“I superflui” ruota fondamentalmente intorno a un tema, il tema della mancanza. Che non è solo una mancanza di tipo materiale, che pure è fortemente presente e condiziona pesantemente le vite dei protagonisti, ma è, soprattutto, una mancanza di possibilità. Come se le risorse, sia quelle interne: del loro bagaglio personale ed esistenziale, sia quelle esterne provenienti dalla società, dal mondo, dagli altri, non fossero loro date, lasciandoli quindi, come detto, privi di possibilità. In altre parole come se i protagonisti del romanzo fossero costituzionalmente in una loro condizione di debolezza sia soggettiva che rispetto alle opportunità, che ne fa degli esclusi, degli emarginati, per l’ appunto dei “superflui”. Persone cioè la cui esistenza è segnata dall’ irrilevanza, dalla marginalità e i cui tentativi di uscire da quella loro condizione risultano inutili, perché quella loro condizione gli ritorna addosso, li accompagna sempre, ne segna la vita e il destino.
Arfelli narra ne “I superflui” esistenze di personaggi sperduti, destinati ad una parabola che li renderà perduti a se stessi oltre che perduti nel mondo. Esposti, senza difese e senza protezioni, alle vicissitudini della vita e del caso, in balia di se stessi e degli altri. Alla deriva in un loro eterno presente dove c’è solo un arrangiarsi continuo, un adattarsi in attesa che accada qualcosa. Ad incarnare tutto ciò saranno Luca e Lidia i due assoluti protagonisti de “I superflui” che appaiono da subito sulla scena in quel loro incontro casuale – ma così carico di predestinazione – fuori dalla stazione Termini, nella quale Luca è appena sceso da quel suo treno della “speranza” e Lidia vi bazzica facendovi la prostituta. Luca e Lidia sono due giovani e questo rende, a suo modo, “I superflui” un romanzo generazionale ma, da questo punto di vista, non certo un romanzo di formazione bensì, al contrario, il romanzo di un’ impossibile formazione, di una formazione negata, in quanto non sarà dato loro modo di esprimersi, di mettersi alla prova, di esistere.
Perché qui, ne “I superflui”, tutto è stretto, ogni porta è chiusa, vi è un continuo ergersi di muri che non cadono ma restano risolutamente a ridosso dei protagonisti sbarrando loro la strada. E, in questo senso, “I superflui” va oltre lo specifico generazionale e il contesto storico-sociale in cui è ambientato, illuminando una condizione umana ed esistenziale assai più ampia: quella degli “esclusi” tout-court, dei perdenti, degli sconfitti. Di coloro che vengono triturati nei meccanismi sociali e umani della storia e della vita.
Arfelli perciò enfatizza, dilata attraverso il grandangolo della giovane età, per sua natura piena di speranze, e attraverso il momento storico dell’ Italia povera e stracciona appena uscita dalla guerra ma carica di attese per il futuro, nel quale è ambientato il romanzo, lo scarto fra quelle condizioni così gravide di aspettative e la realtà delle cose, diversamente opposta, che egli ci narra E in ciò egli si rivela totalmente antiretorico e crudamente e umanamente realistico: un modernissimo e grande interprete del disincanto e della disillusione in un momento in cui, peraltro, da questi vissuti si rifuggiva. Giacché, come è stato scritto, “Ne “I superflui” non c’è nessuna luce “poetica”, né sorti magnifiche: piuttosto il disagio, lo smarrimento, la desolazione di …[chi] scopre…il cinismo, l’indifferenza, l’assenza di un vero progresso…”(Renato Minore – Dalla quarta di copertina dell’ edizione Marsilio de “I superflui” – 1994)
Siamo quindi a Roma nell’ immediato dopoguerra e Luca, venuto dalla provincia, vi sbarca per effetto di una “spinta” che l’ha portato lì: tentare l’avventura nella grande città. Ma egli in realtà non ha un progetto su di sé, una indicazione precisa sul che fare ed egli stesso si sente come portato lì dagli eventi più che da un disegno che lui ha determinato: “Era la città che lui stesso si era scelta. Ma proprio lui se l’era scelta? Pensandoci bene, no. Anche qui era stata una serie di minimi avvenimenti, oggi uno domani un altro, poi un altro ancora che lentamente l’avevano staccato e portato via dal paese”. Un vissuto, quello di Luca, di chi è in balia di un destino, un destino che in lui abita e con cui sarà destinato a fare i conti ma, in relazione al quale, scoprirà che a lui e a quelli come lui il proprio destino non appartiene. Ed, in questo senso, l’ incontro con Lidia ne sarà, da subito, una fatale dimostrazione. Perché quell’ incontro non cercato e non voluto segnerà e fisserà invece il futuro di Luca e anche quello di Lidia, rivelando tutta l’ indeterminatezza dello svolgersi delle cose nella vita di entrambi.
