“Mattatoio n.5” – Kurt Vonnegut

“Mattatoio n. 5” è un libro di incontenibile ricchezza, con tante facce e tante realtà che si accavallano, si intersecano, sfuggono e si dilatano, offrendoci innumerevoli possibili letture. In esso convive un misto di realismo e di visionarietà, di rigore e di anarchia, di disincanto e di ironia, di intransigenza e di leggerezza, di durezza e di umanità che lascia stupefatti per come tutte queste cose riescono a fondersi tra loro.

Ma nonostante il suo apparente disordine e la sua spiazzante anticonvenzionalità o forse proprio per questo, “Mattatoio n.5” è un libro bellissimo e nonostante le disarmanti crudezze che lo percorrono raggiunge punte di ineguagliabile divertimento, squisitamente surreali.

In “Mattatoio n.5” Vonnegut ha creato un mondo, il mondo di Billy Pilgrim (B.P.), che è fatto di tanti mondi, tra i quali B.P. scorre, avendo egli il potere e la capacità di viaggiare nel tempo e quindi di poter apparire indifferentemente in luoghi e momenti della sua vita lontanissimi tra loro, senza peraltro essere lui a decidere tali spostamenti ma venendo portato dalla sua mente e materializzato di qua e di là senza controllo: “Billy è spastico nel tempo, non controlla i movimenti, non sa dove andrà dopo, e le sue gite non sono necessariamente divertenti…non sa mai quale parte della sua vita dovrà recitare la prossima volta.”

Perché B.P. a partire dal suo presente, può viaggiare nel suo passato ma anche nel suo futuro: “Ha visto molte volte la propria nascita e la propria morte, dice, e rivive di tanto in tanto tutti i fatti accaduti nel frattempo.” Lo spartiacque di partenza, rispetto a questo prima e a questo dopo, è un momento ben preciso della sua vita, il momento in cui B.P., arruolato fra le truppe americane si trova a combattere in Europa nel pieno della seconda guerra mondiale.

Vonnegut, con questo libro, ha infatti scritto, prima di tutto, una delle più belle apologie contro la guerra che siano mai state scritte, riuscendo a raccontarcene l’aspetto più odioso e cioè la sua intrinseca follia, attraverso una trasfigurazione della guerra, resa usando i toni del demenziale e del grottesco che ne rendono ancor più evidente il suo contenuto delirante.

Ciò deriva dalla personale esperienza di Vonnegut che durante la guerra venne spedito a combattere in Francia e Germania. Catturato dai tedeschi fu trasferito a Dresda, dove la notte del 13 febbraio del 1945 avvenne il tremendo bombardamento che distrusse l’intera città, uccidendo più di centotrentacinquemila civili, da cui Vonnegut si salvò, risultando uno dei pochissimi superstiti, nascondendosi nei sotterranei del Mattatio comunale, da cui il titolo del libro. L’orrore che si presentò di fronte ai suoi occhi quando fece ritorno in superficie, che Vonnegut descriverà come in trance anche nel libro, e, in generale, gli orrori della guerra lasciarono in lui una tale impressione da ispirargli la necessità di scriverne una sua personale denuncia.

Ma “Mattatoio n.5” non è solo un libro contro la guerra, va oltre questo ed è assai più di questo.Perché Vonnegut qui guarda tutto con un doppio sguardo e cioè: il mondo che si pretende normale con lo sguardo folle e il mondo folle con lo sguardo sobrio. Egli ci accompagna infatti nella follia del mondo così com’è, come fossimo in un giardino degli orrori e ci conduce, nel contempo, con il potere dell’immaginazione, in un mondo che può sembrare folle ma che invece ha “molte cose meravigliose da insegnare agli abitanti della Terra”

Sempre in perfetto equilibrio tra farsa e dramma Vonnegut ci racconta infatti la vita di B.P. su questa terra, trasportandolo su e giù tra passato, presente e futuro e la vita di B.P. lontano da questa terra, sul pianeta Tralfamadore, essendo stato “rapito dai tralfamadoriani la sera del matrimonio di sua figlia”, senza che nessuno si accorgesse di nulla in quanto “ i tralfamadoriani lo avevano fatto passare attraverso una distorsione temporale, cosicché aveva potuto vivere a Tralfamadore per anni e stare lontano dalla Terra solo per un microsecondo.”

La vita di B. P. su questa terra è un totale delirio e assistendo a tutto ciò che gli accade, nel bene e nel male, viene fatto di pensare all’ assoluta incomprensibilità dell’esistenza. Non a caso, Vonnegut farà dire a B.P.di avere trovato “la vita insensata”, da cui quel ritmico e laconico “Così va la vita” che si ripete per decine di volte nel libro a contrassegnare tutti gli eventi e gli episodi di insensatezza che accadono il che la dice lunga su quanti ne accadono.

