“Il monaco nero” – Anton Čechov

Fulminante questa parabola cechoviana giocata, in prima istanza, sulla dicotomia normalità/follia, ma leggibile anche in base ad altre opposizioni, quale quella tra creazione e inibizione, la quale, a sua volta, rimanda al conflitto tra libertà e controllo, il quale, secondo me, è quello fondamentale e fondante di questo racconto.

Anche qui, secondo il più tipico stilema cechoviano, per i protagonisti non vi è rimedio alla morte delle speranze e tutto di loro e intorno a loro è destinato a dissolversi e scomparire. In questo senso l’efficienza umana assume, in questo racconto, risvolti pietosamente patetici se paragonata all’ efficienza della morte. Date queste premesse: cupe, si capisce anche il perché di un titolo cupamente evocativo come “Il monaco nero”.

La storia prende infatti le mosse da un’antica leggenda che il protagonista, Kovrin, evoca mentre si trova ospite di Jegor Semionic e della figlia Tania, nella loro grande tenuta di campagna. Poco dopo esservi giunto infatti, mentre è a passeggio con Tania, Kovrin le racconta di questa leggenda secondo cui un monaco nero apparso, la prima volta, “mille anni or sono” iniziò a moltiplicare le sue apparizioni su tutta la terra, divenendo un miraggio che si diffuse dovunque, fino a uscire “dai limiti dell’atmosfera terrestre” e spostarsi nell’ universo tutto, senza mai svanire. Ma il monaco, secondo la leggenda “tornerà a capitare nell’ atmosfera terrestre e apparirà agli uomini” e ciò “se non oggi, domani”.

Kovrin però non sa dove ha letto o sentito questa leggenda, al punto da chiedersi se il monaco non l’ha “visto in sogno”. Fatto sta che lasciata Tania e incamminatosi per conto suo, Kovrin non fa in tempo ad avviarsi per il parco e i campi che lo circondano che gli appare davvero, a mò di immagine volante, la figura del monaco che lo affianca, lo supera e scompare. Kovrin è quanto mai entusiasta di aver visto il monaco, confermando questa apparizione la sua leggenda. E già qui ce ne sarebbe abbastanza per cominciare a dubitare di Kovrin, a cui, guarda caso, Cechov fa fare nella vita lo studioso e il docente di che? “Faccio lezioni di psicologia, e in generale, mi occupo di filosofia” ci dice Kovrin. Insomma a una mente che dovrebbe essere al massimo della potenziale sanità, nonché dell’equilibrio e dell’analiticità, fa riscontro una mente con le visioni. Ma non finisce qui perché non solo il monaco riappare a Kovrin, ma gli si materializza di fronte e Kovrin inizia a conversare con lui, senonché è il monaco stesso, a dirgli: “La leggenda, il miraggio, io: tutto questo è un prodotto della tua immaginazione eccitata. Io sono un fantasma.”

In una sorta di gioco di specchi “lo psicologo” Kovrin è quindi egli per primo vittima di uno sdoppiamento. La sua mente ha creato un suo doppio con cui intavolare e costruire la sua personale visione del mondo. Perché il monaco ispirerà a Kovrin una ben precisa filosofia basata su questi capisaldi: Kovrin è un eletto, egli sta al mondo per servire la verità eterna, è destinato alla vita eterna, il cui fine come quello di ogni vita è il godimento, laddove “il vero godimento è nella conoscenza”.

Una visione al tempo stesso mistica e superominica che Kovrin lungi dal rinnegare e rigettare trova entusiasmante. D’altro canto, a questo punto cosa può fermare Kovrin, o meglio cosa può fermare la mente di Kovrin, il quale dà anche prova di un suo rigore allorché si dà le sue personali contromisure per giustificare l’irrazionale che ormai dilaga: “Tu sei un fantasma, un’allucinazione. Dunque io sono psichicamente un malato, un anormale? …Se so di essere psichicamente malato, posso io credere a me stesso?” Ma il monaco (alias Kovrin) ha la risposta pronta: “E come sai tu che gli uomini geniali, ai quali tutto il mondo crede, non abbiano veduto anch’ essi dei fantasmi? Dicono pure gli scienziati oggidì che il genio è parente della follia. Amico mio, sani e normali sono soltanto gli uomini ordinari, quelli del gregge.”

Kovrin è al settimo cielo, le parole del monaco lo hanno esaltato, si sente un eletto ed un genio, sullo slancio dell’entusiasmo, decide anche di dichiararsi a Tania e di chiederle la mano. Quest’ultima che stravede per Kovrin ne resta ammaliata e felice. Anche il padre lo è giacché nutre una stima immensa per Kovrin essendone stato peraltro il tutore e conta unicamente su di lui per il futuro del suo immenso ed amato giardino che, alla sua morte, teme venga abbandonato e solo Kovrin, gli darebbe la garanzia che qualcuno di fidato se ne occuperebbe. Kovrin a sua volta oltre che la passione d’amore vive un momento di intensa passione intellettuale: legge, scrive, sente che alti compiti lo attendono: “L’amore aveva solo versato olio sul fuoco”.

