bernhard, perciò, tutto quello che ha fatto e tutto quello che ha detto nella sua vita e nella sua opera, non lo ha mai fatto e lo ha mai detto per compiacere, per aderire, per paura, per viltà, ma solo e sempre per affermare quello che quella sua sensibilità gli diceva di fare e di dire e, in questo, si rivela un intellettuale assolutamente antiintellettuale: “Che importa se uno si dispera con il martello pneumatico e un altro con la macchina da scrivere. Sono solo le teorie che storpiano ciò che in fondo è chiarissimo, le filosofie e le scienze nel loro insieme che con le loro inservibili nozioni intralciano la strada che porta alla chiarezza” (p.231). Ma questa chiarezza non esiste, essa è, in realtà, solo la chiarezza della non chiarezza: “Noi siamo tutte queste esistenze e tutti questi esistenti insieme e andiamo alla ricerca di noi stessi, però non ci troviamo, per quanto tenaci siano i nostri sforzi. Abbiamo sognato la sincerità e la chiarezza, ma tutto ciò è rimasto un sogno” (p.231).
E in questa ricerca e in questo percorso, illusorio, ma inesausto e inesauribile: “Abbiamo spesso rinunciato e spesso ricominciamo, e ancora molte volte rinunceremo per poi ricominciare” (p.231), quello che conta più di tutto è osservarsi e osservare. E’ un esercizio questo in cui Bernhard si riconosce estremamente ricettivo e la cui pratica è un vero e proprio elemento costitutivo della sua formazione e della sua intera esistenza: “Io ero estremamente ricettivo, tutto il periodo di apprendimento nella cantina è stato un periodo di intensa osservazione, e la capacità di osservare intensamente io l’ho imparata da mio nonno” (p.161).
Ma anche in altri contesti Bernhard si concentrerà nell’atto dell’osservare così come lui stesso dice parlando, per esempio, dei pazienti del sanatorio di Grafenhof in cui fu a lungo ricoverato a causa della sua tubercolosi: “Osservavo tutto ciò che vi era in loro con la massima perspicacia possibile,con un’attenzione assoluta, sicché essi non potevano sfuggirmi, per loro non c’era scampo” (“Il freddo” p.352). E, in questo senso, l’”Autobiografia”, come creazione letteraria, si rivela essa stessa la più evidente dimostrazione di questa capacità di Bernhard, come rileva nell’ ”Introduzione” Luigi Reitani: “…nell’ “autobiografia” [Bernhard] assume ben presto il ruolo dell’osservatore analitico: di se stesso e dello spettacolo che lo circonda.” (p.XIX).
Ma tutto questo materiale che , mediante l’osservazione gli proviene dal suo interno e dal suo esterno, non solo dà luogo alla sua personale visione del mondo, non solo segna la sua esistenza in virtù di quella acuta sensibilità di cui si diceva, sulla quale retroagisce l’accumulo, che vi è in questo materiale, di sofferenze, tragedie, malattie, morti, lutti, dolori, disperazione che costelleranno la sua vita, ma quello che è l’aspetto artisticamente cruciale è che Bernhard fa diventare tutto questo un patrimonio attraverso cui dare vita a quel capolavoro che è la sua opera, di cui l’”Autobiografia” ne è parte. Bernhard attinge sistematicamente, spietatamente e ossessivamente dalla sua vita e modellando e plasmando questo materiale lo trasforma in altro e cioè in una creazione artistica.
Egli parte dalla realtà e parla della realtà ma la sottopone ad una ininterrotta esasperazione nelle forme e ce la mostra in tutta la sua esasperazione nei contenuti, diventando questa esasperazione sia una manifestazione di senso, sia un codice identificativo. Ma così facendo egli dà un’impronta originale ed unica al racconto della sua vita, emancipando tale racconto dalla sua ”ricostruzione” e restituendocelo come un “mondo” segnato da quell’indelebile esasperazione. In tal modo Bernhard ci fa vedere e ci fa sentire che cosa quel “mondo” ha rappresentato per lui e quello che è il lascito che ha avuto nella sua esistenza.
