“La vendetta” – Agota Kristof

“La vendetta” raccoglie 25 racconti brevi, anzi brevissimi, di Agota Kristof pubblicati nel 2005 prima in Francia poi da noi, presso Einaudi, che li ha riediti nel 2009 e nel 2017. Sebbene pubblicati molto dopo l’uscita dei tre libri che compongono la “Trilogia della città di K.” – il romanzo della consacrazione della Kristof, che l’ha resa famosa, leggendaria ed indimenticabile per tanti dei suoi lettori, libri usciti rispettivamente nel 1986: “Il grande quaderno”, nel 1988: ” La prova”, nel 1991: “La terza menzogna” e confluiti definitivamente nel 1998 ne la “Trilogia” – questi racconti, in realtà, risalgono agli anni settanta, a molto prima quindi dei libri della “Trilogia”, e furono le prime cose scritte dalla Kristof in francese. Da quando cioè, fuggita dall’Ungheria nel ’56, arrivò e si stabilì, dopo varie vicissitudini, a Neuchatel nella Svizzera francese, divenendo quello, da quel momento, il definitivo luogo di quel suo volontario esilio. E in cui, altresì, iniziò il suo apprendistato con il francese che diventerà la sua lingua “letteraria”, quella che utilizzerà, da allora in poi, per scrivere.

Il valore di questi racconti risiede quindi, in prima istanza, nell’offrirci l’opportunità di conoscere lo “scrivere” della Kristof prima della “Trilogia”, di scoprirne lo stile e le forme, di individuarne contenuti e temi, al fine di cogliere, così come in effetti si evince dalla loro lettura, una linea di continuità con la “Trilogia” anzi il preannuncio di essa. Nel senso che quella visione cruda e allucinata della vita e del mondo, il mal di vivere che da essa scaturisce, le spietate verità in essa insita, la durezza impietosa che essa implica, l’assenza di salvezza che ne deriva, la pietrificazione a cui può condurre, che contraddistingue la poetica della Kristof nella “Trilogia”, la ritroviamo anche in questi racconti. Così come ritroviamo quella stessa lingua assolutamente scabra ed “esatta”, essenziale e secca, ermetica e visionaria. Esiste quindi un filo conduttore, un’unità e unitarietà dell’opera della Kristof che si fonda su un suo “sentire” profondo e radicato nel tempo e su uno stile del tutto personale, che esistevano già prima della “Trilogia”, tale da conferire alla Kristof un’identità autoriale in grado di renderla unica e inconfondibile.


Tutti questi racconti sono attraversati da una impersonalità impietosa. E’ impersonale la loro ambientazione: per quel senso di non luogo in cui le cose avvengono, perché è astratto il tempo dell’ azione, perché sfuggono appartenenze e identità dei personaggi. Eppure tutto è attraversato da un’intensità emotiva fortissima, da un imperversare della vita lancinante, da una surrealtà che disvela realtà impietose. Non vi è infatti alcuna possibile pietà in questi racconti ma vi è, di fondo, una violenza che è tale anche quando non è esplicita o estrema. Una violenza che è la violenza del mondo che è nel mondo e se quindi il narrare della Kristof può apparire permeato dalla violenza lo è nella misura in cui è il mondo in sé ad esserlo. Da qui deriva quel senso di crudeltà e di cinismo che trasmettono le sue storie, perché la Kristof non applica nessun filtro e nel suo universo non ci sono valori supremi, principi superiori in nome dei quali prevedere giustificazioni, ma gli uomini sono e restano quello che sono, intenti cioè a perpetrare delitti, a fare del male e a farsi del male.

Uno dei racconti della raccolta ha per titolo “Fa lo stesso” e una sua frase lo sintetizza: “Fa lo stesso, in ogni caso si sta male ovunque”. Questa drastica laconicità lungi dall’essere riducibile ad un mero ripiegamento nichilistico rivela tutta la strenua determinazione con cui la Kristof strappa da sé qualsiasi falsa immagine, ogni possibile concessione consolatoria, tutto ciò che è imprigionato dalla retorica, ogni illusoria fuga nella speranza, per poter arrivare a quella che per lei è l’anima delle cose.

