“La dama e il boia” – Hermann Lenz

Hermann Lenz nato a Stoccarda nel 1913 e morto a Monaco di Baviera nel 1998 è stato definito l’ultimo scrittore conformista della letteratura tedesca. Questa definizione, apparentemente riduttiva, in cui convivono sia l’ aspetto stilistico che quello tematico, va tuttavia spiegata.

Dal punto di vista dello stile H. Lenz è uno scrittore dalla prosa assai elegante e raffinata, allusiva e preziosa che lo avvicina allo stile classico del grande romanzo tedesco del novecento, nel solco quindi più della tradizione che dell’innovazione e della sperimentazione, il che può indurre quella definizione di conformista di cui si diceva, senza che questo però abbia in sé nulla di sminuente. Non a caso egli fu apprezzato da Thomas Mann che lo segnalò a più riprese per il suo “strano talento di sognatore audace e originale”. Questo giudizio di Thomas Mann ci rimanda, a sua volta, agli aspetti tematici dell’opera di Hermann Lenz, nei quali, come per quelli stilistici, potrebbe valere quella definizione di conformista di cui si diceva all’inizio. Lenz è stato infatti uno scrittore che amava rivolgersi al passato: adottandone ambientazioni e personaggi, collocandone le vicende narrate, evocandone le atmosfere.

E questo “passato” per Lenz era quel mondo di inizio secolo, rappresentato dalla Vienna asburgica, in cui si svolgono diversi dei suoi romanzi tra cui “La dama e il suo boia”. In questo senso può quindi apparire “strano”, riprendendo quel termine usato da Thomas Mann, ed apparire altresì conformista uno scrittore che negli anni ’70 – “La dama e il suo boia” è del 1973 – si metta ad ambientare un romanzo in piena finis Austriae e decida che quel romanzo abbia nell’imperatore Francesco Giuseppe uno dei personaggi principali, così come appunto accade ne “La dama e il suo boia”. Ma per comprendere il perché di ciò e, in generale, la parabola di Lenz scrittore non si può prescindere da alcuni cenni biografici relativi alla sua vita e alla sua opera.

Lenz pur essendo nato nel 1913 e pur avendo esordito come poeta a metà degli anni ’30, in realtà, come scrittore in prosa, esordì solo a partire dalla fine degli anni ’50 (del ’59 è il suo primo romanzo) e raggiunse la sua maturità tra gli anni ’60 e ’70, durante i quali si concentra la sua produzione. Tanto da ricevere nel 1978 il Buchner Preis ed avere, nel 1973, la sua opera – fino ad allora sparsa tra piccole case editrici – raccolta e pubblicata organicamente dall’editore Surhkamp di Francoforte. Egli è dunque uno scrittore cresciuto e formatosi nel primo novecento ma che, però, scrive, pubblica ed ottiene riconoscimenti e notorietà solo nel secondo novecento, riandando e facendo ricorso, almeno in una parte della sua opera, a quell’epoca in cui nacque e crebbe e che, se pure al suo epilogo, egli conobbe.

Non si deve però credere che Hermann Lenz sia un nostalgico dell’era asburgica, che la rimpianga o intenda farne la rievocazione. Egli non è un Joseph Roth o uno Stefan Zweig che quell’epoca, anche molto dopo la sua fine, la rimpiangevano per davvero. Per Lenz riandare a quell’epoca è un modo per creare un simbolo. Il simbolo di qualcosa che proprio perché è morto può essere trasfigurato e reso come essenza di ciò che è destinato a non essere più: in tutta la sua incolmabile lontananza e in tutto il suo inesorabile declino. Tanto che parlando di quelle sue ambientazioni nella vecchia Vienna egli ebbe a dire: “mi piace rivolgermi a un’atmosfera purificata attraverso la morte”. Lenz quindi espelle la Storia o, quanto meno, la fa trasparire per trasformarla in una eco lontana e rende i personaggi, compresi quelli storici, come l’ Imperatore Francesco Giuseppe, icone di ciò che è destinato a scomparire e a dissolversi essendo egli interessato a cogliere e a descrivere proprio questo: lo scomparire e il dissolversi delle cose.

Ne deriva una narrazione rarefatta ed eterea, dove i personaggi sembrano quasi smaterializzarsi e diventare apparenze, ombre disincarnate di se stessi, ormai incapaci e impossibilitati a dominare gli eventi. Lenz penetra le esistenze dei protagonisti per mostrarcene l’avanzare del loro svanire, di fronte ad una realtà superiore e sfuggente rispetto elle loro volontà e capacità. Siano essi l’infelice personaggio della dama, l’anacronistico personaggio del boia o l’ormai scettico e disincantato Francesco Giuseppe. In tal senso, a quest’ultimo, Lenz fa fare, già in una delle prime pagine, questa riflessione: – “Trasse dalla tasca dell’uniforme una moneta coperta di verderame, la guardò pensando che un giorno la terra se la sarebbe di nuovo mangiata; eppure le monete duravano, le monete come la poesia. Restava ciò che era duro e ciò che era incorporeo, più invisibile di un alito. Degli imperatori romani erano sopravvissute solo monete e statue. Nessuno sapeva dove giacevano le loro ceneri.”  – che rivela, da subito, l’incedere di quel dissolversi di cui si parlava.