Ma, altresì, creando quel “mondo” egli crea una grandiosa rappresentazione, come “di quadri che ricordano le rappresentazioni iconografiche della vita dei santi” (p.XXX), una messa in scena della sua vita nell’intreccio con quella di coloro che lo circondano, dove la vita si fa teatro nel teatro stesso della vita. Reitani, nella sua introduzione, richiama una definizione che è stata data di Bernhard scrittore, cioè di essere stato “un artista dell’iperbole” (p.XI), la quale sintetizza molto bene quanto sin qui detto.
Sia perché afferma l’essenza artistica di Bernhard, la quale va ben oltre la mera immagine di iconoclasta intento a distruggere tutto ciò che lo circonda, con cui, spesso, si finisce di identificarlo. Laddove, proprio in quanto artista egli è, in realtà, un creatore o, ancor meglio, utilizzando quella espressione che egli fa dire a Reger , il protagonista di “Antichi maestri” e con cui Reger si autodefinisce e cioè “io sono un artista e, in quanto artista, sono un artista critico, creativo ed esercitante”, ebbene anche per Bernhard si può dire sicuramente la stessa cosa.
E poi perché l’iperbole essendo, per definizione, una figura metaforica basata sull’esagerazione, rende bene quel procedere di Bernhard nel segno dell’esasperazione, laddove l’esagerazione in Bernhard non è mai gratuita, ma serve a rendere tutta la tensione esistenziale dell’esperienza, tutta l’esasperazione appunto contenuta in essa. Ma se è vero che Bernhard “usa” la propria vita per creare l’opera è non di meno vero che la sua vita abbia giocato un ruolo determinante nella sua opera e sia diventata in modo diretto fondativa di essa, come dimostra proprio questa “Autobiografia”. E cioè il fatto che Bernhard si sia speso a scrivere ben cinque libri autobiografici a cui ha dedicato circa una decina di anni del suo lavoro.
E’ evidente che in questo raccontarsi vi era una necessità forte la quale ritengo vada ricondotta a un bisogno ancora più radicale e profondo e cioè quello di emancipare non più solo il racconto della sua vita da quello che poteva essere il suo assetto ricostruttivo, ma di emancipare la sua stessa vita dall’idea di essere il risultato di una casualità di circostanze o l’effetto di mere pulsioni biologiche o psichiche. In altre parole Benhard, attraverso la narrazione della sua vita contenuta nel’ “autobiografia” , testimonia di essere stato “artista della propria vita”, affermando, implicitamente, che quella vita è frutto di una sua creazione da lui orgogliosamente e strenuamente voluta, nonostante tutto e tutti.
Questa immagine e questa interpretazione mi è stata suggerita da quanto afferma Aldo Gargani nelle conclusioni della sua introduzione a i “Diari segreti” di Wittgenstein il cui titolo di tale introduzione: “Il coraggio di essere” è già esso stesso indicativo. Afferma Gargani: “ Se uno volesse riconoscere il contrassegno distintivo della cultura austriaca alla quale appartiene Wittgenstein – da Weininger a Musil, da Schoenberg a Ingeborg Bachman fino a TH. Bernhard – lo troverebbe nella motivazione etica per la quale un uomo, per poter esprimere gli aspetti della vita deve strapparsi con determinazione spietata dalle false immagini che lo tenevano prigioniero per la sua mancanza di coraggio. La cultura austriaca contemporanea è la storia delle vicende di intellettuali che hanno dovuto battersi con coraggio contro la paura e la vigliaccheria. La loro idea essenziale è stata che nessun uomo può esprimere la vita se non diventa anche “l’artista della propria vita”. ( A. Gargani – “Introduzione. Il coraggio di essere” in L. Wittgenstein – “Diari segreti” – Laterza 2001).