Pur non volendo accompagnarsi con Lidia, insofferente all’ idea di risultare il classico “paesano”, sprovveduto e spaesato che, appena arrivato, è facile preda di una prostituta Luca, tuttavia, non sapendo, quella prima notte, dove andare ed essendo, altresì, a corto di soldi, accetta la proposta di Lidia di andare con lei e fermarsi quella notte nella sua stanza, in quella pensione in cui Lidia alloggia ed esercita. Un luogo malfamato e squallido, gestito ed abitato dalla “vecchia”, una vedova abbrutita dalla miseria e dalla meschinità, ossessionata, come ella è, dal danaro e dalla povertà. E infatti il giorno dopo conosciuto Luca e capita la situazione – dalla quale intuisce che può avere un tornaconto – ella gli affitterà la sua stanza, arrangiandosi a sua volta alla bell’e meglio con un materasso in cucina.
Lontano quindi da qualsiasi impatto positivo, Luca si troverà da subito immesso in una situazione dominata dallo squallore e dall’ indigenza e, soprattutto, indotto a scelte in cui è stato trascinato dalla necessità, dagli eventi, dagli altri ma senza essere mai realmente lui a padroneggiarle. In altre parole appare, sin dall’inizio, in quella condizione di “ostaggio” nei confronti delle cose e della vita che lo intrappolerà, come se un’ inettitudine alla vita lo dominasse suo malgrado, a prescindere dalla sua volontà. Perché Luca non è oggetto inconsapevole di se stesso, egli capisce che quella non è la vita che aveva in mente e vorrebbe fuoriuscire al più presto da quello squallore e da quella miseria sia materiale che esistenziale nelle quali si è ritrovato. Ma Luca che non è un essere arido, che non vive rinchiuso nella mediocrità si troverà, ben presto, di fronte un mondo dominato proprio dalla mediocrità, dall’indifferenza, dall’incomprensione.
E così quella sordida sistemazione, nata come provvisoria, si protrarrà fino ad inglobarlo, e ciò di pari passo alla precarietà e aleatorietà delle condizioni della sua vita. Infatti l’altro fronte frustrante ed avvilente per Luca, che doveva essere peraltro determinante ai fini della sua “emancipazione”, si rivelerà quello della ricerca di un posto di lavoro. Giunto a Roma con in tasca due lettere di raccomandazione di altrettanti compaesani, il parroco e il segretario della sezione socialista, Luca constaterà l’abissale distanza fra le aspettative che in quelle due lettere nutriva e la realtà impietosa e impotente che le persone a cui quelle due lettere erano indirizzate gli metteranno di fronte. I vari pellegrinaggi di Luca dal monsignore e dal vecchio funzionario socialista, i destinatari appunto di quelle lettere, i quali gli avrebbero dovuto aprire le porte di una qualche opportunità si riveleranno avari ed inutili, facendo subentrare la delusione, la sfiducia, lo scoramento. Luca scopre così che in quella nuova realtà non vi era nulla di scontato, bensì essa gli si rivelava con tutte le sue complicazioni, mostrandosi, di fatto, inafferrabile e irraggiungibile.
