Ci sono testi che sfuggono ad una immediata comprensione, celati, come essi sono, in una loro misteriosa attrazione. Testi in sé esili e impalpabili e, purtuttavia, pregni di una loro densità la quale costringe a riflettere, a porsi domande, a cercare di carpirne il segreto e i segreti. Testi che si rendono accattivanti per la loro scrittura lieve e apparentemente inoffensiva ma che contengono una loro perentoria durezza che li rende taglienti e stranianti. Testi che se pure si sottraggono tuttavia affascinano, che se pure sono intrisi di non detto tuttavia si imprimono per la laconicità di ciò che vi è detto, che se pure sono immersi nel silenzio tuttavia risuonano di echi profondi.
Ed è a tutte queste caratteristiche che risponde “L’anulare” di Yoko Ogawa, una delle più importanti scrittrici contemporanee giapponesi. Vincitrice di tutti i principali premi letterari del suo paese, autrice di vari romanzi e racconti, molti dei quali tradotti e pubblicati anche da noi, come – solo per citare i più recenti – le raccolte di racconti “La casa della luce” e “Vendetta” pubblicate da “il Saggiatore” rispettivamente nel 2024 e nel 2021 e il romanzo “L’isola dei senza memoria”, pubblicato nel 2018, sempre dal “il Saggiatore” che, nel complesso, ha, nel suo catalogo, sei titoli della scrittrice giapponese. A questi vanno poi aggiunti due titoli presenti nel catalogo Adelphi: il romanzo “L’anulare” e la raccolta “Una perfetta stanza di ospedale”, costituita da due storie brevi.
L’opera della Ogawa è ascritta al cosiddetto “romanticismo nero”, laddove il romanticismo, nei suoi libri, viene esplorato in una chiave cupa e oscura, essendo, in realtà, la Ogawa protesa ad indagare e ad affrontare gli aspetti più nascosti della natura umana. Come è stato infatti osservato “...i personaggi che popolano le sue storie sembrano vittime di una legge superiore che non si può sconfiggere e alla quale non ha senso opporsi, oppure di una psiche che domina le loro azioni, lasciando spazio solo ad una rassegnata osservazione…Si potrebbe dire, dunque, che al centro dell’opera della scrittrice giapponese – tanto apprezzata da maestri come Kenzaburo Oe – si trova il tema del soggetto e della sua perdita di identità, provocata tanto dall’esperienza del dolore quanto dalla percezione dell’insensatezza dell’esistere.” (Da una recensione di ”Una perfetta stanza di ospedale” – Adelphi – 2009, apparsa sul sito “Critica Letteraria” il 21.5.2014)
E in relazione a ciò “L’anulare” è sicuramente un “esemplare” – per usare un termine che, come vedremo, sarà un termine chiave di questo breve romanzo – significativo e rappresentativo dell’opera della Ogawa. “L’anulare” è del 1994. Da noi fu edito da Adelphi nel 2007 ed è stato riproposto, all’interno di una collana dedicata alla letteratura giapponese dal titolo “La grande letteratura giapponese”, dal “Corriere della Sera” nel 2021.
“L’anulare” è un romanzo ermetico ed enigmatico che può lasciare interdetti e spaesati per la sua rarefatta cripticità. La indubbia bellezza della prosa, la sua pacatezza e leggerezza, il suo trasmettere un senso di sottile suspense, il suo modo di avvolgere le cose e i personaggi, genera, nella percezione del lettore, il formarsi di un invisibile velo che ammalia ma che, al tempo stesso, distanzia le possibilità di appropriazione del testo. E’ infatti quel velo che alimenta quel continuo e instabile alternarsi di detto e non detto, di visibile e invisibile e che crea quell’ inquietante e perturbante atmosfera che impregna tutto il romanzo.
Già dalla descrizione del luogo dell’azione veniamo portati dentro questa atmosfera, venendo messi al cospetto di un edificio solitario e isolato, quasi nascosto, che dà l’impressione di essere in stato di abbandono: “Di primo acchito mi parve un edificio in attesa di demolizione, tanto era vecchio e silenzioso…le ringhiere erano tutte arruginite…non si vedeva alcun segno di vita.”. Così infatti lo descrive l’anonima protagonista, voce narrante, de “L’anulare” la quale, capitata lì per caso, in realtà scoprirà, poco dopo, che quell’edificio non solo non è abbandonato ma vi ha sede un laboratorio la cui esistenza le si rivelerà in modo inatteso come ella, a posteriori, rievocherà ricordando quel momento: “…finché non mi imbattei nel laboratorio.”
