Quando la biografia diventa poesia. Sklovskij (S.) racconta con uno stile incantevole e lieve, con toni delicati e affettuosi memori di evocazioni e di ricordi la San Pietroburgo di inizio secolo in cui nacque e crebbe e il mondo in cui visse, sia quello privato e familiare, sia quello pubblico e artistico.
S. iniziò la sua attività di teorico della letteratura nel 1914 con il volumetto Resurrezione della parola. “Volevo spiegare tutto perché ero giovane. Scrissi il libro Resurrezione della parola, un opuscolo piccolissimo, composto in corpo dieci.Esso riportava un caso di glossolalia, parole, esclamazioni, gesti sonori senza senso, a volte quasi anticipanti la parola stessa”. S. fu quindi prima di tutto un giovane sperimentatore attento e partecipe di quella grande sperimentazione esplosa nella San Pietroburgo di allora che fu il futurismo, vivendo a stretto contatto personale e artistico con l’avanguardia futurista di cui, in “C’era una volta”, ci restituisce l’atmosfera, i temi, i protagonisti da Majakovskij a Chlebnikov, da Aleksandr Blok a Osip Brik, dalla Achmatova a Mandel’stam, a Esenin solo per citare i più famosi, nonché Gor’kij con cui, anche in anni successivi, S. strinse una forte amicizia.
S. stesso fondò con altri giovani studiosi pietroburghesi l’Opojaz (“Società per lo studio del linguaggio poetico”). Da allora l’attività letteraria di S. fu intensissima e poliedrica. Si occupò di critica, di storia e teoria letteraria e cinematografica, è stato autore di romanzi storici, memorie, biografie e soggetti cinematografici. E, in questo senso, “C’era una volta”, pur nella delimitazione temporale a cui la narrazione fa riferimento – essendo incentrata sull’ infanzia (Parte prima), sulla giovinezza (Parte seconda), sulla fine della giovinezza ( Parte terza), coprendo complessivamente un periodo di circa di trent’ anni: dalla sua nascita, avvenuta nel 1893 fino al 1920 circa – tuttavia trasmette e rispecchia questa tensione verso una ricchezza e varietà di esperienze.
“C’era una volta” è, in tal senso, un libro a suo modo indefinibile, in quanto a partire dal racconto su di sé e sulla propria realtà personale, si trasforma ora in un romanzo, ora in una riflessione esistenziale, ora in un documento storico – culturale: “Lenin lo vidi due volte…Lo vidi e dissi: quest’uomo è felice. Sapeva cosa voleva, sapeva come sarebbe andata”, ora in una “passeggiata” letteraria con coloro che, noti e meno noti, animarono la scena letteraria e culturale di quegli anni, ora, infine, in una ricostruzione della vita materiale del tempo. Il tutto è descritto con una vivezza che ci restituisce tratti di vita quotidiana semplici e al tempo stesso luminosi e illuminanti.Senza però cadere mai nel ripiegamento nostalgico, nell’ amarezza dolente, nel rimpianto passatista. Al contrario riportandoci in quel passato in modo vivo e vitale, facendocene cogliere lo spirito e il senso, il valore e le emozioni. “Sarà un racconto sul destino, non su come avrebbe dovuto vivere l’uomo, ma su come viveva”
Tutto è pervaso da una sincerità partecipe, non c’è mai alcunché di virtuosistico, di manieristico, di autocompiaciuto, né in ciò che si dice né in come lo si dice. In tal senso, da quest’ultimo punto di vista, pur essendo la sua scrittura tendente alle digressioni e al frammentario, cosa che egli stesso ammette, tuttavia la riferisce più che a un suo stile, alle “spezzature” che i ricordi hanno in lui: “Scrivo a strappi non perché tale sia il mio stile: è che i ricordi sono tutti interrotti”. Non mancano peraltro momenti di grandioso umorismo come nell’ episodio della nonna, data per morta e resuscitata in faccia al medico venuto per stilare l’atto di morte, a cui la “morta” va letteralmente ad aprire la porta di casa, provocando lo svenimento, seduta stante, del medico che se la trova di fronte.
O di vero e proprio “umorismo” tragico, quando parlando del padre racconta: “Mio padre finì le scuole tecniche, andò a Pietroburgo, si iscrisse all’ Istituto tecnologico, si sposò ed ebbe un figlio. La prima moglie lo abbandonò fuggendosene con un suo compagno d’istituto. Egli…non si incontrò più con la prima moglie e il figlio ed era molto depresso. Si procurò una daga, la piantò con l’impugnatura in un ceppo e vi si gettò sopra. La daga gli perforò il petto da parte a parte, sfiorando il cuore. Mio padre si ristabilì”.
E poi ci sono schegge di pensieri sparse qua e là, eccone alcune:
“Le offese d’infanzia non sono una scheggia sotto l’unghia: restano”.
“Majakovskij nel 1915 si sollevò, vide il futuro, gli parve d’essere il tredicesimo apostolo e cominciò a disputare con Dio perché, dall’ altezza dell’onda che s’alzava sul pendio della terra, si vedevano gli errori della creazione del mondo fatti dall’ appaltatore dalla barba bianca, cioè da Dio”.
“Sono più di cinquant’anni che scrivo, e tanto più scrivo , tanto più chiaramente so ch’è difficile scrivere. Bisogna leggere…. Bisogna leggere in modo vario, bisogna allargarsi, cercarsi in diverse strade e bisogna sapere soprattutto che non ci si può appiccicare agli altri”
“Il grande poeta usbeco Navoi diceva ai suoi allievi di non scrivere di pietre preziose. Se volete creare delle rose, siate terra, scriveva. Le immagini di Gogol sono di valore proprio perché sono terra. Majakovskij è terra, strada, pietre. Io camminavo accanto a lui su quelle stesse pietre, senza sapere quanto valore potessero avere.”.
“La parola è detta per essere ascoltata. La parola è il segnale per un altro uomo. Persino l’ “hei” presuppone un’altra persona che possa voltarsi. L’uomo ha un suo linguaggio interiore, ma parla perché parla l’umanità” .
“Quando l’Achmatova diceva: “Nella mano destra infilavo il guanto della sinistra”, si trattava d’una scoperta stilistica, perché l’amore nei simbolisti doveva apparire in un cerchio purpureo e doveva essere una trasformazione del mondo” .
“Ogni uomo ha una sua misura del dolore, una sua misura della stanchezza, e s’egli è pieno di dolore, lo si può ancora innaffiare con un secchio di dolore: non ne accoglierà nemmeno una goccia” .
“ Sergej Michajlovic Ejzenstejn diceva che nella vita la verità esiste sempre, ma è la vita che solitamente manca”