Nell’ agire orientato al contrasto di cui ci parla Bernhard è quindi possibile ravvedere la fermezza con cui egli ha sempre inteso dare ascolto e perseguire quello che gli appariva e che sentiva necessario per lui. Il suo modo insomma di “farsi artista della sua vita”, incanalandola là dove l’ urgenza e il suo istinto vitale gli indicavano. In questo senso ci sono nel percorso autobiografico bernhardiano dei passaggi critici, nei quali, attraverso l’agire orientato al contrasto, Bernhard imprime un senso e un valore alla sua vita che resterà determinante e che si configurano come scelte in nome della vita e contro la morte sia fisica che esistenziale.
Perché se è vero che Bernhard dice e ci dice che “Fin dal primo istante l’uomo scappa dala vita, che conosce fin dal primo istante, andando, perché conosce la vita, verso la morte che non conosce” ( p.225) così come, di fatto, è avvenuto più di una volta nella sua vita, è anche vero che tutte le volte che si è trovato di fronte a quel bivio vita/morte, ha optato per la vita intesa come quel “coraggio di essere” che lo ha portato a decidere lui su di lui, salvandosi,con le sue decisioni, non solo dalla morte ma anche e soprattutto da ciò che lo stava inducendo alla morte.
Esemplare, in questo senso, è il passo contenuto ne “Il respiro” il cui sottotitolo, non a caso, è “Una decisione”, in cui Bernhard esplicita la sua determinazione a vivere e il valore dell’autodeterminazione insito in tale decisione: “Volevo vivere, tutto il resto non aveva importanza. Vivere, vivere la mia vita, viverla come e fino a quando mi pare e piace.. Senza essere un giuramento, questo fu ciò che si propose il ragazzo quando ormai era dato per spacciato nell’attimo in cui l’altro, l’uomo davanti a lui, aveva smesso di respirare. Quella notte, nell’attimo decisivo, tra le due possibili strade io avevo deciso la strada della vita. Non ha senso rimuginare se la mia decisione fu giusta o sbagliata. Il fatto che la pesante biancheria bagnata non mi fosse caduta sulla faccia e non mi avesse soffocato era stato al’origine della mia scelta di non smettere di respirare. Non avevo voluto smettere di respirare come l’altro davanti a me, avevo voluto continuare a respirare e continuare a vivere…Ero io che decidevo quale delle due strade era meglio imboccare. La strada della morte sarebbe stata facile. E d’altra parte la strada della vita ha il vantaggio dell’ autodetrminazione.” (pp.244/245)
Ma la scelta di vivere in Bernhard è anche in quel suo rifugiarsi nella stanza delle scarpe, all’interno di quel collegio nazionalsocialista dove alloggiò a Salisburgo, nel periodo in cui frequentò la scuola media. Stanza in cui si appartava a suonare il violino e reagire così alla terribile attrazione che ha per lui, in quel momento della sua vita, l’idea del suicidio: “Quest’ora di esercizi col violino nella stanza delle scarpe quasi completamente buia , dove le scarpe degli allievi ammucchiate sino al soffitto addensavano sempre più quel loro lezzo di cuoio e di sudore compresso nella stanza delle scarpe, costituiva per lui l’unica possibilità di scampo. L’ingresso nella stanza delle scarpe coincideva con l’inizio della sua meditazione sul suicidio, e l’intenso suonare il violino , che man mano diventava più intenso , coincideva con un intenso pensare al suicidio, che pure man mano diventava più intenso. Ed egli davvero ha compiuto vari tentativi di uccidersi nella stanza delle scarpe, ma… sono sempre stati interrotti, nel momento salvifico e decisivo , da un modo più consapevole di suonare il violino da parte sua, da un interrompersi assolutamente consapevole della sua riflessione sul suicidio e da una concentrazione, pure assolutamente consapevole, sulle molte possibilità via via più affascinanti offertegli dal violino” (“L’origine” pp.12/13)