Infatti da questi suoi personaggi senza volto, che vivono in realtà estranee a loro stessi, metafisicamente irreali, dove non ci sono relazioni ma solo scambi di parole e gesti o soliloqui fatti di analisi e autoanalisi senza risoluzioni né assoluzioni, emerge quell’ anima delle cose di cui si diceva, un’anima che rivela come non sia più possibile distinguere il Bene dal Male. Perché lo sconfitto può diventare più feroce del persecutore, uccidere può avvenire a fin di bene, le buone intenzioni possono tradursi in colpe che si sconteranno senza scampo, una scelta convintamente perseguita può ritorcersi in un angoscioso smarrimento. Sono condizioni quelle descritte dalla Kristof di cui sfuggono i confini, che non hanno delimitazioni, la cui natura non è “finita” né definibile: sono gabbie, condizioni in cui si viene o si finisce imprigionati.

Attraverso le situazioni simboliche create dalla Kristof emerge quindi un capovolgimento del senso che rivela un altro senso distante e diverso da quello più immediato e comune. E assai più terribile perché mette a nudo l’assurda banalità del male, l’orrore che producono le intenzioni, le atrocità che genera l’inconsapevolezza con cui le cose avvengono, gli insidiosi tranelli che Bene e Male possono produrre. E, di conseguenza, quanto la vita per il modo in cui i suoi accadimenti accadono possa lasciare smarriti, fare paura. Non a caso “… a chi talvolta osservava come la disperazione e la tristezza dei tre romanzi [della “Trilogia”]fosse quasi insopportabile, Agota Kristof ribatteva con fermezza che “un libro, per quanto triste sia, non può essere così triste come una vita””. (Fabio Pusterla – “Postfazione” in Agota Kristof –“Chiodi” – Edizioni Casagrande – 2018 – ppg. 95,96 ) E infatti “La grande ruota”, che è uno dei racconti contenuti ne “La vendetta”, si conclude proprio con queste parole: “L’unica cosa che può fare paura, che può fare male è la vita”.

Ma se il trattamento grottesco da teatro dell’assurdo, se l’ironia gelida che percorre molti dei racconti de “La vendetta”, stemperano l’elemento claustrofobico, emerge tuttavia netta la loro natura di apologhi, di favole “nere” che la Kristof crea per rispondere alla necessità di dare voce a quel suo mondo interiore. Così nel racconto “I professori” si può uccidere quello più amato per salvarlo dalle angherie e dalle crudeltà dei compagni i quali amavano torturarli i professori: “E’ per questo che, impietosito dal poveretto, dopo che i suoi allievi gli avevano assassinato una poesia, alle dodici e trenta precise, nel parco accanto alla scuola e con l’aiuto di una corda per saltare dimenticata lì da qualche bambina, ho messo fine ai suoi tormenti”.

Nel racconto “Il bambino” il bambino che ne è protagonista cova un odio rancoroso verso i genitori che si sono rifiutati di comprargli un fucile giocattolo perché, sebbene il “…padre militare. Aveva un fucile, uno vero, per uccidere”, ricorda il bambino, il fucile giocattolo invece, secondo loro, era “..un giocattolo molto brutto”. Sputando, piangendo e sbraitando il bambino riferito ai genitori grida al colmo dell’odio: “Quando sarò grande vi ucciderò!”. L’impotenza creativa che assale il protagonista del racconto “Lo scrittore” – il quale ha abbandonato il suo precedente lavoro, fermamente convinto di poter scrivere il capolavoro della sua vita – si trasforma ben presto in una gabbia fatta di solitudine, silenzio e vuoto, situazione alla quale reagisce dandosi il compito di scrivere “tutto”: “…tre cose orribili, solitudine, silenzio e vuoto mi bucano il tetto, esplodono fino alle stelle, si estendono all’infinito…E grido: – Scriverò tutto, tutto quello che si può scrivere. E una voce, ironica ma pur sempre una voce, mi risponde: – D’accordo, ragazzo. Tutto, ma nient’altro, intesi?”

