Il villaggio di Tel Ilan è un microcosmo pacifico e ordinato dove la vita scorre pacata e senza conflitti. In cui tutti si conoscono e in cui tutti sono riconosciuti per ciò che essi sono o fanno e per le funzioni che adempiono in seno a quella comunità.
Ma ciascuno di costoro non svolge solo un ruolo sociale o professionale, è anche un punto di riferimento, un conoscente spesso premuroso, talora un amico, su cui si sa che, volendo, si può contare, come se, fra quelle persone, un generale e sottinteso mutuo soccorso fosse in qualsiasi momento pronto ad attivarsi se dovesse occorrere. Eppure in questa piccola comunità in cui, a prima vista, tutto appare svolgersi in modo sereno e coeso, una serie di eventi imprevisti e talora banali, rotture di consuetudini consolidate e inalterate, fatti perturbanti e anche un po’ misteriosi, che accadono, improvvisi, aprono squarci inattesi nelle vite di quelle persone. E si scopre che in quelle vite si annidano parti oscure e non dette, ignote anche agli altri membri della comunità.
In modo pacato ma inesorabile scopriamo che tutti si portano dentro un che di inespresso e silenzioso con cui convivono segretamente e, soprattutto, con cui convivono solitariamente. Si ha così, man mano, la sensazione che nessuno conosca veramente nessuno, perché ciò che si nasconde nell’ intimità di ciascuno viene costantemente celato agli altri, perché viene costantemente celato anche a se stessi. E l’accadere di questi eventi, imprevisti e contingenti, susciterà, in ciascuno di costoro, l’emergere di queste loro parti taciute e rimosse o, in alcuni casi, l’improvvisa scoperta della loro esistenza, avendo evitato, fino a quel momento, di volerle “vedere”.
Come se tarli dolorosi avessero scavato nel corso del tempo dentro le vite interiori di queste persone e poi, per un’apertura, apertasi all’ improvviso, fossero venuti in superficie. Attraverso otto storie, separate ma interconnesse tra loro, tutte ambientate, tranne l’ultima, nel villaggio di Tel Ilan,
Amos Oz getta di fronte a noi una realtà altra di cui i lettori così come i diretti interessati, protagonisti di ciascuna storia, devono inesorabilmente e, molte volte, inspiegabilmente prendere atto. Perché il senso che tutti provano e che, anche come lettori si prova è un disarmante senso di smarrimento per ciò che accade e, in merito a cui non vi saranno risposte, salvo scoprirsi completamente soli con se stessi, alla mercè di quell’evento e della propria stessa solitudine.
E così, per esempio, che fine ha fatto l’amato nipote che la dottoressa Ghili Steiner stava premurosamente attendendo scendere da quell’ autobus da cui non scenderà mai, non restando alla dottoressa Steiner che tornarsene rassegnata a casa, aprire il forno in cui aveva amorevolmente cucinato quel suo piatto di pesce con le patate, buttare tutto nell’ immondizia, spegnere la stufetta, sedersi in cucina, togliersi gli occhiali e piangere un poco. “Qualche secondo appena”, poi tirare fuori il bucato dall’ asciugabiancheria “e fin quasi a mezzanotte” continuare “a stirare e piegare tutto, mettendo ogni cosa al suo posto.”
Ed ancora che fine ha fatto la moglie del Sindaco Benni Avni che, prima di scomparire, fa recapitare nel suo ufficio un biglietto con su scritto: “Non preoccuparti per me” e al quale, dopo averla lungamente cercata in giro per il villaggio, non resterà che sedersi in quella stessa panchina dove la moglie era stata vista per l’ultima volta e stare lì: ad aspettarla.
E cosa accade all’immobiliarista Yossi Sasson lasciato chiuso nella cantina di quell’enorme casa che si riprometteva di acquistare e demolire, da Yardena la giovane e misteriosa figlia della proprietaria, il quale continua a dire con se stesso che lui quella casa la demolirà e intanto è lì solo e abbandonato in quella cantina.
E così via via in tutte le altre storie, perché la dottoressa Steiner, il Sindaco Avni, l’immobiliarista Sasson, non sapranno cosa è successo al nipote, piuttosto che alla moglie, piuttosto che alla giovane Yardena, ma sanno che cosa è successo a loro stessi.