“… questa era la città…era un essere immenso che lo premeva da tutti i lati, lo spingeva, gli gridava di muoversi, con la voce irosa di un facchino, con il clacson di un’automobile, con lo scampanellio di un tram. In cento modi gridava, in cento modi lo incalzava. Era la città che lui stesso si era scelta. Ma proprio lui se l’era scelta? Pensandoci bene, no. Anche qui era stata una serie di minimi avvenimenti, oggi uno domani un altro, poi un altro ancora che lentamente l’avevano staccato e portato via dal paese. Si accorse per la prima volta che sono le cose piccole quelle che contano, non le grandi. Le grandi sono il risultato di migliaia e migliaia di minuzie che ora per ora, giorno per giorno, lavorano tenaci, accanite e preparano il colpo finale.”
Questo brano descrive l’impatto che Luca, il protagonista de “I superflui” – sceso dal treno che l’ha portato a Roma, dove è giunto in cerca di fortuna – ha nel momento in cui si trova, di punto in bianco, dentro quella realtà, la realtà della città, che gli si manifesta, da subito, in modo caotico e frastornante, indifferente ed estraneo. Una realtà che lo assale e lo stordisce, circondandolo con lo stridio e il fragore delle sue “voci”. E in quel preciso momento, appena giunto in quella che era la sua meta, a Luca sovviene quanto, in fondo, il trovarsi lì – che sarebbe dovuto essere il compimento di quel suo desiderio e di quel suo bisogno: tentare l’avventura nella grande città, spintovi dall’illusione della speranza, così come dalla disperazione della necessità – non fosse una scelta di cui si sentisse effettivamente padrone e protagonista.
Bensì scopre, interrogandosi, di sentirsi come se una serie di forze, di spinte, di pulsioni, estranee a lui, avessero operato su di lui, portandolo, con una loro implacabile meccanica a prendere quella decisione. Al punto da non sentirsi neanche più lui l’autore di quella scelta ma di essere stato come in balia di un flusso, di una prospettiva, di un destino che lo ha guidato lì, avendo egli accettato di farsi guidare ma, in realtà, avendolo potuto determinare assai poco. Un destino, in sostanza, che Luca si porta addosso, che in lui abita e con cui sarà destinato a fare i conti, ma in relazione al quale scoprirà, inesorabilmente, che a lui e a quelli come lui il proprio destino non appartiene.
Ed è per questo, per questo loro essere abbandonati a se stessi, mai realmente partecipi della vita, della loro vita che costoro finiscono per essere quei “superflui” che Dante Arfelli metterà “clamorosamente” al centro di questo straordinario romanzo e che ne ispirerà il titolo. Quel titolo che Clelia Martignoni ebbe così a definire: “Il sentimento sociale ma prima ancora individuale-esistenziale di “nullatenenza”, “indigenza”, “povertà”, “esclusione” in Arfelli risulta tanto dominante da scattare irresistibilmente a titolo. E che titolo!” (Dalla quarta di copertina dell’edizione Marsilio de “I superflui”)
“I superflui”, scritto da Arfelli a ventotto anni, in soli dieci giorni, è considerato un assoluto capolavoro della nostra letteratura, purtroppo misconosciuto e dimenticato così come lo è il suo autore. Eppure, nel 1949, quando il romanzo uscì, produsse un notevole scalpore ed ebbe un grandissimo successo. Nel corso dei primi anni ’50 fu un vero best-seller. Ne furono vendute oltre 100.000 copie e, cosa ancor più eclatante per allora, ebbe un imprevisto successo anche negli Stati Uniti dove fu tradotto e ne furono vendute oltre 800.000 copie. Il libro vinse altresì, in quello stesso anno, il Premio Venezia (l’attuale Premio Campiello). Ma un po’ alla volta, dopo quel successo, sul libro e sul suo autore calerà progressivamente l’oblio.
A ciò contribuirà il progressivo “ritiro” di Arfelli dall’attività letteraria, nutrendo egli verso la vita letteraria e il mondo letterario un’istintiva ritrosia, estraneo come egli era alle luci della ribalta e alle logiche editoriali. Tanto che già “…nel 1952, al culmine della sua personale gloria [così scriveva]: “La vita letteraria mi ha molto scoraggiato. Io mi sento tagliato fuori, forse perché sto in un paese e cerco di seccare gli altri il meno che posso? O sono antipatico, o do fastidio, non capisco…il pubblico non ha più voglia di leggere, la vita moderna distrae in tanti modi che la lettura è l’ultimo e il più faticoso… Scrivere è quasi una impresa disperata… io ne sono sfiduciato. A volte penso che se avessi dei soldi me ne infischierei della letteratura. E di tutte le beghe e le noie di tanta gente sciocca che ci vive e comanda”. (Da un articolo pubblicato sulla rivista on-line “Pangea” a firma di Davide Brollo il 5 Marzo 2021)
Arfelli infatti nasce, nel 1921, a Bertinoro e quando egli è ancora adolescente la sua famiglia si trasferisce a Cesenatico, città dove Arfelli trascorrerà la maggior parte della sua vita e alla quale sarà profondamente legato, dedicandosi all’insegnamento, tanto che vi fonderà la locale scuola media, di cui sarà docente e preside. Egli sceglierà quindi di restare a vivere in provincia, lontano dai luoghi e dagli ambienti “che contano”. Pur avendo conosciuto e frequentato figure di spicco della cultura italiana di allora tra le quali, in modo particolare, il poeta Marino Moretti e Federico Fellini che era stato suo compagno di Liceo a Rimini.
