Questi due famosissimi racconti di Hawthorne (H.), che rappresentano una delle massime espressioni della sua opera, nella loro folgorante brevità, quasi come fossero delle parabole, possiedono, in realtà, una tale densità di temi e di implicazioni che, non a caso, da essi ne sono scaturite numerose e complesse chiavi di lettura.
E, in effetti, la loro lettura, peraltro avvincente, suscita un senso di arcano e di misterioso, quasi di inspiegabile, che porta, inevitabilmente, ad interrogarsi sui precipitati che le vicende narrate e le loro dinamiche sottendono. Dal che si possono effettivamente considerare come due racconti fortemente speculativi. Volendo cogliere una prima comune generalizzazione Wakefield e Il velo nero del pastore si potrebbero definire due racconti sulla solitudine dell’uomo quando si trova a dover fare i conti con le parti più oscure e nascoste di sé, dalle quali fugge celandosi agli altri e celandosi anche e soprattutto a se stesso. Perché i protagonisti dei due racconti: il signor Wakefield e il pastore, reverendo Hooper, non si isolano fisicamente, non diventano degli eremiti, ma si autocostringono ad una solitudine esistenziale e relazionale che, di fatto, li separa dal mondo pur continuando a viverci: si autoesulano, “I morti non han maggiori probabilità di rivedere le loro dimore terrrene di quante non ne abbia l’autoesule Wakefield…”.
Wakefield lascia, infatti, di punto in bianco la dimora coniugale, trasferendosi in un appartamento nelle vicinananze della sua abitazione e lì vivrà per vent’ anni, osservando o per meglio dire spiando la moglie, ovviamente a insaputa di questa, la quale, nel frattempo, l’ha ormai dato per morto, salvo poi, così come era scomparso fare rientro, in modo inatteso, nella sua legittima abitazione. Perché Wakefield ha fatto questo? Quale è stata la causa scatenante che lo ha portato ad andarsene di casa e a guardare dal “buco della serratura” la sua casa e la moglie per due decenni? H. non ce lo dice, noi quindi non lo sappiamo ma, quel che è peggio, non lo sa neanche Wakefield. “Se potessi, vorrei scrivere un in folio su di lui, e non già una dozzina di paginette. Potrei così dimostrare come un influsso che è al di là del nostro controllo mette la mano in ogni nostra azione e tesse le sue conseguenze nella ferrea trama della necessità. Wakefield è stregato, bisogna lasciarlo almeno dieci anni a visitare come un fantasma la sua casa, senza una sola volta passarne la soglia….”.
Quindi Wakefield è vittima di un non meglio precisato “influsso” che lo rende “stregato” e che ne fa un coatto, costretto ad aggirarsi in casa sua al massimo come un “fantasma”, impedendogli di entrarvi, pur restandogli fedele. E così come, di tutto ciò, non ne sapeva l’origine, non ne sa neanche il perché della successiva continuazione. Wakefield quindi è plasmato dagli eventi, non li dirige, non li indirizza, non è la sua la volontà che lo fa agire: “forze” imperscrutabili agiscono su di lui. E, anche quando incontrerà casualmente per strada la moglie sarà il caso ad avvicinarli per un attimo e, subito dopo, ad allontanarli, senza che nulla accadesse . Senonché, di tutto ciò, l’unica spiegazione che resta e che Wakefield può darsi è: <<Wakefield,Wakefield! Sei un pazzo!>>.
E H. aggiunge: “Forse lo era davvero”, laddove la pazzia diventa per Wakefield, ma anche per tutti noi, l’unica spiegazione quando non si hanno spiegazioni, da cui si deriva come la pazzia stessa, a sua volta, non ha spiegazioni. E qui emerge, in pieno, la solitudine totale di Wakefield, “condannato” a stare da solo, pur vivendo in mezzo al consesso umano, ma mai in relazione con esso, avendo la mente e il cuore rivolti a quell’ altrove: la casa, la moglie, con cui, però, non vi è più una relazione reale, né affettiva, ma solo, a suo modo, “virtuale”.
“Viveva nel trambusto della città,..ma la folla passava senza vederlo; era…sempre accanto alla moglie e al focolare di un tempo, ma non sentiva più né quell’ affetto, né quel calore. Il destino senza precedenti di Wakefield era di conservare la sua parte di affetti umani e di interesse alla vita, e di aver perduto ogni influsso su di essi….e allora si diceva: <<Tornerò subito!>>, senza riflettere che se l’era detto per vent’ anni.”