Laddove, delle umane cose ed esistenze, ci possono restare solo o i resti archeologici o le creazioni dello spirito come la poesia, sintesi, peraltro, delle due vocazioni di Lenz: l’archeologia che egli aveva studiato così come la storia dell’arte e la letteratura di cui la poesia era stata il suo primo interesse. Ma se ciò che resta mantiene di ciò che è stato solo il lascito della sua impalpabile essenza, pacificata e depurata dalla morte, tale lascito è però sempre l’esito di un disfacimento a cui, inesorabilmente, tutto è soggetto. Ed è questo disfacimento che Lenz ne “La dama e il suo boia” ci mostra e ci racconta, intersecando le vite dell’Imperatore, della dama, la contessa Leonie von Seilern, e del boia di corte. Con una prosa venata di malinconica leggerezza con la quale crea un’atmosfera magica e pacata quasi onirica, Lenz ci conduce nell’intimo dell’animo dei suoi personaggi, facendoci partecipi dei loro moti interiori, dei loro smarrimenti e dei loro spaesamenti, della loro vulnerabilità e della loro solitudine.

Perché nulla e nessuno può salvare dal loro destino l’ Imperatore, la dama e il boia accomunati da una progressiva e impietosa estraneità rispetto a ciò che li circonda, alla quale essi stessi assistono, resi impotenti spettatori di se stessi. Un Francesco Giuseppe colto ormai al suo tramonto non è solo il simbolo del declino di un’epoca ma è, prima di tutto, un uomo che riflette sulla caducità del mondo e dismessa ogni residua ambizione “sente” che dietro le forme che i riti di corte prescrivono “c’era solo morte”  e che dentro di lui c’è “un uomo qualunque, uno come tutti”. Perché gli “altri non erano affatto interessati a sapere com’era davvero un imperatore;…il vero imperatore era del resto così vecchio, che ormai si librava a mezz’aria, lontano, come se già non fosse più di questo mondo”.

Un imperatore che, per dovere, sta ancora al gioco e si presta a farsi mausoleo di se stesso ma che, nel suo intimo, è già sceso giù dal trono e, in un muto dialogo con se medesimo rivela la sua vera altezza nel distacco umanissimo, dolente e premonitore con cui guarda il mondo consapevole come ormai è sia di quel “marcio [che] stava aumentando tra gli uomini”  ma anche di quegli “abissi dell’irrazionale che ciascuno si porta dentro”, cogliendo l’incipiente disfarsi della totalità sia storico-sociale che soggettiva e individuale. E di quel marcio e di quegli abissi vittima designata appare la contessa von Seilern, emblema essa stessa del disfacimento: “Amava le cose in disfacimento, semidistrutte, rovinate; i muri che si scrostano, i vicoli umidi e scuri con poche lanterne” , a cui Lenz, rivolgendosi come a tutti i suoi personaggi con il “tu”, come se dialogasse con le loro coscienze, dice: “Cos’ hai in comune con quell’uomo secco e lungo che di rado torna a casa? Ti guarda dall’alto in basso, gli dai fastidio…Sai bene che prima o poi ti lascerà sola, che per te ha conservato solo un po’ di altezzosa pietà. Senza la tua cameriera ti saresti già uccisa” .

Quell’uomo è il marito , il conte von Seilern, presidente del Tribunale, uomo potente e mondano, emblema di quel marcio che avanza così come l’Imperatore, riflettendo su di lui, fa intendere: “Non era forse segno di disfacimento passare il proprio tempo in compagnia di artisti e delle loro mogli, e portarsi la cameriera al Volkstheater?”. Ma, la contessa in balia dei recessi della sua anima è ormai sprofondata nei suoi abissi e non troverà miglior fortuna neanche fra le braccia del suo amante, incapace di amarla davvero, il quale: “Continuava a tenerla in pugno, proprio perché non voleva tenercela” e che si ostina ad “analizzarla”: “Nessuno vuol farti del male, tranne tu stessa”  – le dice – senza capire che proprio di lui la contessa “si voleva vendicare colpendo se stessa”. E, inesorabile, quel destino di morte, a lungo da Leonie von Seilern dilazionato, si realizzerà.

E come in un contrappasso grottesco la contessa si strangolerà con la corda dell’impiccato, fornitale dal boia di corte convinto, nel fargliela avere, di assecondare solo un capriccio della contessa. E quel gesto Leonie von Seilern lo compirà proprio di fronte e in presenza del boia il quale, depositario del dare la morte, sarà ridicolmente svuotato del suo ruolo e del suo stesso prestigio dal quel gesto che lo lascerà disorientato e sgomento al punto da autodenunciarsene come se egli ne fosse colpevole, finendo pure lui per diventare simbolo di un mondo destinato a scomparire. Perché a differenza di quello che il boia si immaginava del futuro: “Quel futuro che immaginava in eterno uguale a se stesso, uguale al presente e uguale al passato che si stendeva là dietro in lontanaza”, in realtà, come dirà nel finale l’Imperatore, “tutto passava e niente valeva la pena” di fronte all’ ineluttabile provvisorietà delle cose.

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