Di esso, infatti, dall’ esterno non vi era alcuna evidenza, non essendovi insegne o targhe che lo indicassero. L’anonimato di quel luogo era però attenuato dalla presenza di un cartello affisso all’entrata, su cui era riportato: “Cercasi assistente per la creazione di esemplari. Nessun requisito richiesto. Prego suonare qui.” Ciò attirò in modo particolare l’attenzione della protagonista, giunta in quella anonima città, dove si svolge il romanzo, da poco e nella quale si trovava a girovagare proprio alla ricerca di un lavoro.
Prima di allora ella aveva vissuto e lavorato in un villaggio di campagna dal quale si era appunto trasferita e ciò dopo un incidente sul lavoro occorsole nella fabbrica di bibite in cui era occupata. Un giorno era infatti accaduto che un dito le era rimasto schiacciato lungo il nastro trasportatore delle bibite. Pur non avendo provato dolore e pur non avendole procurato quell’incidente una ferita grave, la conseguenza fu però una mutilazione che le lasciò un senso di perdita e di menomazione irreversibile: “Mi ero solo strappata un pezzetto di carne dalla punta dell’anulare sinistro…O forse era più grave di quanto mi fossi figurata: dopotutto, avevo perso una parte del mio corpo.”
E pur non condizionando quella perdita la sua vita quotidiana e pur sembrandole sopportabile quanto accaduto, in realtà la scomparsa dell’estremità di quel suo anulare le si imprimerà al punto da indurla a lasciare il lavoro e il luogo dove aveva sin lì vissuto. “C’era una cosa che mi disturbava: dove era finita la punta del mio anulare? Un’ immagine mi ossessionava: quel pezzetto di carne a forma di conchiglia…che cade al rallentatore nella gazzosa ghiacciata…spappolata dagli ingranaggi della macchina…A causa di quell’incidente non sono più riuscita a bere gazzosa e alla fine mi sono licenziata.” A fronte quindi di un’apparente innocuità di quell’evento le sue conseguenze “psicologiche” erano state importanti e avevano indotto un agito netto e repentino, una vera e propria “fuga” da quell’evento oltre che da quel luogo.
Quando ci vengono raccontati tutti questi fatti è già trascorso un anno da quando la giovane protagonista ha fatto il suo ingresso in quel laboratorio e, di quel laboratorio, ne è diventata ormai parte integrante. Quel giorno in cui suonò quel campanello indicato nel cartello affisso all’ esterno dell’edificio non solo, infatti, ebbe inizio per lei quella sua nuova vita lavorativa ma ebbe inizio per lei una fase radicalmente nuova della sua vita in generale. E, a determinare quella sua nuova vita, sarà il signor Deshimaru colui che di quel laboratorio e di ciò che al suo interno vi si svolgeva era l’unico e assoluto artefice.
Quel giorno sarà infatti il signor Deshimaru ad accoglierla, a presentarle l’attività del laboratorio e i compiti che l’avrebbero attesa se ella avesse accettato quel lavoro. E se “L’interno era più accogliente di quello che ci si poteva aspettare dall’ esterno” è la natura di ciò che vi si svolgeva a rivestire un inquietante e disorientante aspetto. Nel laboratorio, “…unico nel suo genere” dirà Deshimaru, descrivendolo alla protagonista, egli trasforma, rinchiudendolo o immergendolo all’interno di provette, qualsiasi oggetto in un “esemplare”, custodendolo e conservandolo all’interno dell’edificio. Chiunque quindi possegga qualcosa che rappresenti un ricordo da cui ci si voglia separare, ma senza distruggerlo, laddove il tenerlo con sé è troppo doloroso e il suo possessore non sa come e dove conservarlo, Deshimaru mantiene “vivo” il ricordo incorporato nell’oggetto facendone un “esemplare”.
Opportunamente catalogati e classificati gli oggetti, trasformati in “esemplari”, vengono riposti all’interno di quel “…numero imprecisato di stanze tutte delle stesse dimensioni” che compongono l’edificio le quali vengono quindi, a mò di deposito, progressivamente occupate dagli “esemplari”. L’edificio è infatti ormai disabitato e, a parte Deshimaru, vi sono soltanto due anziane signore che vi abitano, peraltro in modo appartato, ultime ospiti di quel pensionato femminile che quell’edificio era stato.
