“Autobiografia” – Boris Pasternak

Questa “Autobiografia” che risale al ’57, coeva cioè de Il dottor Zivago fu “inizialmente concepita da Pasternak (P.) come introduzione a una nuova raccolta di poesie inedite e disperse”. E, come lo stesso P. ci dice nella “Prima conclusione”, la necessità di pubblicare queste poesie era giustificata dal fatto che per lui rappresentavano “i gradi preparatori del romanzo”, intendendo ovviamente Zivago: “… perché servono di introduzione ad esso che qui io le ristampo”.

Vale sottolineare questo aspetto per contestualizzare il senso e il valore di questa autobiografia la quale, nel momento in cui si è deciso di darle vita propria, “sganciandola” dal suo fine originario, rivela i limiti di questa operazione. Se infatti posta come introduzione alla raccolta degli inediti poetici poteva assumere un valore valorizzante di ciò che essa introduceva, presa in sé non sembra avere una sufficiente autonomia e forza da poter essere considerata una vera e propria opera a sé stante. Peraltro lo stesso P. sembra esserne consapevole laddove afferma: “Il lettore si sarà accorto che all’ inizio di questo saggio introduttivo, nelle pagine che si riferiscono alla mia infanzia, ho seguito un andamento narrativo e cronistico..….e, invece, nella seconda parte, sono passato alle generalizzazioni e mi sono limitato a rapidi profili.”

Ed è proprio l’oscillare fra questo “andamento narrativo e cronistico” e le “generalizzazioni” e i “rapidi profili” che costituisce il limite di questa autobiografia. Manca, in sostanza, il fiato e lo spessore di una ricerca che dia luogo ad un esito letterario compiuto. Ma oltre a mancare un taglio e un impianto coerente e specifico, latita lo sfondo storico di riferimento, e ci si rammarica che la narrazione non sia più avvincente e se vogliamo avventurosa, giacché gli eventi che P. cita fanno presumere che si sarebbe potuto renderla tale. Se quindi questa “Autobiografia” soffre per la mancanza di un più ampio respiro tuttavia contiene singoli elementi, spezzoni, ambiti che la rendono interessante e utile sia per inquadrare la personalità e il pensiero di P. e sia per comprendere la natura delle relazioni che intercorsero tra lui e alcuni grandi suoi contemporanei e l’opinione e il vissuto che di loro P. ne ebbe.

Per quanto riguarda il pensiero di P. vale segnalare le seguenti battute e passaggi.
Come quando afferma “l’antichissima tendenza russa allo straordinario”, o il modo, secondo lui, in cui si generano le grandi opere, che esprime una non velata critica agli sperimentalismi, soprattutto linguistici delle avanguardie: “Penso che le opere più grandi si siano avute quando un contenuto esuberante traboccava fuori dall’ artista senza dargli il tempo di riflettere, costringendolo a dire, in tutta fretta, il suo nuovo verbo nel vecchio linguaggio, non curandosi neppure di vedere se questo era vecchio o nuovo”, o quando parlando di A. Blok descrive quello che secondo lui è il profilo ideale di un poeta: “Blok aveva tutto ciò che fa grande un poeta: fuoco, tenerezza, penetrazione, visione personale del mondo, il dono di trasfigurare ogni cosa toccandola, un destino discreto, che si nascondeva, raccolto in se stesso…l’impetuosità…il suo modo di scrutare ovunque, la rapidità delle sue osservazioni”, a cui assimila, di fatto, Rilke: “Nel 1900 [Rilke] si era recato a Jasnja Poljana da Tolstoj, aveva fatto conoscenza…con mio padre…In quegli anni lontani donò a mio padre le sue prime raccolte…Due di quei libri mi capitarono fra le mani….e mi colpirono come i versi di Blok…per l’insistenza di ciò che vi era detto, la sicurezza, il tono deciso, serio del discorso, che andava diritto allo scopo”, per finire con un vero e proprio apologo per Tolstoj: “A casa seppi che Tostoj…era morto nella stazione di Astapovo…Ci preparammo in fretta e ci dirigemmo alla stazione Pavelec per prendere un treno nella notte….La terra arata riposava; balenava nei finestrini del vagone e non sapeva che lì vicino, vicinissimo, era spirato il suo ultimo gigante, colui che per lignaggio avrebbe potuto esserne il re; che avrebbe potuto essere il beniamino dei beniamini, il signore dei signori, per ricchezza d’ingegno raffinata da tutte le sottigliezze del mondo….In ogni momento della sua vita, egli possedeva la capacità di vedere gli avvenimenti nell’ isolata compiutezza del singolo istante…come ci capita di vedere raramente, per esempio negli anni dell’infanzia, o sull’ onda di una  felicità che tutto rinnova…Vede così il nostro occhio solo quando lo guida la passione. E’ la passione che col suo bagliore illumina l’oggetto e lo mette in evidenza. Fu questa passione, la passione della contemplazione creativa che Tolstoj portò sempre in sé”.

