“Racconti dell’incubo e dell’impossibile” – Edgar Allan Poe

Barbara Lanati in un suo articolo apparso sul Manifesto il 10.7.86, in occasione del centenario della pubblicazione de “Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde” e successivamente inserito nell’ edizione Feltrinelli “Universale economica – I classici” del capolavoro di Stevenson, di cui la Lanati è stata anche traduttrice, solleva la questione del rapporto tra Poe e Stevenson affermando espressamente che “Poe è per Stevenson un punto di riferimento”.

E ciò precipuamente per le connessioni e i rimandi che intercorrono tra “Dr Jekyll e Mr. Hyde” (J. e H.) e “William Wilson” (W.W.), il racconto di Poe che apre la raccolta dei “Racconti dell’incubo”. In tal senso la Lanati afferma: “Dr. Jekyll è anche l’ultimo tragico erede di William Wilson, il disperato, affascinante archetipo della solitudine maschile, raffigurato nell’ omonimo racconto di E.A. Poe”. E, in questo, non si può non essere d’accordo con la Lanati perché leggendo “W. W.” si resta colpiti come Poe con “W. W.” abbia preceduto “J. e H.” e quindi Stevenson.

“W. W.”  è infatti anch’ esso un racconto sul “doppio” e in particolare sul doppio maschile, con alcune significative differenze di impianto rispetto a J. e H., ma profondamente simile per diversi aspetti: la solitudine maschile, ma non solo, essendovi in entrambi l’antagonismo interno al doppio, l’impossibilità di venire a patti con il proprio doppio e quindi metaforicamente con il diavolo, l’inevitabilità della morte come catarsi risolutiva dell’inconciliabilità del doppio, con cui, implicitamente, sia per Poe che per Stevenson, è sempre meglio venire a patti, pena appunto la morte, non tanto e non soprattutto la morte fisica, che finisce anzi per diventare una liberazione, quanto la morte interiore ed esistenziale che è la vera condanna. Vi sono tuttavia come detto alcune significative differenze tra le “figure” di Poe e le “figure” di Stevenson.

1) Il doppio di W.W. a differenza di J. e H. è omonimo di W.W.
In W.W. vi sono quindi due W.W. sostanzialmente identici per fattezze, caratteristiche anagrafiche, aspetti esteriori, nonché appunto per il nome: il massimo quindi dell’identificazione, ma in realtà profondamente diversi per natura, scopi, identità, ruoli che incarnano.
2)Il doppio di W.W. a differenza di J. e H. è “esterno” a W.W. non è cioe un prodotto delle “contorsioni delle viscere” come è H. per J., il quale si trasforma in H., ma è un corpo separato, un altro, la cui alterità appare come un incubo disturbante e incalzante a W.W. In altre parole W.W. non può sfuggire in W.W., non può trasformarsi e scomparire in W.W. ma si trova, per tutta la vita, (dall’adolescenza: nascita sociale, alla morte) il suo doppio tra i piedi, il quale gli rimanda inesorabile e speculare la sua “doppiezza” duplicemente intesa. Sia come alterità del doppio in sé, ma anche e soprattutto come assenza di senso morale, di valori etici, in sostanza come assenza di bene
3) Infatti, il doppio di W.W., a differenza di H. incarna il bene, mentre W.W. a diffrenza di J. incarna il male. Vi è quindi un ribaltamento di ruoli nel racconto di Poe rispetto a quello di Stevenson. E’ la parte “pubblica” socialmente riconosciuta e riconoscibile del soggetto ad essere in Poe abietta e malsana, mentre il W.W. che “esiste” come generazione del suo doppio è la parte sana che richiama inopinatamente e inesorabilmente “sino ai confini stessi della terra” W.W. alle sue responsabilità.

Tutto questo, riprendendo la Lanati, in un contesto di assoluto solipsismo e autoreferenzialità maschile, dove la solitudine del soggetto sta nell’ impossibilità di uscire dal confronto/scontro col suo doppio e dove le vite “sociali”, che W.W. instaura in giro per il mondo e per tutta la vita, sono “perseguitate” dal suo doppio che piomba inesorabile dovunque a ricacciare W.W. nella sua solitudine di malvagio e quindi nell’ infelicità, senza che questo possa essere “detto” ad alcuno ed “accolto” da alcuno: non c’è nessuno con cui parlarne perché non c’è nessuno che capisce o capirebbe. E Poe descrive molto bene questo quando descrive gli anni giovanili di W.W. con il suo doppio, nel contesto della vita in collegio, in cui i compagni non colgono mai l’ opacità della situazione e le messe in discussione che il doppio di W.W. fa, anche pubblicamente, a W.W., a vederle e a sentirle è solo lui.

