“Poesie” – Georg Trakl

Georg Trakl – “Poesie” – Scelta, traduzione, premessa e note di Ervino Pocar – Rizzoli – 1974

La poesia di Trakl è una fondazione del mondo; egli è uno di quei poeti che, come Hölderlin, sono chiamati a fondare una verità o a svelarne l’assenza, a rendere abitabile la terra o a mostrarne l’inabitabilità. Leggere Trakl significa interrogarsi sulle cose ultime, sulla possibilità stessa della poesia, sul senso estremo della vita. Le interpretazioni di Trakl sono dei confronti con l’essenza del nostro destino.” (Claudio Magris – “Prefazione” in “Trakl. Le poesie” – 2004 – Garzanti)

Trakl era un poeta. Tra i cinque o sei grandissimi del novecento…Nato a Salisburgo nel 1887, padre commerciante di ferramenta piuttosto agiato, madre melomane e collezionista di oggetti d’arte…Georg crescerà…devoto a Margarete (Grete), la sorellina più piccola che diverrà qualche anno dopo la sua amante, precipitando insieme a lui in una delle relazioni più atroci e terribilmente belle mai raccontate…Nel 1897 Georg entra al ginnasio. Verrà bocciato sia alla quarta che alla settima classe, tanto che nel 1905 sarà costretto a lasciare il liceo e inizierà a far pratica come apprendista nella farmacia Zum weißen Engel (All’Angelo Bianco)… dove diventa preda della cocaina e del cloroformio a cui…si dedicherà con assiduità. [Dopo alcuni anni di praticantato, Georg si iscrive all’Università di Vienna e si laurea in farmacia]...Legge Rimbaud, Baudelaire, Nietzsche, Dostoevskij… Comincia a scrivere recensioni, drammi teatrali, poesie. I suoi versi incorniciano scene di vita campestre, cieli blu attraversati da corvi neri, tini ricolmi di vino lasciato a dormire nell’ombra. In apparenza, niente di strano a parte una bellezza a tratti eccessiva. Di fatto, tuttavia, attraverso un inspiegabile rovesciamento di quella stessa bellezza, emerge un senso di minaccia che anticipa catastrofi che…non sono neanche all’orizzonte.” (Libera riduzione di un articolo di Nicola Lagioia – “Georg Trakl, l’anniversario che valeva la pena ricordare” – pubblicato il 19.11.2014 sulla rivista on line “minima&moralia”)

Il 3 novembre 1914, moriva all’ospedale di Cracovia, probabilmente suicida per una dose eccessiva di cocaina, il poeta austriaco Georg Trakl. Nelle sue poesie, che si possono leggere anche nelle traduzioni di Elio Gianturco (1925), Leone Traverso (1938), di Giaime Pintor (1939-40), di Ida Porena (1963), di Ervino Pocar (1974), di Enrico De Angelis (1999), [di Vera Degli Alberi e Eduard Innerkofler (2004), di Dario Borso (2020)]… la «azzurritudine» (Bläue) della natura limpida e, insieme, trasfigurata, si affianca alla cadenza, come attutita dal manto di nebbia, del remo nelle acque che scorrono, chiare o torbide, lente e inesorabili e, ancora, alla visione inequivocabile del disfacimento (Verfall) all’orrore della guerra…che schiaccia, maciulla, stravolge, annienta l’umanità.” (Libera riduzione di un articolo di Anna Maria Curci – “Georg Trakl, cento anni fa” – pubblicato il 3.11. 2014 sul sito “Poetarum Silva”)

…Georg Trakl,…fin da giovanissimo aveva individuato nella poesia l’unico modo di tollerare la realtà, ricreandola e modellandola in versi che nel Novecento di lingua tedesca non hanno paragoni. Vengono in mente, è vero, nomi come Rilke, Benn e Celan, ma Trakl, se mai possibile, si è spinto perfino oltre, tanto che proprio Rilke, suo grandissimo ammiratore, si era chiesto quali potessero mai essere le scaturigini di un genio poetico così incommensurabile, capace di riplasmare la lingua tedesca con l’uso di catene di immagini e metafore volutamente incongrue, ma inserite all’interno di una struttura paratattica di geometrica e davvero prodigiosa perfezione. E’ vero, insomma, quanto scrisse di lui Albert Ehrenstein: «In Austria, nessuno ha mai scritto versi più belli dei suoi». (Libera riduzione di un articolo di Mattia Mantovani – “Georg Trakl. Lontano dal frastuono del tempopubblicato il 14.09.2023 nel sito “RSI Cultura”)