Arfelli muove i personaggi in contesti più interni che esterni. Di Roma vie e piazze non sono mai nominate, la città resta sullo sfondo, sfuggente ed estranea, diventando per lo più un fondale e venendo poco “vissuta”. Il romanzo si svolge perciò, prevalentemente, nei miseri e ristretti ambienti dell’ appartamento abitato dai protagonisti. Arfelli si concentra soprattutto sulle relazioni fra i personaggi e oltre a Luca e Lidia giocano un loro ruolo: Luigi, l’ anarchico militante, che morirà in un attentato da lui stesso organizzato e Alberto lo studente di legge che frequentano entrambi la casa della “vecchia” e con cui Luca e Lidia saranno in rapporto.
Personaggi agli antipodi, con Luigi che vive come avvolto in un perenne mistero e incarna la purezza e l’ assolutezza di una vita condotta contro il sistema e fuori dal sistema, mentre Alberto – che, all’ opposto, è ambizioso e arrivista ed è perfettamente integrato – frequenta assiduamente un “salotto” romano allo scopo di coltivarvi agganci utili. “Salotto” nel quale introdurrà anche Luca il quale sconterà l’ illusione di poter “stare” in quel mondo. Egli infatti constaterà tutta la distanza che lo separa da esso e l’ ennesima inutilità degli approcci che lì tenterà nella sua ricerca di sbocchi. Finendo Luigi ed Alberto per essere, per Luca, come uno specchio di due modi di stare al mondo rispetto ai quali egli non ha, né caratterialmente né antropologicamente, alcuna possibile appartenenza, non riuscendo ad essere né capace di opporsi al sistema né di entrarvi e di stare al suo gioco.
Con una prosa pacata e lineare che depura le tensioni e le angosce riuscendo, nel contempo, a mantenere sempre alta la tensione narrativa, Arfelli ci descrive, anche minuziosamente, i particolari delle vite dei personaggi. In un convivere del loro quotidiano, fin’ anche nei suoi risvolti più banali, con il “racconto” dei loro sentimenti che lo svolgersi di quelle loro vite produrrà in loro. E l’utilizzo da parte di Arfelli di una sorta di linguaggio parlato dà l’impressione che a raccontare non sia più il narratore ma la coscienza stessa dei suoi personaggi. Ma “I superflui” non è certo un romanzo fatto di buoni sentimenti, bensì c’è in questo raccontare e raccontarsi lo sfogo per quanto dentro di sé si è accumulato senza trovare risposte, la rabbia per quella sensazione di essere sempre allo stesso punto, la messa a nudo impietosa del proprio destino come a un certo punto proprio Luca con queste sue parole dirà: “”Il destino siamo noi” disse Luca “E’ per questo che non possiamo scamparlo. Quando uno è fatto in un modo farà sempre in quel modo. E chi è furbo e svelto agirà sempre da furbo e svelto. Questo è il destino: come siamo fatti dentro; e così non possiamo sfuggirgli.”
Eppure nei protagonisti de “I superflui” c’è l’ anelito a vivere. C’è la voglia di una vita nuova che consenta di ritrovare fiducia e dignità e, con esse, l’ amore e il rispetto per se stessi. E se pur destinati a confrontarsi, a convivere e a combattere con condizioni dominate da uno squallore che sarà fisico, materiale, umano ed esistenziale essi, in realtà, non saranno interiormente partecipi di quello squallore. Anzi, a fronte di quelle loro esistenze marginali, da perdenti, nelle quali sono trascinati, i protagonisti de “I superflui” mantengono dentro se stessi una loro innocenza e una loro voglia di pulizia, protesi verso una ricerca di liberazione e di redenzione di fronte a quella “esclusione” umiliante che li condanna ad essere “vinti” in partenza.
Lontano da appartenenza neorealistiche “I superflui” si rivela quindi, a suo modo, un romanzo esistenzialista, centrato, come esso è, sulla lotta del singolo per affermare se stesso nel mondo ma , in questa sua lotta, egli appare come uno straniero nella società dove vive finendo per errare nei meandri di una vita privata isolata e di una vita sociale estranea. Più che la denuncia, l’ impegno, la radicalità del messaggio sociale sono perciò il senso di angoscia esistenziale e la sensazione di irresolubile incomunicabilità tra sé e il mondo a trasparire e a prevalere ne “I superflui”.