“Potevo anche solo per un istante, dubitare che in colui che mi aveva ammonito a Eton, in colui che aveva distrutto il mio onore a Oxford, in colui che aveva stroncato le mie ambizioni a Roma, la mia vendetta a Parigi, il mio appassionato amore a Napoli, o ciò che egli aveva definito la mia avarizia in Egitto, che in costui insomma, mio arcinemico, mio genio malefico, io potessi non riconoscere il W.W. dei miei giorni di scuola, l’omonimo, il compagno, il rivale, l’odiato e temuto avversario dei miei anni giovanili? Impossibile”. In altre parole è come se “il sogno di potenza” di W.W., retaggio di una pulsione infantile autocentrata e totalizzante, venga costantemente reso vulnerabile e fragile dal suo doppio, con una serie continua di disconoscimenti sociali che “isolano” sempre di più W.W., fino all’ epilogo massimo della morte, che W.W.stesso ci comunica come imminente a inizio racconto, come fosse “sospesa”, giusto il tempo di poterci raccontare la sua storia, ma di fatto, in quel momento, ormai già avvenuta simbolicamente.

Perché W.W. non muta e non muterà mai, fuggirà nel mondo cercando riparo ad una “coscienza”, la sua, incarnata dal suo doppio, che lo assilla, ma con cui rifiuterà sempre di confrontarsi, come Poe ci fa capire subito, dalla dedica apposta all’ inizio del racconto:
<< “Che cosa dici? Che cosa dici della bieca “coscienza”? Di questo spettro sul mio cammino?” CHAMBERLAYNE, Pharronida” >> 

La grandezza di questo racconto sta, tra le altre cose nelle anticipazioni freudiane che esso contiene, in quello scontro tra autoaffermazione del sé e regole, tra interno e esterno, tra Io e Super Io, che oggi ben conosciamo. E, in questa lotta all’ ultimo sangue fra i due, il doppio di W.W., nel dichiarare la sua sconfitta e la sua morte è, in realtà, lui che vince, rinfacciando al primo che la morte dell’uno, inevitabilmente determinerà la morte dell’altro, e così come in J. e H., saranno i doppi a trascinare o costringere alla morte coloro che li hanno generati, a rimarcare come è la convivenza delle parti che genera la propensione all’ equilibrio e all’ unità, pena il disfacimento del soggetto.
“Era Wilson, ma la sua voce ora non era più un sussurro e mi parve di udir parlare me stesso, mentre diceva:
– Tu hai vinto, e io cedo di fronte a te; ma, da questo momento, anche tu sei morto…morto al mondo, al cielo, alla speranza! Perché tu esistevi in me… e, nella mia morte, guarda in questa immagine, che è la tua stessa, come ti sei orrendamente assassinato”.
******

Degli altri “Racconti dell’incubo e dell’impossibile” che fanno parte di questa raccolta, riporto una breve nota solo relativamente a quelli che mi sono apparsi più belli e significativi.