E il rovesciamento del senso e il sovvertimento dei ruoli si associa all’assenza di perdono, con le iniziali vittime che si trasformano in persecutori. Così nel racconto “La vendetta”, che dà il titolo alla raccolta, non c’è spazio per la pietà e l’uccidersi, il perpetrare la vendetta, si ripete inesorabile: “- Gli sconfitti hanno incassato i colpi senza restituirli. Ma sono diventati cattivi. A sera hanno attraversato il fiume, per aspettare l’ora dei conti dietro gli sbarramenti…non domandarmi chi ha cominciato, non domandarmi chi ha finito. Tutto quello che so, è che c’è stato un primo colpo. – Ti vendicherò…Allora cento uomini uscirono allo scoperto sul campo dilaniato dal fuoco e dissero:…Quando finiremo di uccidere e di piangere? Noi siamo i superstiti, i vili, incapaci di combattere, incapaci di uccidere. Vogliamo dimenticare, vogliamo vivere. L’uomo nel fango si è mosso, ha alzato l’arma e li ha abbattuti fino all’ultimo”

L’intonazione di chi non può perdonare né fare sconti riappare nel racconto “Non mangio più” in cui la Kristof contrappone a chi ha vissuto una vita stentata e di stenti, l’ostentazione vorace di chi quegli stenti ignora e, in un totale rovesciamento di ruoli e di prospettiva, chi prima soffriva adesso compie la sua atroce vendetta: “Non appena ho imparato a vivere mi hanno nutrito di mais e di fagioli. A tutti i piatti sconosciuti, avevo eretto un santuario andando a rubare qualche patata nei campi sconfinati del mio paese natale. Oggi ho tovaglia bianca, cristalli, argenteria…Sorrido e alzo il bicchiere di vino pregiato in onore dei miei invitati al pasto serale….E rido osservando i miei ospiti chinarsi voraci sul civet di lepre che io stessa ho cacciato nei miseri campi del loro paese natale. Nient’altro, in realtà, che il loro gatto domestico prediletto.”

L’impossibilità di perdonare è al centro anche de “La cassetta delle lettere” in cui un bambino abbandonato divenuto adulto riceve, dopo trent’anni, da quello che scopre essere suo padre, una lettera in cui lo convoca “…il due maggio prossimo alle tre”, nel suo ufficio, per affidargli i suoi affari dato che “Sfortunatamente non ho avuto altri figli” dice nella lettera. Ma quel giorno colui che è suo figlio a quell’appuntamento non ci sarà: “Stasera, seduto in aeroporto, aspetto un aereo per l’India. Perché l’India? Potrebbe essere qualunque posto, purché mio <<padre>> non possa ritrovarmi.”. Così come, sempre sulla falsariga di questo tema, una metafora spietata che attiene il trascorre del tempo è quella che la Kristof crea nel racconto “Morte di un operaio” nel quale la fabbrica, proprio quella fabbrica di orologi nella quale si produce il trascorrere del tempo, diventa in realtà luogo di distruzione del tempo della vita: “- Cancro, aveva detto il medico, e il candore del tuo letto d’ospedale ti riempie di orrore…La tua non era soltanto una fabbrica di orologi, era anche una fabbrica di cadaveri.”

Queste storie sono perciò attraversate da metafore, da ambientazioni oniriche, da dimensioni surreali e favolistico/fiabesche, da immagini fatte di una loro poesia ermetica, da visioni che sembrano proiezioni di incubi. E, in tal senso, la Kristof si rivela una grande raccontatrice di incubi come se essi fossero la pura normalità. Incubi a occhi aperti attraverso cui i personaggi della Kristof attuano delle vere e proprie strategie di sopravvivenza per stare al mondo e nel mondo. Una di esse è quella di normalizzare la follia facendone il mezzo per raggiungere quella condizione liberatoria che nella realtà è irraggiungibile. Il soggetto si crea così un’altra realtà, la sua realtà, dato che quella in cui vive è per lui insopportabile. Come la protagonista de “La scure” che risvegliatasi al mattino trova il marito con una scure piantata nella testa e, chiamato un medico, con candido stupore gli dirà: “Oh! Crede forse che la scure accanto al letto ce l’abbia messa io, perché ci cadesse sopra? Mica potevo prevedere che sarebbe caduto dal letto! Magari crede anche che l’abbia spinto, e che poi mi sia addormentata tranquillamente, finalmente sola nel nostro grande letto, senza lui che russa, senza sentire il suo odore! Ma insomma, dottore, non andrà a pensare una cosa del genere, non può…E’ vero, ho dormito bene. Erano anni che non dormivo così”. Vivere quindi in un mondo allucinato per salvarsi dalla realtà in cui si vive.