Ai possessori degli oggetti è consentito, in qualsiasi momento, di “venire a trovare” gli “esemplari” ma ciò non avviene quasi mai, prevalendo, nella maggior parte dei casi, il bisogno di tenere distante da sé il ricordo che l’oggetto tramutato in esemplare rappresenta, determinandosi, di fatto, una scissione, a suo modo liberatoria, dalle emozioni negative suscitate ed evocate dall’oggetto: “Nessuno porta qui oggetti per ricordarli con nostalgia” dirà infatti Deshimaru. Gli “esemplari” che dovrebbero assicurare “il mantenimento in vita” del ricordo finiscono quindi per avere una vita per così dire “tombale”, restando nascosti e separati dal mondo, “rinchiusi”, così come essi sono, nelle stanze di quell’ edificio. E questo, cioè “rinchiudere”, è ciò che effettivamente avviene lì dentro, e non solo in senso fattuale, perché “rinchiudere” è la parola chiave che attraversa “L’anulare” ed è, soprattutto, ciò che aleggia su di esso permeando tutto il testo.
Il signor Deshimaru nel descrivere l’attività del laboratorio alla giovane protagonista, in occasione di quel loro primo colloquio, le aveva presentato, come esempio, il caso di una ragazzina che si era rivolta a lui e gli aveva chiesto di fare diventare un “esemplare” dei funghi da lei raccolti, “…nati sulle macerie della sua casa andata a fuoco” aveva detto. In quell’ incendio erano periti i suoi genitori e il fratello minore, essendo lei rimasta l’unica superstite. E, nel fare quella sua richiesta, la ragazzina così si era espressa: “Con questi funghi vorrei rinchiudere tutto quanto è scomparso nell’incendio.” E Deshimaru, manifestando tutto il suo compiacimento per come la ragazzina si era espressa e richiamando le sue parole, darà alla protagonista l’interpretazione autentica dello scopo di quel laboratorio: “<<Mi ha dimostrato di avere capito benissimo il senso di questo laboratorio usando il termine “rinchiudere”>>.“
Quindi, come in una sorta di scatole cinesi, ai ricordi rinchiusi nell’esemplare fa seguito l’esemplare rinchiuso nelle stanze, rinchiuse a loro volta nell’edificio il quale, come abbiamo visto, si trova nascosto e isolato, quasi fosse estraniato dal mondo. Del laboratorio infatti non vi è alcuna indicazione: non solo non ha insegne ma né si trova sull’elenco telefonico, salvo che, affermerà Deshimaru, chi ne ha bisogno “…arriva qui comunque anche ad occhi chiusi”. Tutto quello che è implicato in ciò che il signor Deshimaru fa è perciò destinato a trovarsi in una condizione di separatezza, scomparendo di fatto alla vita e dalla vita, pur nella dichiarata finalità di tenere in una sorta di vita eterna oggetti e relativi ricordi ad essi connessi.
Sebbene compiti, tempi, modalità e condizioni di lavoro così come illustrati da Deshimaru si presentassero allettanti e favorevoli, tuttavia ciò non evitò che ella registrasse, nel corso di quel primo colloquio, un senso di disagio e di turbamento, rimastole, sin da allora, impresso: “…non so perché, mi ritrovai all’erta, percependo una sensazione di pericolo.” Deshimaru infatti, pur nella affabilità e armoniosità dei modi e delle espressioni, tali da farlo apparire impeccabile: –“Tutto era impeccabile in lui”, ricorda la protagonista – rivelava, per contro, una personalità impersonale e sfuggente che lo rendeva anonimo e, al tempo stesso, dotato di un potente magnetismo concentrato nel suo sguardo: “…era sorprendentemente privo di caratteristiche personali, pensai. Non portava orologio. Né una penna infilata nel taschino. Non un livido, un neo, una cicatrice….notai che dal suo viso, e dal suo corpo, non emanava la stessa forza impressionante che emanava dal suo sguardo.” Una sorta di doppiezza quindi, dove alle buone maniere e alla inappuntabilità si univa, in Deshimaru, un che di inafferrabile e di perturbante tale da suscitare quella “sensazione di pericolo” avvertita dalla protagonista.
Sta di fatto che accettato quel lavoro – consistente in un ruolo di segretaria dedita all’accoglienza dei clienti e alla catalogazione degli “esemplari”, ma non alla loro preparazione, fase mantenuta in modo esclusivo da Deshimaru, alla quale la protagonista non ha accesso, essendole precluso l’assistervi – ella si troverà progressivamente risucchiata da quell’ambiente. In primo luogo finendo come inghiottita dall’atmosfera ovattata quasi sepolcrale del laboratorio, esaltata dal silenzio che lo pervade e vi regna, poi, soprattutto, venendo catturata dalla fascinazione che eserciterà su di lei Deshimaru, senza che ella riesca ad opporvisi né a sottrarvisi.
