“Teatro IV” – Thomas Bernhard

Avendo assistito alla messa in scena di “Prima della pensione”, uno dei testi teatrali contenuti in “Teatro IV” che è il IV volume delle opere teatrali di Thomas Bernhard,   ho deciso di sperimentare l’esperienza della lettura dell’originale bernhardiano, per una sorta di ideale completamento della trasposizione teatrale e per concedermi un’immersione nella scrittura teatrale di Bernhard.

E senza nulla togliere alla bella messa in scena realizzata dal “Teatro i”, la potenza della parola scritta, con il suo incidire e incedere inesorabile, appare alla luce della lettura del “copione” bernhardiano, con una violenza assai più maestosa e inoppugnabile, assai più cruda e senza appigli, di quanto essa si dimostri a teatro.Perché, a prescindere dalla qualità della edizione teatrale, la mediazione dello sguardo sull’ azione scenica e la partecipazione al generarsi dell’espressione con cui la parola detta si appropria di quella scritta, inducono sì un arricchimento di letture e percezioni ma, arricchendo, espropriano, oggettivamente, la nuda essenzialità del circuito di annichilimento in cui la prosa bernhardiana ci immette.

Ribaltando a favore di Bernhard quanto egli fa dire nel 2° atto a Rudolf, al presidente del tribunale Rudolf Holler, nonché ex ufficiale delle SS, il quale accusando la sorella Clara delle letture che fa, definisce tali letture: “letteratura perversa”, ebbene è proprio a questa “letteratura perversa” che Bernhard perviene in questo testo, perché qui tutto è perverso, tutto è feccia. E’ feccia ciò che Rudolf Holler pensa e dice degli altri, ma più di tutti, prima di tutto è lui la feccia, come gli rinfaccia la sorella Clara: “…parli continuamente di feccia umana e cosa credi di essere tu. ”La scena claustrofobico-autoreferenziale che include Rudolf e le sue due sorelle Vera e Clara, “chiusi” nella loro casa per festeggiare, come ogni anno, il 7 Ottobre, il compleanno del gerarca nazista Himmler, “il capo supremo delle SS”, dice, da subito, di un’impotenza che è un’impotenza della ragione e della Storia me che, ancor più, è un’impotenza del soggetto a dirsi e a darsi la verità.

Secondo l’ormai acquisita lettura che individua nell’ opera di Bernhard il convivere della tragedia e della commedia si genera, anche in Prima della pensione, un’analoga dualità, fatta in questo caso di dramma e di grottesco parossismo, dovuti al convivere dell’orrore che promana da una weltanschaung nazista orgogliosamente se pur nascostamente affermata e dalla difesa, ridotta a ipocrita esteriorità, delle “forme” attraverso cui darsi patine di riconoscibilità. Laddove, in sostanza, si oscilla fra il siamo tutti nazisti, anche se non ce lo diciamo e il come siamo dei bravi cittadini, irreprensibili e perbene. Ma, in questo teatro, a suo modo “politico”, Bernhard reitera rigorosamente i suoi temi e le sue forme, fedele al principio di fare sempre la stessa cosa, ma in modi diversi, principio peraltro intrinseco alla concezione stessa dell’arte.

E allora, ancora una volta, viene da chiedersi: ma esistono questi personaggi, cioè sono quello che dicono o meglio, sono “solo” quello che dicono, o sono altro, cioè c’è un significante che dice dell’altro. E qui ritorna, in un suo ennesimo apparire, sotto mentite spoglie, il totem bernhardiano della follia. Perché, solo nella follia, si può generare ciò che si fa e ciò che si dice in Prima della pensione. Ma, come sempre, la follia di Bernhard, non è metafisica, giacché non vi è metafisica in Bernhard, ma è “quella cosa”, oscura e inespugnabile che Bernhard fa balzare prepotentemente in scena e che la nostra mente è sempre lì lì pronta a concepire e a riconoscere, perché “quella cosa” appartiene a tutti noi.

Ed è significativo il richiamo a James che Bernhard fa nel motto che cita a inizio commedia a sottolineare i fili che lo legano a una concezione “lucida” e “inequivocabile” di noi stessi: “ Che altro è il carattere, se non ciò che guida l’evento, l’azione?” E allora anche lo stare sulla difensiva dei personaggi, il loro sentirsi continuamente minacciati, l’istinto di annientamento dell’altro che li anima, non sono forse comuni a tutti noi, nel senso di espressioni “naturali”, direi ontologiche, che si annidano nelle parti più oscure e bestiali di ciascuno di noi?

E come i personaggi di Bernhard, non sommergiamo anche noi, sotto il flusso inesausto e logorroico della parola, cioè attraverso il linguaggio, ciò che siamo? Ed infine, non facciamo anche noi, come fanno Rudolf, Vera e Clara, con i loro profluvi di pensieri e parole, con cui esprimono tutta la condizione dissociata del loro sé?

Ma tutti questi non sono altro che sintomi di qualcosa di assai più profondo e radicale che Bernhard aveva compreso e che aveva messo al centro della sua poetica, come rileva Eugenio Bernardi nella bella introduzione e cioè, citando Bernhard, la questione de “l’impossibilità di dire la verità e (o) l’incapacità di superare l’esistenza umana” da cui, Bernardi trae che: “E’ di questa “impossibilità” e/o “incapacità” che parla infatti ogni opera di Bernhard, dell’esistenza come vana aspirazione ad una verità irraggiungibile, ma comunque irrinunciabile, che permetterebbe di superare i limiti dell’esistenza stessa…..si tratterebbe” quindi “soprattutto di esplorare a fondo la matrice da cui provengono le nostre rappresentazioni mentali, di esaminare il luogo di origine della coscienza, di “sezionare una testa e sottoporre le singole componenti ad un’analisi completa”…riprendendo propositi già formulati dal principe Saurau di Perturbamento”, che in concreto significa affermare e sancire “l’impossibilità dell’individuo di affermare se stesso nel mondo”

E quindi, in conclusione,”Prima della pensione” non fa altro che esaltare questa impossibilità, un dramma dell’impotenza che è anche l’impotenza di noi stessi.

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