Socialmente Wakefield è l’uomo della folla dell’omonimo racconto di Edgar Allan Poe: la solitudine dell’uomo che è solo ma che in realtà non riesce a stare veramente solo: “Quale terribile disgrazia non poter essere soli” dice Poe nel motto iniziale del racconto citando La Bruyere. Esistenzialmente e psichicamente Wakefield è un dissociato, un giano bifronte la cui psiche è ostaggio di un oscuro se stesso. Ma un giorno Wakefield così come “inconsciamente” aveva deciso di lasciare la casa e la moglie decide di farvi rientro e di riunirsi a lei. E, guarda caso, H. esprimerà qui, nel dire dove le nostre meditazioni in merito alle vicende di Wakefield potrebbero andare a parare, l’ auspicio che esse possano “trovar forma in una figura” , immagine che avrà una sua riproposizione in James ne La figura nel tappeto laddove anche in James, come in H., questa figura nascosta e misteriosa non sarà data e resterà imperscrutabile.
Ma come ci siamo chiesti perché Wakefield ha lasciato la sua abitazione, adesso ci chiediamo perché vi fa rientro. Non certo per un improvviso sussulto di coscienza, né per un sentimento amoroso o un calcolo. Tanto meno H. ci dice che cosa accade a Wakefield varcata la soglia di casa sua, quindi neanche da come si svolge l’ “accoglienza” di Wakefield possiamo dedurre le motivazioni di Wakefield. Sicuramente Wakefield al momento del suo rientro è nella condizione di “morto vivente”, ma, nel momento in cui H. ci dice: “Attenzione, Wakefield! Se vuoi andare nella sola casa che ti resta, scendi allora nella tomba!” ci fa sorgere il sospetto che Wakefield stia per diventare un “vivente ormai morto”, il quale abbia deciso di ricongiungersi alla casa e alla moglie per morire: la paura di una morte anonima e solitaria come estrema pulsione della vita. Perché uscire dagli schemi, stare ai margini del sistema, affermare se stessi nel mondo, affermando la propria individualità è, ci dice H. un’impresa titanica. Siamo esseri misteriosi prima di tutto a noi stessi, ma perdere il nostro posto nel mondo ci destina a “diventare, come Wakefield, il reietto dell’Universo”.
E quindi così come pulsioni ignote ci portano a compiere gesti inspiegabili, pulsioni altrettanto ignote, ancestrali e istintuali, ci portano a compierne degli altri che forse attengono alla mera sopravvivenza, ma di cui, al fondo, neanche di questi siamo veramente consapevoli.
Ancor più foriero di simboli e di segni è “Il velo nero del pastore”. Una vicenda cupa e severa, in cui il pastore Hooper appare un giorno ai suoi fedeli portando di fronte alla sua faccia un velo nero che gli nasconde lo sguardo e che incute a tutto il suo gregge profonda soggezione se non un vero e proprio sentimento di paura. Mai il pastore Hooper si toglierà quel velo, in nessuna circostanza e di fronte a nessuno, neanche in punto di morte, finendo per essere sotterrato con il velo, il quale sopravviverà anche al pastore, dopo che questi sarà morto, sottolinea H. a fine racconto, dandoci un’ultima bella dose di macabro.
Ovviamente H. non ci dice che cosa ha portato Hooper a indossare il velo. Ciò ha quindi favorito il sorgere delle più svariate interpretazioni e letture. Il velo come espiazione per un senso di colpa irrisolto. Il velo come simbolo di natura teologica, a indicare l’impossibilità di contemplare oltre l’umano, o come segnale della prossimità a Dio cioè come manifestazione di umiltà verso Dio. Ma affermato che vi è anche l’interpretazione che nega qualsiasi interpretazione, considerando questo racconto un vero e proprio rebus resta, in fondo, più semplicemente la chiave di lettura rinvenibile nello stesso testo allorché H. fa dire in punto di morte al reverendo Hooper: “Il giorno in cui l’amico mostrerà l’interno del suo cuore all’amico, e l’innamorato alla sua diletta; il giorno in cui l’uomo non rifuggirà all’occhio del suo Creatore e non conserverà come un vergognoso segreto il suo peccato; allora chiamatemi un mostro per il simbolo sotto il quale ho voluto vivere e morire! Ma io mi guardo attorno e su ogni volto non vedo che un velo nero!”
Il velo nero sarebbe quindi un simbolo del nostro nasconderci agli altri ed anche a noi stessi, vivendo così come il pastore Hooper in una estrema solitudine questa nostra condizione. Non aprendoci mai fino in fondo per non svelarci: per codardia, per paura di noi stessi, per il dolore che questo può provocarci, ma, tante volte, anche perché non siamo neanche capaci di arrivare fino in fondo a noi stessi, salvo sentire i grumi che si annidano nelle nostre profondità. Il pastore Hooper, a suo modo, accollandosene gli oneri e le conseguenze, lancia una sfida, punta il dito, sicuramente contro la vigliaccheria e l’ipocrisia umana, ma anche contro la nostra esistenza tenebrosa, costringendoci a farci i conti.