E in virtù di questa impronta esistenzialista c’è chi ha definito Arfelli l’ Albert Camus italiano. Tuttavia se di Camus c’è, nei “superflui” di Arfelli, quel loro ritrovarsi fuori dal sistema fino a risultare degli estranei nel mondo, per contro non c’è, in essi, traccia di rivolta, né personale, né metafisica, come invece accade in Camus. L’ assurdo del mondo e della condizione umana lo troviamo anche in Arfelli ma, dai protagonisti del romanzo, viene subìto con rassegnazione e/o ineluttabilità, finendo per prevalere l’ assuefazione alla reazione. Quando le speranze di un lavoro dignitoso si infrangono Luca perde ogni forza, ogni spirito di iniziativa e si trova a girovagare sfaccendato per le strade della capitale. E’ quella di Luca come una sorta di anemia esistenziale che lo pervade, nella quale finirà per galleggiare, sempre più disilluso rispetto all’ idea che sia possibile cambiare il mondo, cambiare le cose. A conferma peraltro di quanto da lui stesso affermato su ciò che il destino riserva e cioè che il destino non si può cambiare: chi è nato vinto tale rimarrà. “I superflui” quindi, come ebbe a dire lo stesso Arfelli, lo si può definire più “…un romanzo esistenziale, per i problemi dell’esistenza che vi figurano, che un romanzo esistenzialista”.
Se Luca finirà irretito in quella esistenza “liquida” a tentare di non abdicare ad essa sarà Lidia che è spinta da una forza interiore che la muove, quella del riscatto. Lidia sta cercando di fare soldi il più in fretta possibile per pagarsi il viaggio in Argentina dove intende emigrare, avendo lì appoggi familiari su cui può contare, facendola così finita per sempre con il mestiere. Ella cura con dedizione questo suo progetto nel quale vede la possibilità, l’ unica possibilità, per rifarsi una vita. Ed è quasi commovente il modo in cui tiene sotto controllo le cifre incolonnate del suo libretto di risparmio che però non crescono mai abbastanza, il modo ingenuo, da scolaretta, con cui si affanna a studiare lo spagnolo che dà per certo che le servirà, l’attenzione premurosa con cui conserva capi di vestiario da tenere da conto per quella nuova vita che l’ attende. Ma gli sforzi di Lidia sono vani perché senza rendersene conto ella sta combattendo con una realtà più grande e più forte di lei, e sarà sempre lei ad uscirne sconfitta, come quella volta che trova un amico-amante che la mantiene ma quando lui si stufa lei si ritrova di nuovo “per strada”.
Tuttavia, in un mondo rinchiuso in se stesso, che non sa essere generoso, solidale, disinteressato, capace di accoglienza Lidia finisce per stagliarsi per quanto di spontaneamente umano vi è in lei. Lidia aiuterà, e sarà l’ unica a farlo, Luca in quella sua ricerca del lavoro. E così come lo aveva preso sottobraccio fin dalla notte del suo arrivo, offrendogli la sua stanza, gli troverà quel lavoro che, se pur precario e a termine, sarà l’ unico che Luca riuscirà ad avere. E quando anch’esso sarà definitivamente perduto Luca si troverà a dipendere da Lidia, abbandonatosi ormai inerte a se stesso: “Ora non gliene importava gran che, non pensava più al domani: qualche cosa sarebbe pur avvenuto… Così viveva in un mondo tutto leggero e possibile. Non pensava neppure che viveva con il denaro di Lidia…”
In quella loro convivenza, nella casa della “vecchia”, nata dal caso e dalla necessità, Luca e Lidia finiscono per condividere il quotidiano di quella vita ma anche le loro reciproche solitudini, nei tanti momenti – fatti anche di non detto – vissuti insieme. Vi è quindi tra loro una intimità di fatto che finisce per legarli. Ed è Lidia, ancora una volta, ad avere slanci ed aperture. E’ lei che cerca un “incontro” con Luca che, andando oltre le contingenze, introduca in quelle loro vite, prosciugate da qualsiasi contenuto affettivo, un po’ di amore. Quando la “vecchia” a un certo punto muore Luca e