Del tutto innocuo e indifeso B.P. è per lo più alla mercé del mondo e come una sorta di inerme e potenziale vittima si lascia trasportare dalle circostanze, mai in conflitto con esse, ma in un perenne spirito di adattamento e con uno sguardo che oscilla costantemente tra lo spaesato e il meravigliato: “Billy non si arrabbiava mai per nulla. Era magnifico, in questo” forse per quella sua preghiera che teneva incorniciata nel suo ufficio che diceva “Dio mi conceda la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare quelle che posso e la saggezza di comprendere sempre la differenza” la quale “esprimeva il suo metodo per tirare avanti, anche se vivere non lo entusiasmava molto.”

E così mentre intorno a B. ne muoiono in tutti modi, sia in guerra che fuori, egli invece, che non fa niente per salvarsi, si salva sempre, non solo in senso fisico – come per esempio in quell’ incidente aereo in cui B. fu coinvolto, siamo già nel 1968, nel quale “Morirono tutti tranne Billy.”, e questo ovviamente perché “Così va la vita” – ma anche mentale, dato che “Billy aveva assistito al più grande massacro della storia europea, il bombardamento di Dresda.”, ed era, a tre anni dalla fine della guerra, ancora “in un reparto per malati di mente non pericolosi di un ospedale per reduci di guerra vicino a Lake Placid”. E a salvarsi, in questo caso, lo aiutarono i libri di fantascienza di Kilgore Trout, scrittore assolutamente sconosciuto e del tutto invenduto, di cui B. si innamora, essendo peraltro la fantascienza “l’unico genere di storie che potesse leggere” dato che per B. la fantascienza fu “un grosso aiuto” per ritrovare se stesso e “il proprio universo”, risposta geniale di Vonnegut al trauma della guerra che consente a B. di ricollocarsi su un piano di irrealtà, essendo la realtà che B. si porta dentro ormai irrimediabilmente segnata dalla guerra.

Il che mi dà lo spunto per dire una cosa sulla questione se Vonnegut sia da considerarsi uno scrittore di fantascienza. In questo senso, più che uno scrittore di fantascienza penso che sia uno scrittore che “usa” la fantascienza e la usa come una sorta di piattaforma onirico-fantastica, scenarizzata in chiave postmoderna, attraverso cui fare passare con elevate dosi di immaginazione squarci di possibili modi di stare al mondo alternativi al nostro, sia in senso sociale, sia in senso umano e relazionale e comunque tutti generosamente tesi a dare una speranza e a rendere il più possibile sopportabile la vita. Forse talora ingenui, ma non per questo meno potenti perché hanno dietro l’idea di non darsi per vinti e di alleggerire esistenzialmente il peso delle cose.

E così lo squarcio visionario in senso esistenziale che Vonnegut ci offre, attraverso il “messaggio” che i tralfamadoriani passano a B. è, nella sua irreale semplicità, carico di potenzialità liberatorie, rispetto all’angoscia del vivere e all’ineluttabilità della morte come fine di tutto.

Primo: “Non c’è nessun perché”

Secondo: “Passato, presente e futuro sono sempre esistiti e sempre esisteranno. I tralfamadoriani possono guardare i diversi momenti proprio come noi guardiamo un tratto delle Montagne Rocciose. Possono vedere come tutti i momenti siano permanenti, e guardare ogni momento che gli interessa. E’ solo una nostra illusione di terrestri credere che a un momento ne segue un altro…che quando un istante è passato è passato per sempre” e quindi, aggiungeranno i tralfamadoriani, nei momenti brutti basta concentrarsi su quelli belli.

Terzo: “La cosa più importante che ho imparato su Tralfamadore” dice B.” è che quando una persona muore, muore solo in apparenza. Nel passato è ancora viva, per cui è veramente sciocco che la gente pianga al suo funerale”

In conclusione non si può capire Vonnegut se non si capisce che Vonnegut ha un potere che solo i grandi artisti hanno: il potere della libertà. Non solo quella libertà che gli consente di dire cose amare e tragiche senza affondare nella tragedia, ma soprattutto la libertà di pensare in grande, restando piccoli.

2 risposte a "“Mattatoio n.5” – Kurt Vonnegut"

  1. viducoli 7 febbraio 2017 / 20:25

    Ciao.
    Non so se sia perché non ho capito Vonnegut, ma questo è un libro su cui diamo giudizi nettamente divergenti.
    Secondo me Mattatoio n. 5 è una grande operazione di rimozione, forse necessaria considerato che Vonnegut era stato testimone dell’orrore, ma comunque rimozione.
    Trovi di più sul mio blog, se Ti interessa.
    A presto
    V.

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