La scelta di vivere è ancora nella decisione di abbandonare l’ “odiato” ginnasio, che frequentava a Salisburgo e di andare a lavorare come apprendista nella “cantina adibita a negozio di generi alimentari di Karl Podlaha”: “Avevo avuto due possibilità, questo mi è chiaro ancora oggi, una,quella di ammazzarmi, per la quale mi era mancato il coraggio, e/o l’altra, quella di lasciare il ginnasio da un momento all’altro, ma io non mi ero ammazzato ed ero andato a fare l’apprendista.” (p.121). Ma sempre in relazione a quel frangente, legato all’abbandono del ginnasio e all’impiego come apprendista nella “cantina”, va detto della rottura che si consuma rispetto al ruolo di influenzatore decisionale, di guida e di educatore che aveva avuto , per lui, suo nonno. Andando a lavorare nella “cantina” e abbandonando il ginnasio, Bernhard, per la prima volta, rompe quella dipendenza che aveva da suo nonno – figura peraltro immensamente amata, l’unica da lui costantemente e veramente amata nell’ambito familiare, essendo l’unica che lo ha incondizionatamente amato – e va contro la volontà e le aspettative del nonno.
Ma questo non sarà per Bernhard solo un atto di autonomia decisionale ma, ben più profondamente, un altro passo nel suo percorso di autodefinizione esistenziale incentrato sulla sopravvivenza: “Mio nonno… non era più in grado di indicarmi come andare avanti. Quello che avevo imparato da lui ad un tratto valeva solo nella fantasia, non nella realtà. Così all’improvviso mi sentii abbandonato anche dalla persona nella quale avevo confidato al cento per cento. Con me egli aveva voluto forzare qualcosa che non avrebbe dovuto forzare. In fondo era successo quello che doveva succedere. L’esperienza del ginnasio era stata portata dentro di me fino all’assurdo, e la colpa dei miei infortuni scolastici era di mio nonno, il quale mi aveva insegnato a stare solo fino all’eccesso, ma uno non può vivere solo e appartato, quelli che vivono soli e appartati vanno a picco per forza, non possono che andare a picco…In quanto ginnasiale sarei stato schiacciato e ucciso, in quanto apprendista commerciante in una cantina del quartiere di Scherzhauserfeld,… agli ordini di Karl Podlaha, sono invece sopravvissuto. La cantina è stata la mia unica salvezza….Mio nonno mi aveva insegnato a stare solo e a bastare a me stesso, Podlaha a vivere con gli altri e precisamente a vivere in compagnia di molte persone tra loro diversissime…Queste due scuole dei miei primi anni sono state decisive per tutta la mia vita, e una integrando l’altra sono state finora il fondmento della mia evoluzione” (“La cantina” p.164/167/161)
Un altro riscontro del suo istinto a vivere lo si ha nell’ atteggiamento con cui Bernhard affronta la tremenda esperienza della sua malattia e della guarigione da quella malattia durante il ricovero nel sanatorio di Grafenhof: “Per quanto fossi ancora molto giovane, ero uno scettico di solida formazione, preparato a tutto e sempre pronto al peggio. Ancora oggi considero questa la mia virtù più grande. Il paziente deve fare conto solo su se stesso, questo io lo sapevo, non deve aspettarsi quasi niente da fuori, bisogna che si eserciti soprattutto a rifiutare, a evitare, a sventare. …Io sono guarito, posso dire, perché ho diffidato. …E’ il malato stesso che contro I medici deve prendere la propria malattia in mano, e soprattutto in mente, questa è stata la mia esperienza. Pur non sapendolo ancora, io ho agito in questa direzione. Mi fidavo solo di me stesso, quanto più era grande la mia diffidenza nei confronti dei medici, tanto più cresceva la mia fiducia in me stesso”(“Il freddo” pp.352/353)