Nel contempo Kovrin persevera, si fa venire il monaco a tavola anche con Tania e il padre presenti, i quali “ascoltavano e sorridevano gaiamente, senza sospettare che Kovrin non parlava con loro, ma con la propria allucinazione”. Si giunge alle nozze in un clima euforico e felice. Ma anche nel talamo Kovrin riceve le visite del monaco che non perde occasione per rinforzargli la sua autostima: “Quanto più alto è un uomo per sviluppo intellettuale e morale, quanto più è libero, tanto maggior piacere gli procura la vita….Gioisci dunque e sii felice”

Senonché accade quell’ inevitabile che prima o poi sarebbe dovuto accadere. Tania sente e vede Kovrin dialogare con il monaco cioè con nessuno: “Qui non c’è nessuno….nessuno! Andriuscia, tu sei malato!” E Kovrin: “Adesso gli riusciva chiaro ch’egli era pazzo” E’ l’inizio della fine: “Egli cominciò a curarsi” e in realtà cominciò a morire. Kovrin perde progressivamente tutte le energie, gli stimoli, la gioia di vivere: “Perché, perché mi avete curato? I preparati al bromuro, l’ozio, i bagni caldi, la sorveglianza, un pusillanime terrore per ogni mio sorso, per ogni mio passo, tutto ciò alla fin fine mi condurrà all’idiozia. Io stavo diventando pazzo. Avevo la mania di grandezza, ma in cambio ero allegro, vivace e perfino felice, ero interessante e originale. Adesso son divenuto più ragionevole e più posato, ma in cambio sono come tutti: sono un mediocre e mi è noioso vivere….Avevo delle allucinazioni, ma a chi ciò dava fastidio? Io domando: a chi dava fastidio?”

L’epilogo è narrativamente tragico e letterariamente potente: Kovrin ormai insofferente abbandonerà Tania, il padre di questi morrà, il giardino andrà in rovina, Tania proverà un odio profondo per Kovrin, il quale lungi dal diventare il genio che sognava “aveva ora chiara consapevolezza di essere un mediocre”. E in una sorta di catarsi riappare a Kovrin il monaco nero che così lo apostrofa: “Perché non mi hai creduto?…Se tu mi avessi creduto allora, quando dicevo che eri un genio, non avresti trascorso questi due anni in modo così triste e meschino. Kovrin…. volle parlare, ma il sangue gli fluì dalla gola direttamente sul petto….Vedeva sul pavimento accanto al proprio viso una gran pozza di sangue e, dalla debolezza, non poteva più pronunziare nemmeno una parola, ma una inesprimibile, illimitata felicità gli colmava tutto l’essere.”

Trovo che la bellezza di questo racconto e la genialità di Cechov stiano nell’ aver utilizzato il tema normalità/follia come una grande metafora della assai più ampia e lacerante contrapposizione fra la libertà e le forme del controllo che tendono a definire e delimitare tale libertà. Tutto ciò rimanda al tema del condizionamento, delle norme e dello stigma e dell’impossibilità del singolo individuo di potersi esprimere nella sua assoluta pienezza laddove il suo agire trova limiti insuperabili nell’ agire sociale condiviso. La libertà diventa quindi aspirazione alla libertà perché qualora la si voglia agire a modo proprio ne è immediatamente pronta una sua rilettura in termini di follia.

Ma se è vero che i personaggi cechoviani sono già di per sé condannati al fallimento e all’ impotenza perché ingabbiati in un sistema di forze più potente di loro, in questo caso a questo schema si aggiunge una possibilità di lettura ancora più ampia e cioè che l’ascoltarsi e il riconoscersi sono condizioni fondamentali per la definizione del proprio sé e per la gestione delle interazioni sociali. E, in tal senso, ha perfettamente ragione il monaco nero alias Krovin, alias Cechov: “Se tu mi avessi creduto allora, quando dicevo che eri un genio, non avresti trascorso questi due anni in modo così triste e meschino.” Insomma meglio “folli” e felici che “normali” e infelici.

Ma, in estrema sintesi, ritornando, più in generale, alla poetica cechoviana, non si può non accennare come anche in questo racconto si riscontrino i grandi temi, fatti di opposti e di contrasti, propri di Cechov che, a partire dall’assioma che il passato è sempre più felice del presente il quale invece è sempre più infelice, ruotano sulle seguenti sequenze sia temporali che esistenziali: la vita a cui segue ineluttabile una cupa e dolorosa morte, le illusioni a cui seguono impassibili le disillusioni, i sogni a cui segue, spietato, il loro infrangersi, i progetti, professionali ed umani, a cui seguono, inesorabili i loro fallimenti, i dolci sapori che emana la pienezza della vita a cui, inevitabile, si impone l’amaro instaurarsi della crudele routine.

2 risposte a "“Il monaco nero” – Anton Čechov"

  1. ROSARIA LEONARDI 29 aprile 2021 / 15:43

    Bellissimo il racconto di Ceckov ed efficace l’analisi che ho sopra appena letto. Grazie

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    • ilcollezionistadiletture 30 aprile 2021 / 8:51

      Grazie a te della visita, della lettura e dell’apprezzamento. Si, “Il monaco nero” è un grande racconto, davvero magistrale.
      Grazie ancora.
      Raffaele

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