Sempre a proposito di sogni e di incubi anche nel racconto “Il canale” c’è un uomo il quale “…si riaddormenta e rifà quel sogno, un incubo, uguale, sempre uguale” nel quale egli “Cammina per le strade della sua città natale e cerca di raggiungere il figlio. Il figlio che lo aspetta in una casa della città, in quella stessa casa dove lui un tempo aspettava suo padre. Ma è smarrito, non riconosce più i luoghi, non riesce a ritrovare la propria strada, la propria casa. Hanno cambiato tutto. Tutto.” Finché non incontra il figlio che “…lo conduce ai margini della città, dove scorre un fiume dai riflessi dorati, illuminato da potenti riflettori. Figure distese sulla schiena si lasciano trasportare dalla corrente, gli occhi rivolti al cielo stellato… sono le canalizzazioni della città che portano via i rifiuti. I morti, e tutto quello di cui vorremmo sbarazzarci, come la cattiva coscienza, gli errori, gli abbandoni, i tradimenti, i crimini, gli omicidi…Ma i morti ritornano, il mare non li vuole. Li spedisce in un altro canale che li riporta qui. Dopodiché girano intorno alla città come le anime del passato” E anche l’uomo alla fine cadrà nel canale e si lascerà “…trasportare dall’acqua del canale, gli occhi fissi alle stelle che non vede più”. Un fluire inesorabile quindi che trasporta tutto, gli uomini così come i loro atti in una circolarità e ciclicità perenne ed eterna, perché “E’ così di generazione in generazione”.

Un altro grande tema che percorre i racconti de “La vendetta” è quello del distacco dalle proprie origini sia da quelle della propria infanzia che da quelle dei luoghi di origine che rimanda alla vicenda personale dell’esilio della Kristof. Così nel racconto “Un treno per il nord” appare il tema del pietrificarsi come metafora dell’ impossibilità del ricongiungersi con ciò da cui ci si è separati, con ciò che si è lasciato. Il non poter tornare, il non potersi ricongiungere alle proprie parti scisse porta il protagonista alla pietrificazione, trasformandosi in una scultura di pietra. E al suo immaginario interlocutore che gli dice: “Però lei è qui, e aspetta un treno” lui risponde: “- Non sono pazzo come crede. So perfettamente che non esisto. Sono di pietra…Sono una statua, non partirò.” La propria salvezza passa quindi dal proprio autoannullamento, non essendo più possibile immaginare cose diverse.

E la Kristof riversa in questo filone del ritorno, anzi dell’impossibile ritorno, tutto lo struggimento legato alla perdita dei luoghi della propria infanzia e lo fa con una poeticità che riesce a penetrare nella sua prosa scarna, come nel racconto “Di una città”. In cui ricordi d’infanzia che dell’infanzia ne trattengono l’emozione di gioiose scoperte, al tempo stesso, ne mantengono ancora vivi i fantasmi di cupe paure: “Là le notti erano immobili, le tende alle finestre non oscillavano nemmeno, il silenzio strombazzava per strada, avevamo paura, perché nascosto nei monti c’era un uomo nero e cattivo che s’incamminava verso la città e bussava alle porte chiuse a doppia a mandata…devo parlare di tutto. Del torrente, del pozzo con la sua ruota scura, dell’estate allegra e rassicurante, del sole sul viso alle cinque del mattino, del giardino della chiesa. Ogni anno in quel giardino l’autunno ci sorprendeva con una manciata di foglie rosse cadute dagli alberi all’improvviso,…ci camminavamo a piedi nudi, faceva ancora caldo, ridevamo, e ricominciavamo ad avere paura.” Peraltro questo racconto ci fa comprendere che non è solo nella decisione di abbandonare il suo paese d’origine, ma anche in quella sua infanzia che vanno ricercate le tracce della “tristezza” della Kristof. Come ha infatti scritto Fabio Pusterla, “L’origine della tristezza [della Kristof] affonda negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, trascorse nella nativa Ungheria, tra il 1935 e i primi anni cinquanta, e trova poi ulteriore motivo di desolazione nella decisione di abbandonare il Paese.” (F. Pusterla – Cit., p.96)