La prima raccolta di Trakl (“Le poesie”, 1913) fu pubblicata con il poeta ancora in vita; la seconda, (“Sebastiano in sogno”) – già pronta per la stampa -, usci postuma nel 1915. La prima produzione di Trakl reca ancora un’impronta impressionistica: la dolce sonorità delle sue composizioni è attraversata da cupe atmosfere autunnali, da una stanca rassegnazione, dalla malinconia per la transitorietà di ciò che possiede bellezza. Le composizioni della sua maturità poetica, documenti di un’individualità artistica di prim’ordine, abbandonano a poco a poco la tavolozza impressionista e creano uno spazio magico di «irrealtà sensibile», uno spazio di invenzioni linguistiche in cui la «pioggia nera», le «azzurre tenebre», il « riso azzurro», il «bianco sonno», il «vento rosso» sono simboli di un universo completamente trasmutatosi in espressività estetica. Tale universo è funestato da profondissima afflizione e affanno, è segnato dall’oscurità, dal freddo, dall’angoscia enigmatica, dallo spettro della pazzia e della morte. È un universo senza storia, in cui il tempo non esiste piú, è un luogo della disperazione denso di ombre illuminato fuggevolmente dalla debole luce della speranza metafisica. Il mondo sensibile vi appare totalmente trasformato: la cifra ermetica della poesia strania le parole dal mondo degli oggetti reali e il verso del poeta, che molto spesso si articola in frasi isolate, con la sua sintassi scinde in frammenti il mondo immaginario.” (V. Žmegač , Z. Škreb, L. Sekulić –“Breve storia della letteratura tedesca”– Einaudi – 2000 – pg. 319)

Il Trakl migliore è un classico, il solo vero classico della poesia tedesca del Novecento… Egli è un ‘classico’ alla maniera di Hölderlin; e lo è non per imitazione, ma per effetto dell’essenza più profonda dell’anima. Dopo Hölderlin, soltanto Trakl seppe maturare lentamente un proprio mondo poetico altrettanto coerente, denso e compatto e creare con ciò anche un proprio linguaggio….di particolare dolcezza è l’andamento della poesia Die Sonne (Il sole), che si adegua al ritmo del giorno dal sorgere del sole all’oscurità della notte. Ritorna, come ogni giorno il sole giallo sopra il colle; è bello il bosco, l’oscuro animale e l’uomo: sia cacciatore o pastore. Lenta matura l’uva, il grano, e quando il sole quieto declina ”un bene e un male sono qui pronti”. Questa doppia possibilità o realtà conduce ad un’inattesa, allucinante illuminazione finale:”erompe il sole da sinistra forra.”. Questo sole che erompe di notte da un’oscura gola non è il sole giallo del mattino; né il poeta ci dice, né noi possiamo comprendere, se sia un sole “buono” o “malvagio”, se l’illuminazione finale sia beatificante o annichilente. Ora questo appunto ci sembra la legge strutturale più caratteristica di Trakl: la poesia si muove lentamente verso la sua conclusione che sconvolge d’improvviso, o sembra sconvolgere, un ordine già costituito, per contrapporvi un ordine diverso, forse soltanto in apparenza diverso. E’ che il bene e il male in Trakl non si escludono, coesistono invece in quel suo spazio magico del vuoto, da cui sono banditi ormai per sempre la gioia e il dolore. Essenziale è dunque in Trakl quasi sempre il finale della lirica; essenziale è spesso il titolo, che riassume ed anticipa il “contenuto” materiale della lirica, compreso il finale, ma si rivela poi spesso in contraddizione – reale o apparente? sarà questo l’insolubile problema – col “contenuto” medesimo.” (Ladislao Mittner – “Storia della letteratura tedesca – III**. – Dal fine secolo alla sperimentazione (1890-1970) – Tomo secondo” – Einaudi – 1978 – pgg.1241,1242,1255)

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I CORVI

Sul nero paesaggio già s’avventano

i corvi a mezzodì con grida dure,

con la lor ombra la cerva rasentano;

o sostano aggrondati sulle alture.

Vanno il bruno silenzio a disturbare

in cui la piana estatica si stende

come donna cui grave affanno prende,

e talvolta si sentono altercare

per carogne fiutate qui o là.

A un tratto drizzan le ali a tramontana

e scompaiono in mesta carovana

nel cielo in un tremor di voluttà.

MALINCONIA DELLA SERA

Il bosco morto immobile si estende,

cinto dalle ombre come siepi intorno.

Dalle tane le bestie escono al giorno

tremanti, mentre un rio la piana fende

seguendo felci e pietre levigate,

e brilla argenteo tra fronde a festone

o l’odi dirupare in un burrone…

Forse le stelle sono già spuntate.