Finché, in modo deciso e perentorio, Deshimaru inizierà ad agire su di lei un’influenza prevaricante e seduttiva, volta ad impossessarsi non solo del suo corpo ma, soprattutto, della sua volontà, richiamando ciò quel canone, presente nell’opera della Ogawa, fatto di “…vittime di una legge superiore che non si può sconfiggere e alla quale non ha senso opporsi” di cui si è detto all’inizio. Sembrando rispondere Deshimaru proprio ad una misteriosa ed oscura legge di cui si fa esecutore, rispetto a cui la giovane protagonista appare impotente.
Da un anno quindi ella lavora a stretto contatto con lui e quell’influenza si materializzerà allorché, per celebrare quel primo anno di lavoro, Deshimaru le regalerà un paio di scarpe nere di pelle che nell’ “imprigionare” i suoi piedi saranno per lei l’inizio di un “catturamento” che si configurerà come un destino. Ma non sarà, a cominciare da quello delle scarpe, un “catturamento” doloroso e violento, anzi, così come accadrà con le scarpe, si rivelerà attraente ed ipnotico, remissivo e complice. “I miei piedi nudi erano nelle sue mani. Mi stringeva talmente forte i polpacci che non riuscivo più a muoverli…I movimenti delle sue mani non conoscevano tempi morti, come se seguissero un rituale prestabilito, mentre io non potevo muovere liberamente neppure la punta del mignolo. Con mio grande stupore le scarpe calzavano alla perfezione. Avvolgevano morbidamente tutto il piede senza stringere in nessun punto. <<Mi vanno a pennello dissi>>…Finalmente mi lasciò andare i piedi, così che fui libera di ruotare le caviglie e muovere le punte per verificare l’effetto delle scarpe nuove…Le scarpe si rivelarono flessibili e leggere. Non mi ero mai sentita meglio con delle scarpe ai piedi. <<Vorrei che le calzassi ogni giorno, da adesso in poi>> disse lui…Assentii, continuando a camminare in silenzio.<<Sempre, anche durante il tragitto in treno, mentre lavori o sei in pausa, che io ti guardi o meno. Intendo proprio sempre>>.“
L’ambiguo feticismo di Deshimaru si farà via via più penetrante e pervasivo e la protagonista lo asseconderà aderendovi, attratta e calamitata da Deshimaru. Esso si declinerà in quegli incontri serali nella vasca dei vecchi bagni comuni, presenti nell’edificio: “…i nostri appuntamenti nella sala da bagno erano diventati una consuetudine. In realtà non si trattava di veri e propri appuntamenti, tanto quegli incontri erano costellati di bizzarrie; restava comunque il fatto che il signor Deshimaru mi desiderava e io non lo respingevo.”
Poi ancora, in quell’amore consumato in modo glaciale e geometrico con Deshimaru che avvolge e chiude tra le sue braccia, come in una invisibile ragnatela, la sua partner: “Mi prese la mano, mi calò sul fondo della vasca e cominciò a spogliarmi. Sbottonò la camicetta con ordine partendo dall’alto e aprì la cerniera lampo della gonna svasata…Poi mi tolse anche la biancheria intima. Sembrava seguire uno schema prefissato. Aveva il controllo assoluto della situazione. Io stavo semplicemente in piedi immobile….alla fine mi ritrovai nuda. Avevo addosso solo le scarpe nere di pelle…Facemmo l’amore sul fondo della vasca…Mi teneva abbracciata forte. Anche se abbracciare forse non è la parola giusta…Mi teneva stretta fra le sue grandi braccia…come se avesse voluto farmi aderire del tutto a sé”.
Al punto, infine, da avvertire, essa stessa, la sensazione di essere diventata un’appendice di Deshimaru, uno dei suoi esemplari: “Restammo senza muoverci talmente a lungo che ebbi la sensazione di essere stata trasformata in un esemplare incorporato a lui”.
Siamo dentro un mondo che richiama quel “romanticismo nero” di cui si diceva all’inizio, contrassegnato, per sua natura, da dimensioni costrittive, da pulsioni alla sottomissione, dal fascino del male. Ma qui questi elementi non si esauriscono in se stessi, non sono il punto di arrivo della narrazione ma sono parte di una dinamica più ampia dove l’ unilateralità della relazione tra i due protagonisti si evolve in altre istanze e necessità, costituendosi, tra di essi, un doppio legame.