Lidia si troveranno, di punto in bianco, a vivere in quella casa da soli e ciò li unirà e legherà ancora di più e in modo nuovo, facendo vivere, principalmente a Lidia, una sua segreta felicità: “Dapprima fu una noia per Lidia. Essa dovette cominciare a fare da mangiare, a fare la spesa, a preparare per la sera anche quando avrebbe mangiato fuori, per Luca. Poi lo fece volentieri. Non aveva mai provato il piacere di fare da mangiare per un uomo. Del resto, anche Luca cercava di fare il possibile per aiutarla. Andava a fare la spesa, sbucciava le patate, sorvegliava la pentola;…quando ambedue si vedevano affaccendati nella cucina erano contenti. Era una nuova vita. La morte della vecchia aveva servito a farli vivere in una nuova maniera. Ma era la sera che li faceva sentire soli, in tre stanze che erano solamente per loro due. La sera l’uno guardava l’altra e non riuscivano a prender confidenza. Allora Luca sentiva di più che era Lidia a mantenerlo e non osava guardarla in faccia. Ma Lidia era contenta. Quando si alzava la mattina pensava con piacere che avrebbe preparato il caffelatte per ambedue…E la sera Lidia, tornando a casa stanca e disgustata, si confortava per strada pensando che Luca la aspettava. Ma i soldi del libretto calavano…Tuttavia era contenta quando pensava che un po’ di quei soldi li spendeva per Luca e avrebbe avuto dispiacere se Luca un giorno le avesse detto di aver trovato un altro lavoro.” Ma in quelle vite dove persino sperare diventa un lusso, l’amore finirà per essere un sentimento troppo complicato e difficile. E Lidia che, a suo modo, a poco a poco, si innamora di Luca, si dovrà arrendere a quell’evidenza
Luca sin da quel giorno in cui aveva conosciuto Lidia in stazione aveva avuto, nei suoi confronti, una conflittuale ambivalenza di vissuti. Se da un punto di vista fisico ne era attratto e da un punto di vista umano le sarà vicino nelle vicissitudini che ella avrà, tuttavia non era mai riuscito ad accettarla per quello che era e questa “indecisione”, così come accadeva con le altre “indecisioni” della sua vita, lo aveva continuato ad accompagnare. Eppure il loro sarà un rapporto profondissimo e commovente perché l’ unica appartenenza, nelle loro vite, su cui potranno contare e in cui, soprattutto, si riconosceranno reciprocamente sarà proprio quel loro modo di “stare insieme”, privo di vincoli, privo di passione amorosa, privo di progetti ma libero in realtà proprio da quella distruttività a cui la vita li aveva costretti ed abituati e dalla quale, alla fine, Lidia sarà colpita in modo quasi sacrificale.
Accomunati da quella condizione di esclusione, che li separava dal mondo allontanandoli dalla possibilità di trovarvi una loro appartenenza, per Luca e Lidia il non appartenere era stato anche un non appartenere a se stessi, subendo il confronto con la realtà della quale gli era sempre sfuggita la reale portata, impreparati ed impotenti di fronte ad essa. Per questo essi diventano e restano, in conclusione, figure indimenticabili per quel loro essere, in modo così tragico, degli inservibili alla realtà, vittime di essa ma anche di se stessi. Interpreti di un destino che coincide con quello degli ultimi e dei dimenticati.
La conclusione che i personaggi diventano e restano degli inservibili alla realtà penso che rifletta benissimo l’epoca in cui il libro é stato scritto ma che oggi si sta ripresentando, anche se sotto forme diverse e forse più subdole.
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Si, penso anch’io che oggi l’ esclusione avvenga in modo ancora più massiccio e colpisca non solo i meno avvertiti e i meno attrezzati come allora ma anche chi avrebbe le condizioni per non esserlo. E ciò nell’ indifferenza e nell’ incomprensione generale.
Grazie della visita e un carissimo saluto.
Raffaele
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