Senza orizzonte appare la pianura,

villaggi sparsi, laghetti e paludi,

qualche cosa che brucia (oppur t’illudi?):

un lampo guizza sulla strada scura.

Passa nel cielo un brivido segreto.

Migra uno stormo di selvaggi uccelli

in paesi diversi, nuovi, belli.

Sale e discende l’onda del canneto.

D’AUTUNNO

I girasoli sulla siepe splendono,

gl’infermi stan seduti, zitti, al sole.

Donne faticano nel campo e cantano.

Suonano le campane del convento.

Dicon gli uccelli favole remote,

suonano le campane del convento.

Da presso note di violino giungono.

Si pigia oggi nei tini l’uva bruna.

Ora l’uomo si mostra lieve ed ilare.

Si pigia oggi nei tini l’uva bruna.

Sono aperte le camere mortuarie

bell’e dipinte dal fulgor del sole.

IL GIORNO DEI MORTI

A Karl Hauer

Donnette e omini, squallide figure,

oggi spargono fiori azzurri e rossi

sopra le loro tombe in luce incerta.

Sembran fantocci in vista della morte.

Oh come appaiono umili e angosciati!

Proprio come ombre dietro a cespi neri.

Reca un frignar di nascituri il vento

e intorno vedi un vagolar di luci.

Trema fra i rami un gemito di amanti

e lì si sfà una madre col bambino.

Irreale è la danza dei viventi

nel tardo vento stranamente sparsi.

Vita nel caos, la loro, e tormentata.

Abbi pietà, Signore, delle pene

delle donne, e dei lagni disperati!

C’è chi passeggia sotto al firmamento.

AUTUNNO TASFIGURATO

Termina l’anno poderoso

con uva d’oro e frutta in brolo.

E tace il bosco prodigioso,

compagno di chi vive solo.

Dice il bifolco: Tutto è buono.

E infonde a lui lieto coraggio

di voi, campane a sera, il suono.

S’ode un addio d’uccelli in viaggio.

E il tempo dolce dell’amore.

Sul fiume blu la barca abbriva

in un cangiante luccicore…

finché a silenzio e pace arriva.

UMANITA’

Umanità schierata avanti a bocche di fuoco,

un rullo di tamburi, visi scuri, accigliati,

passi in nebbia sanguigna, ferro nero tuona,

disperazione e notte in sconsolati cervelli.

Qui l’ombra di Eva, qui la caccia e il fulvo denaro.

Nembo dalla luce attraversato, la Cena.

Un tenero silenzio attornia il pane e il vino,

e quelli sono in dodici raccolti a mensa.

Gridano in sonno a notte sotto rami d’olivo,

San Tommaso immerge la mano nella piaga.

MORMORATO AL POMERIGGIO

Sole d’autunno scialbo e titubante,

dagli alberi la frutta cade.

Silenzio dello spazio azzurreggiante

un lungo pomeriggio invade.

Voci metalliche, voci di morte;

bianco animal si abbatte al suolo.

E di fanciulle brune un cantar forte

va con le foglie via di volo.

Dalla fronte di Dio nascono scene

ed ali tinte di follia.

Sulla collina un’ombra va e viene

in una putre e nera scia.

Crepuscolo di pace, odor di vino

e di chitarre un tinnir mesto.

Alla luce del fioco lumicino

entri, seppur nel sogno, desto.

IN PRIMAVERA

Cheta è calata sotto oscuri passi la neve,

all’ombra dell’albero

amanti sollevano le palpebre rosse.

La stella e la notte seguono sempre

gli scuri richiami dei naviganti;

sommessi i remi battono il tempo.

Tra poco al piede del muro cadente

la viola fiorisce,

verdeggia in silenzio la tempia del solitario.

UNA SERA D’INVERNO

(seconda versione)

Quando la neve batte alla vetrata

e a sera la campana a lungo invita,

nella casa tranquilla e ben fornita

molti trovan la mensa apparecchiata.

Vien da lontano un pellegrino, solo,

per oscuri sentieri a questa porta.

L’albero in dono grazie e frutti porta,

sorti dal fresco natalizio suolo.

Apre in silenzio ed entra il pellegrino:

impietrita è la soglia dal dolore.

Ed ecco, in un purissimo chiarore

splendono sulla mensa pane e vino.

AGLI AMMUTOLITI

Oh, la pazzia della grande città, quando la sera

contro la cupa muraglia si ergono alberi storpi,

dalla maschera argentea lo spirito del male ci guarda;

la luce con frusta magnetica soppianta la notte di pietra.

Oh, quei rintocchi remoti delle campane al tramonto!