“L’UOMO DELLA FOLLA” La solitudine dell’uomo che non può stare solo: “Quale terribile disgrazia non poter essere soli” La Bruyere 
<<“Questo vecchio” mormorai a me stesso “è il simbolo e il genio stesso del delitto: non vuole, né può star solo. E’ l’uomo della folla”>> 
“L’OMBRA” Sulle ombre dei morti che appaiono ai vivi: “…gli accenti con cui l’ombra si era espressa non erano gli accenti di alcun essere umano singolo, bensì di una moltitudine di esseri, e, variando di cadenza e di sillaba in sillaba, erano fiocamente risuonati ai nostri orecchi con le inflessioni note, familiari di mille e mille amici scomparsi” 
“IL SILENZIO” Il silenzio (della morte?) peggio della solitudine e della furia degli elementi: “E tutte le cose diventarono maledette e tacquero….E gli occhi mi si posarono sul volto dell’uomo, e quel volto era smunto ed emaciato dal terrore. L’uomo sollevò bruscamente il capo che aveva stretto tra le mani e si erse sulla rupe, e ristette in ascolto. Ma nessuna voce echeggiava più per il vasto sconfinato deserto, e i caratteri incisi sulla roccia dicevano “silenzio”. E l’uomo fu percorso da un tremito; distolse la faccia e fuggì via ratto, né più lo vidi”                                                                      “ELEONORA” “Essendo l’anima beata, nella manifestazione dell’aspetto corporeo” Raymond Lully 
“Tenendoci per mano, per quindici anni, Eleonora e io vagabondammo per questa valle, finchè l’amore non ci entrò in cuore” 
L’amore per la cugina Virginia che poi sposerà (lei tredicenne lui ventiseienne) la quale morirà di tubercolosi a 25 anni. Dopo Poe non si sposerà più, la morte sopraggiungerà poco prima di nuove nozze.
“IL RITRATTO OVALE” La vita surrogato dell’arte. L’arte più viva della vita. “Per un attimo l’artista ristette estatico dinanzi all’ opera che aveva creata; ma un attimo dopo, mentre il suo sguardo era ancora fisso sulla tela, divenne pallidissimo, un brivido lo percorse e arretrando proferì a gran voce: “Ma è veramente viva; è la vita stessa!” quindi si volse bruscamente a guardare l’amata: era morta!” 
“RE PESTE” Racconto surreale alla Tim Burton. Molto più divertente che cupo. Per questo racconto Poe prese ispirazione dalla peste manzoniana, essendo stato il recensore della 1à edizione americana dei Promessi Sposi.
“METZENGERSTEIN” La vendetta dei morti è assai peggio di quella dei vivi: “Una peste ero da vivo; morendo diverrò la tua morte” Martin Lutero 
“SEI TU IL COLPEVOLE” “…nel medesimo istante balzava su a sedere, …il cadavere pesto, insanguinato e quasi del tutto putrefatto del povero signor Shuttleworthy, il quale fissò per alcuni attimi con gli occhi decomposti e smorti, carichi di una paurosa accorata intensità, il viso del signor Goodfellow, quindi si udirono lente, chiare, distinte le seguenti parole: – Sei tu il colpevole! – dopo di che l’orrenda apparizione cadde rotolando fuori dalla cassa con l’aria d’essere assolutamente paga della beffa giocata, e finì riversa sulla tavola sfasciandosi” 
“PERDITA DI FIATO” “E adesso immaginatemi chiuso nel mio salottino privato, pauroso esempio delle fatali conseguenze di un accesso d’ira: vivo, ma con tutte le stigmate dei morti; morto, con tutte le inclinazioni dei vivi; vivente anomalia unica sulla terra; calmissimo, eppure senza fiato” 

2 risposte a "“Racconti dell’incubo e dell’impossibile” – Edgar Allan Poe"

  1. viducoli 20 marzo 2017 / 19:09

    Ciao R.
    Grazie per avermi segnalato questa tua recensione, che mi ha permesso di riaprire la mia edizione dei Racconti fantastici e del terrore di Poe ed andare a cercarvi William Wilson. Poe è uno degli autori che ho amato di più da giovane: pensa che ho acquistato questo volume, edito da Mursia e con in copertina Philippe Leroy e una graziosa signorina tutta insanguinata (1979, L. 2.400), il 14.1.1980, leggendolo (anzi divorandolo a letto, mi ricordo) poco dopo. Non avevo quindi il minimo ricordo di W.W., che mi rileggerò subito.
    Il doppio in letteratura è secondo me un topos meraviglioso, a cui si potrebbero dedicare letture tematiche che potrebbero durare una vita: si potrebbe anzi consigliare a qualche giovane appassionato di costruire la sua biblioteca solo con libri che affrontano questo tema, e credo che sarebbe una biblioteca straordinaria e vastissima, da Plauto (ma forse anche prima, dai Greci) ad oggi.
    Ecco, lo suggerirò al mio doppio, se scopro che è più giovane di me.

    A presto
    V.

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  2. ilcollezionistadiletture 21 marzo 2017 / 6:48

    Si, Poe è uno di quegli autori che andrebbero letti e riletti continuamente perché la sua ricchezza è tale che non si finisce di scoprirla.
    Sulle infinite diramazioni del doppio in letteratura sono assolutamente d’accordo,…e, vista la vastità ne abbiamo da leggere, anche per il nostro doppio.
    R

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