E questo suo andare nel suo passato ritorna nel toccante racconto “Mio padre” nel quale la Kristof mette a nudo tutta la sua sensibilità, rivelando nei toni sofferti un’intonazione profondamente affettiva: “Non l’avete mai conosciuto. E’ morto. Per questo l’anno scorso, all’inizio di dicembre, sono partita per il mio paese natale,…in tutto trentasei ore di viaggio fino alla grande città industriale dove avrebbero murato mio padre, in un’urna di porcellana bianca…Ho posato un mazzo di garofani accanto all’urna bianca, minuscola, non potevo credere che lì dentro ci fosse mio padre, lui che ai tempi in cui ero ancora sua figlia, la sua bambina, era così grande…Tuttavia ho pianto quando l’hanno messa nel cemento…Sono andata nella stanzetta di mio padre…Mio padre non c’era…Lo aspettavo, volevo rivederlo, perché presto avrei dovuto ripartire, cioè tornare qui. – Ma dov’è finito papà? – ho detto alla fine, e la gente mi guardava. I miei fratelli mi hanno portata a casa loro, mi hanno messa a letto. L’indomani sono ripartita…Da nessuna parte mio padre ha passeggiato con me mano nella mano”

Il tema dell’ appartenenza lacerata, di un’ origine dalla quale ci si sente sradicati, ritorna nel racconto “Casa mia” il cui oggetto è “…una casa che non ho mai avuto, o troppo lontana perché me ne ricordi, perché non era, non è mai stata veramente casa mia.” Ma alla fine, assecondando lo scorrere del tempo, ormai liberatosi dal dolore delle ferite della vita, il soggetto si può riconciliare con un proprio immaginario nel quale potersi sentire in una casa sua: “Così il tempo scorrerà via. E, sotto le mie palpebre, scorreranno le immagini di quel brutto sogno che fu la mia vita. Ma non mi faranno più male. Sarò a casa mia, sola, vecchia e felice”.

Si può quindi affermare che la Kristof incarna in sé il vivere nella lontananza, il sentirsi straniero, il sentirsi privi di una propria casa in quanto impossibilitata a poterla costruire prima di tutto dentro di sé, e quindi un senso di perenne nostalgia per qualcosa che non si è mai veramente potuto possedere. Un’interezza e una pienezza mai raggiunte alle quali si anela. Come il protagonista del racconto “Le strade” che trasferitosi in un’altra città sogna tutte le notti le strade della sua città che amava percorrere “…fino allo sfinimento…”, e che adesso le sogna fino allo sfinimento. ”Sogni, sogni, tutte le notti. Strade, case, porte, muri selciati, poi un dolore acuto, il risveglio a notte fonda in un bagno di sudore…la nostalgia, l’ammirazione sconfinata per le strade amate, un profondo senso di colpa, un amore al culmine della passione. Un amore cocciuto, prosaico, inchiodato alla terra di quella città, un amore sensuale, fisico, quasi osceno”

Ma soprattutto ed infine vi è già, all’epoca di questi racconti, nella Kristof una percezione molto forte ed acuta del non senso della vita, del suo scorrere nell’attesa o nell’indifferenza, di quanta inutilità e illusorietà in essa possa esserci, di quanti rimpianti la vita lasci dietro di sé per quello che è stato o che non è accaduto e di ciò ne è una sintesi amara e cruda il racconto “Penso” dove l’abdicazione del soggetto ad ogni illusoria ricerca di senso viene affermata perentoriamente e lucidamente, senza pudore rivelando ancora una volta come la Kristof avesse la capacità di guardare l’anima delle cose, anche delle cose più dolorose, come se non facesse alcun male, intenta come ella era ad andare contro le menzogne che, sicuramente, per lei, erano assai più dolorose.

Ormai non mi restano molte speranze. Prima mi muovevo, ero sempre in viaggio. Aspettavo qualcosa. Che cosa? Non lo sapevo. Però pensavo che la vita non potesse essere solo questo, vale a dire niente, la vita doveva essere qualcosa, e aspettavo che questa cosa arrivasse, la cercavo addirittura. Oggi penso che non c’è niente da aspettare, per cui me ne sto in camera mia, seduto su una sedia, senza fare nulla. Penso che fuori c’è una vita, ma in questa vita non succede niente. Almeno per me. Per gli altri può darsi che qualcosa succeda, possibile, ma non m’interessa più”

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