Ora tutti questi elementi sin qui riportati evidenziano come P. pur avendo vissuto e partecipato alla stagione futurista, in realtà se ne distaccò e ne prese le distanze e maturò un’identità letteraria assai più tradizionalista, nel solco della grande tradizione ottocentesca russa, come si dice peraltro esplicitamente nella nota biografica riportata nella quarta di copertina: “iniziò l’attività artistica nelle avanguardie, ma la sua opera resta saldamente legata alla grande stagione dell’Ottocento russo, e in particolare a Tolstoj”. Da qui deriva anche il suo rigetto dell’esperienza futurista: “Io non amo più quello che fu il mio stile fino al 1940, nego una metà di Majakovskij, non tutto di Esenin mi piace. La generale disintegrazione delle forme che fu propria di quell’ epoca, l’impoverimento del pensiero, il linguaggio impuro e diseguale oggi mi sono estranei”

E qui si inserisce l’altro aspetto presente in questa autobiografia e cioè quello dei rapporti con i suoi grandi contemporanei ed in particolare con Majakovskij. Premesso che P. in realtà cita e descrive una amplissima serie di personaggi con cui entrò in relazione, ovviamente in massima parte scrittori e poeti, di cui, non a caso, in appendice è stata redatta una bio-bibliografia degli autori citati di ben 16 pagine, tuttavia quelli sui quali si sofferma di più in relazione a quel periodo sono Majakovskij, Esenin e la Cvetaeva, e tra questi è sicuramente Majakovskij quello con cui ebbe il rapporto più complesso. Come è noto infatti questo rapporto fu molto conflittuale, ma al tempo stesso intenso e umanamente e intellettualmente rispettoso da parte di entrambi: “…i miei rapporti con Majakovskij nacquero da un incontro polemico fra i due contrastanti gruppi futuristici ai quali rispettivamente appartenevamo. Nell’ intenzione degli organizzatori doveva nascerne una zuffa, ma l’incidente fu scongiurato dalla mutua comprensione che entrambi manifestammo sin dalle prime parole”

Pur sottolineando che i suoi “…rapporti con Majakovskij, non furono mai intimi” e furono contraddistinti dalla diversità: “ Majakovskij definì in questo modo la nostra diversità con il suo abituale umorismo: “Che farci? Siamo effettivamente diversi. Voi amate il fulmine in cielo, io nel ferro da stiro elettrico””, tuttavia P. con grande sincerità, affetto e stima dice: “Amavo profondamente le prime poesie di Majakovskij. Sullo sfondo delle pagliacciate dell’epoca la sua serietà grave, severa, dolente, era così insolita! Era una poesia magistralmente scolpita, altera, demoniaca e al tempo stesso terribilmente condannata, agonizzante, quasi implorante soccorso”. Questo accenno ad una sorta di intrinseca debolezza di Majakovskij è importante perché tocca un aspetto su cui P. maturò una sua personale riflessione, presente anche in questa autobiografia e che riguarda la questione del suicidio di Majakovskij.

In questa “Autobiografia” P. infatti riflette sulle motivazioni che secondo lui ebbero i suicidi di Majakovskij, di Esenin e della Cvetaeva e per quanto riguarda Majakovskij dice: “Secondo la mia impressione Majakovskij si è sparato per orgoglio”. Ma in occasione di “un intervento [che tenne] a una serata in onore di Majakovskij che si svolse all’ Università di Mosca il 12 aprile 1933…pubblicato nel secondo volume delle Letture pasternakiane” ( da un articolo di V. Strada sul Corriere della Sera del 16.3.1999) P. affermò “ E’ un tema davvero terribile, questo, se si parla di suicidio, e forse non lo si dovrebbe nominare così. Ma, a citare Majakovskij, il tema del suicidio in tutti i suoi testi è presente, ed era possibile dire, senza pensarci su, che ne era minacciato, che quest’uomo giocava forte la sua vita” Quindi un Majakovskij “gigante fragile, roso dall’ istinto di morte” (V. Strada cit.) quello che P. fa intendere del suo “amico/rivale”, di cui più avanti ne ribadisce l’ammirazione:” …Che cosa è stato Majakovskij nella mia vita? Majakovskij è stato per me un grandissimo profeta” (V. Strada cit.).

In conclusione si può discutere se si vuole su le scelte estetiche ed artistiche di Pasternak, sul suo prendere le distanze da quel mondo a cui pure era appartenuto e a cui aveva contribuito, tuttavia da questa autobiografia emerge un uomo rispettoso delle scelte e delle vite altrui laddove esse siano il frutto  di una ricerca seria, coraggiosa e senza compromessi, capace di cogliere il valore letterario intrinseco nelle opere anche diverse per stile ed ispirazione dalle proprie, capace di dialogare ai più alti livelli e alla pari con tutti i grandi della sua generazione, comunque consapevole che al centro di tutto va posta, per un’artista, l’esperienza di una creazione artistica non conformistica e anticonvenzionale: “Bisogna scrivere in modo da mozzare il fiato, da far inorridire….Scriverne nel modo solito e convenzionale, scriverne in modo da non destare sbigottimento….non soltanto è senza senso e senza scopo, ma è cosa vile e spudorata”

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