Prostituta che in brividi freddi partorisce un infante già morto.

Furente l’ira di Dio scudiscia la fronte all’ossesso,

purpureo contagio, fame che gli occhi verdi dirompe,

oh, l’orrendo riso dell’oro.

Ma sanguina quieta in buia caverna una gente più muta,

compone con duri metalli la testa chiamata a redimere.

IL SOLE

Il sole giallo ogni giorno varca il colle.

Bella è la selva, l’animale fosco,

l’uomo cacciatore o pastore.

Rossiccio sale nel verde lago il pesce.

Sotto il cielo tondo il pescatore

naviga piano con la barca azzurra.

Lento matura il grappolo, il grano.

Quando il giorno queto declina,

un bene e un male sono qui pronti.

Il viandante, quando annotta,

solleva piano le palpebre grevi;

erompe il sole da sinistra forra.

ESTATE

Di sera cessa il lamento

del cuculo nel bosco.

Più basso il grano s’inchina,

il rosso papavero.

Nera tempesta minaccia

al di sopra del colle.

L’antica canzone del grillo

si estenua nel campo.

Non più si muove la fronda

dell’ippocastano.

Sulla scala a chiocciola

il tuo abito fruscia.

La candela brilla quieta

nella camera buia;

una mano d’argento

la spegne.

Notte senza vento, senza una stella.

IL CUORE

Il cuore selvaggio imbianchì nella selva,

oh angoscia oscura

della morte, quando l’oro

morì nella nuvola bigia.

Sera di novembre.

Al nudo portone del macello aspettava

il gruppo di povere donne;

in ogni canestro

caddero carne marcita e interiora:

vivanda esecrata!

L’azzurra colomba della sera

non cercò conciliazione.

Un duro squillo di tromba

percorre l’auree fronde

bagnate degli olmi.

Una bandiera stracciata,

fumante di sangue,

sicché un uomo tende l’orecchio

in furiosa tristezza.

O tempi di bronzo

sepolti là nel rosso tramonto!

Dal buio vestibolo uscì

l’aurea figura

della giovinetta

circondata da pallide lune,

in gran pompa autunnale,

da scavezzati lugubri abeti

nella burrasca notturna:

l’erta fortezza.

O cuore

che brilli in nevosa frescura!

IL SONNO

(seconda versione)

Maledetti voi, veleni oscuri,

bianco sonno!

Questo stranissimo giardino

d’alberi crepuscolari

popolato di serpi e di falene,

di ragni, pipistrelli.

L’ombra, straniero, che hai perduta

nel rosso del tramonto:

un truce corsaro

nel salso mar della tristezza.

Sul ciglio della notte

s’alzano a volo uccelli bianchi

sopra crollanti città d’acciaio.

LA MALINCONIA

Enorme sei, tenebrosa bocca

nell’intimo, forma plasmata

da nubi autunnali,

d’aurea pace serale;

un torrente montano

di barlume verdino

nel circolo d’ombra

di pini silvestri schiantati;

un pio villaggio che in immagini brune si estingue.

Ed ecco i neri cavalli

saltare sul pascolo caliginoso.

Soldati!

Dal colle ove rotola il sole morente

prorompe il sangue che ride…

sotto roveri

senza parola! Oh crucciata mestizia

dell’esercito; un elmo fulgente

cadde tinnendo da fronte purpurea.

La notte autunnale arriva sì fresca,

brilla di stelle

sopra ossa virili spezzate

la tacita monaca.

LAMENTO

Sonno e morte, le aquile tetre

frusciano tutta la notte intorno al mio capo:

la gelida onda dell’eternità

ingoierà forse

l’aurea effigie dell’uomo.

Contro orridi scogli

si sfracella il corpo purpureo.

Ed è un lagno la voce opaca sul mare.

Sorella di burrascosa tristezza,

vedi: una barca angosciata affonda

sotto le stelle,

sotto il tacito volto della notte.

INCESTO


Sui nostri baci minacciosa notte sta.

Si mormora: Chi affranca voi da questa colpa?

Tremanti di dolcezza e di empia voluttà

preghiamo: Perdonaci, Maria, facci la grazia!

Da fiori in coppa sale un profumar voglioso,

ci carezza la fronte livida di colpa.

Quasi esausti assorbendo il soffio d’aria afoso

sogniamo: Perdonaci, Maria, facci la grazia!

Delle Sirene il fonte più violento scroscia,

più scura sta la Sfinge avanti a tanta colpa.

Ribatte il nostro cuore e, peccator, s’affloscia,

singhiozza: Perdonaci, Maria, facci la grazia!

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