A “I superflui” seguì nel ’54 un secondo romanzo “La quinta generazione” che non ebbe però lo stesso successo del primo. E a partire da allora, complice alcuni anni dopo l’insorgere di una malattia, il Parkinson, che lo debiliterà, costringendolo a vivere permanentemente in una casa di riposo Arfelli smetterà di scrivere. Uscirà nel 1975 una raccolta di suoi racconti scritti tra il ’50 e il ’54, dal titolo “Quando c’era la pineta” che approdò alla rosa dei finalisti del Premio Campiello del 1976 e poi nel ’93 uscirà l’ultimo suo libro “Ahimè, povero me”, scritto in realtà nel 1988, un diario in cui racconta del suo male e del suo silenzio. Due anni dopo quel suo ultimo libro, nel ’95, a 74 anni, Arfelli morirà, in quella stessa casa di riposo dove aveva trascorso l’ultima parte della sua vita.
E come la vita del suo autore anche la vita de “I superflui”, nel corso del tempo, è stata travagliata. Pubblicato nella prima edizione del ’49 da Rizzoli, “I superflui” fu riedito nel ’54 da Vallecchi. Ma intercorsero ben 40 anni prima di essere nuovamente pubblicato, nel ’94, da Marsilio. E ne sono trascorsi altri 27 da quella edizione quando, nel 2021, è stato riedito dalla giovane casa editrice “readerforblind”, con una prefazione di Gabriele Sabatini.
E, a tutt’oggi, il valore di questo libro resta assolutamente intatto. Perché nonostante il suo essere calato in quella particolare realtà dell’Italia uscita dalla guerra con tutto ciò che questo comportava in termini di precarietà, miseria, desolazione e disperazione, costituendo in tal senso anche la testimonianza di un’ epoca, tuttavia “I superflui” riesce ad emanciparsi dal contesto e dalle contingenze realistiche, per raccontarci, da un punto di vista soggettivo i percorsi dei suoi protagonisti e delle loro vite. Destinati, come essi saranno, a confrontarsi, a convivere e a combattere con una condizione e, in condizioni, dominate da uno squallore che sarà fisico, materiale, umano ed esistenziale pur non essendo essi, interiormente, partecipi di quello squallore che pure li circondava.
Anzi, a fronte di quelle loro esistenze marginali, da perdenti, nelle quali sono trascinati, i protagonisti de “I superflui” mantengono dentro se stessi una loro innocenza e una loro voglia di pulizia, protesi verso una ricerca di liberazione e di redenzione di fronte a quella “esclusione” umiliante che li condanna ad essere “vinti” in partenza. C’è l’anelito a vivere non a morire nei personaggi protagonisti de “I superflui”. C’è la voglia di una vita nuova che gli consenta di fargli ritrovare fiducia e dignità e, con esse, l’amore e il rispetto per se stessi. Ma la sconfitta e il fallimento si accaniranno su di essi intrappolandoli dentro quel loro destino di inservibili alla realtà. E quelle loro vite dominate da quel qualcosa che poteva essere e non è mai stato lasciano, a fronte della loro cruda e crudele realtà, un senso di sgomento e di commozione, di spaesamento e di rabbia che fanno di questo libro impietoso un libro pieno di pietà.
Nella seconda parte un più articolato commento.
Encomiabile il lavoro delle piccole case editrici che riportano alla luce piccoli gioielli sepolti dall’oblio. La tua recensione, come sempre bellissima, è un irresistibile invito alla scoperta. Attendo il seguito.
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Grazie Alessandra per i tuoi apprezzamenti sempre gentilissimi. Effettivamente va riconosciuto a questa giovane casa editrice il merito e il coraggio di avere riproposto uno scrittore ormai dimenticato come Arfelli, di cui, tra l’altro, ha pubblicato anche il suo secondo romanzo. Per fortuna, comunque, ci sono, nella nostra letteratura, ancora cose belle e nascoste che ritornano alla luce. Spero di contribuire con questo articolo e col prossimo ad alimentare curiosità e interesse verso questo scrittore e verso questo libro che lo meritano sicuramente.
Grazie ancora e un carissimo saluto.
Raffaele
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