La relazione instaurata da Deshimaru costituirà in realtà, per la protagonista, l’inizio di una discesa nei suoi desideri, nel suo rimosso, nel suo non detto. Una discesa nel fondo della sua psiche con i suoi impulsi tenuti segreti. Quella sua psiche che è ormai dominata da Deshimaru. Ed ella ne riconosce la sua forza avvolgente alla quale non solo non può ma nemmeno vuole rinunciare. Al punto da prefigurare il suo annientamento, la sua reclusione all’interno del laboratorio, il suo esservi “rinchiusa”: <<…Finora non ho mai avuto un uomo che potessi definire un innamorato, e quindi non mi è facile capire. So soltanto una cosa con certezza: i sentimenti e le circostanze non mi permettono di separarmi da lui. E non è solo questo, non è semplicemente che vorrei stare vicino a lui, no, lui mi tiene legata a sé in un modo molto più radicale, assoluto>>…<<Non voglio essere libera. Vorrei che mi chiudesse in laboratorio con queste scarpe ai piedi>>” ella confesserà prima di tutto a se stessa.
Nel loro primo incontro “amoroso” Deshimaru le aveva chiesto: “<<C’è qualcosa di cui desidereresti un esemplare?>>”. E, alla sua difficoltà ad indicare qualcosa: “<<Forse c’è ma io non ne sono consapevole, almeno non abbastanza da sentirne il bisogno>>.” egli le replicherà: “<<Qual è il ricordo più penoso che ti viene in mente?>>…<<Pensaci bene. Trovami il tuo ricordo più doloroso, sgradevole, spaventoso>>.” E questo “compito” datole da Deshimaru aveva “lavorato” dentro di lei. Una ricerca, all’interno di se stessa, che aveva finito per “sigillare” il legame con Deshimaru, facendolo diventare quella “necessità” che era diventato.
Quell’estremità del suo anulare che aveva visto staccarsi e disperdersi aveva creato nella sua coscienza una ferita illusoriamente risolta con quella sua “fuga” da quell’evento ma, in realtà, rimasta irrisolta in quanto privazione di una parte di sé, con il dolore che quella privazione le aveva lasciato. E quella discesa nella sua psiche aveva fatto emergere quell’esperienza e il suo dolore provocato da quella perdita e da quel lutto non affrontati. Deshimaru finirà così per apparirle una figura a cui affidarsi, divenutale “necessaria” per affrontare ciò che quel ricordo negativo continuava a rappresentare per lei. ”<<Non potrei affidarmi a te e diventare anch’io uno dei tuoi esemplari?>>“, gli aveva chiesto un giorno, e Deshimaru invece di risponderle le prese l’anulare suscitandole “…la sensazione che il dito si stesse a poco a poco separando dal resto del corpo.”
Non sapremo mai qual’è il tipo di “sacrificio” a cui ella andrà incontro e il modo in cui esso si realizzerà nel misterioso sotterraneo del laboratorio in cui Deshimaru preparava i suoi esemplari e al quale lei non era ammessa. Ma quando ella, con in mano l’etichetta per “…il contenitore di vetro”, con su riportato “…il numero di registrazione” e l’indicazione del “…tipo di esemplare: anulare”, si avvierà verso quella “…porta del laboratorio al piano interrato” un pensiero che sarà una preghiera l’accompagnerà: “Pregai che il dito apparisse ancora più bello e vivido riflesso attraverso il vetro della provetta”.
Ultimamente ho letto diversi scrittori giapponesi e li ho apprezzati molto. Il romanzo che hai così bene recensito mi ha fatto venire in mente il feticismo di Tanizaki. Il romanticismo nero di cui parli mi ricorda molto questo scrittore. Saluti e salute
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Ti ringrazio della visita e dell’attenzione prestata al commento. Pur non avendo letto Tanizaki immagino che certe caratteristiche nelle tematiche e un certo stile siano comuni alla cultura e alla letteratura giapponese. Anche in Kawabata, di cui ho letto “Il paese delle nevi”, ve ne sono tracce.
La rarefazione dello stile, una forte presenza dell’eros, un gusto per il feticismo mi sembra siano molto e tipicmente giapponesi. La Ogawa mi ha fatto pensare molto anche a Kafka, per questo elemento claustrofobico e impersonale da tipico “ingabbiamento” kafkiano.
Un saluto e salute anche a te.
Raffaele
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Mi piace la, letteratura giapponese, almeno quei pochi libri che ho letto mi sono piaciuti. Li ho tutti recensiti. Uno dei miei preferiti è stato la Croce buddista ma anche Il padiglione d’oro. è notevole. Buona giornata, Raffaele
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