E, infine, il primo apparire in Bernhard del conflitto vita/morte quando, ancora bambino, vive la prima cocente esperienza di un fallimento, nell’ambiente scolastico in cui verrà a trovarsi a Traunstein in Baviera, città in cui la sua famiglia si trasferisce quando lui ha sette anni. Ambiente scolastico che gli risulterà totalmente estraneo: “Non trovavo un compagno, ma neanche uno, del quale avrei potuto diventare amico, ai miei modi ostentatamente confidenziali I compagni rispondevano tutti con gesti di ripulsa. Lo stato in cui mi trovavo era tremendo. A casa ero incapace di fare I compiti, tutto era in me paralizzato fin dentro il cervello. Non serviva che mia madre mi chiudesse a chiave in una stanza. Rimanevo lì seduto senza riuscire a combinare niente. Fu così che incominciai a mentirle dicendo che I compiti li avevo finiti. Scappavo in città, angosciatissimo mi aggiravo singhiozzando per strade e viuzze e cercavo rifugio ora nel parco ora nel terrapieno della ferrovia. Se solo potessi morire! Era il mio pensiero dominante. …Andavo in soffitta e guardando in basso vedevo il Mercato dei piccioni. Fu allora che pensai per la prima volta di togliermi la vita. Ficcai diverse volte il capo nell’abbaino ma sempre lo ritirai, ero un vigliacco. L’idea di ridurmi a un mucchietto di carne dinanzi al quale chiunque per strada avrebbe solo provato disgusto non mi garbava per niente. Dovevo continuare a vivere, sebbene mi sembrasse impossibile.” ( “Un bambino” p.546)
Se, quindi, in conclusione, come afferma Reitani, “Esteriormente l'”autobiografia” riprende lo schema classico di un romanzo di formazione, in cui il protagonista, attraverso una serie di peripezie, scopre se stesso e trova un ruolo nel mondo” (p.XX) ciò in Bernhard e nella sua vita avviene sempre spingendosi al limite estremo della disperazione, entrandovi fino all’esasperazione, osservandola in tutto il suo orrore, e, “nell’attimo decisivo”, voltarsi e, per contrasto, “andare nella direzione opposta” .
Dall’Adelphi mi assicurano che il prossimo autunno uscirà la traduzione di “Gehen”.
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Ti ringrazio per le numerose e belle recensioni di Bernhard, che sono uno sprone a riprenderlo. La prima parte della sua autobiografia, L’Origine, è stata la prima cosa che ho letto di suo, quasi quarant’anni fa. E all’epoca non mi era piaciuta, ero sicuramente troppo giovane. Mi aveva infastidito precisamente lo stile iperbolico e soprattutto il modo tutto sommato facile (almeno così mi era parso allora) di dare sempre la colpa a qualcun altro. Nel mio caso, l’impronta della famiglia e della religione – nonostante tentativi anche brutali di emancipazione – mi indirizzavano per forza, e tutto sommato mi indirizzano ancora, verso un’assunzione di responsabilità strettamente individuale. L’impatto è stato talmente negativo che c’è voluto l’ascolto (casuale) della lettura del Soccombente per Ad Alta Voce (rai 3) nella splendida traduzione di Renata Colorni, per aprire veramente, due anni fa, la mia “fase Bernhard” – che è lungi dall’essere esaurita, anzi tutto sommato è ancora all’inizio (diverse opere che tu recensisci non le ho ancora lette). Anche perché, detto fra noi, l’amico ti ammazza a colpi di costruzioni participiali…
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Bello questo tuo percorso sia in quanto tuo che in relazione a Bernhard. In fondo con una così ampia scelta di lettura all’interno della sua opera, cosa che peraltro vale anche per me dato che mi mancano ancora tantissime sue cose da leggere, non ti mancherà di essere ammazzata dall’uso de “die Partizipialkonstruktion” , da parte di Bernhard, piacere che io non potrò assaporare non leggendo in tedesco cosa che ti invidio.
Ancora un saluto e a presto.
Raffaele
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