“Niels Lyhne” – Jens Peter Jacobsen

“L’anima è una cosa così fragile, e nessuno può dire fin dove nell’uomo l’anima giunga”

Queste parole nell’evocare da una parte l’esistenza dell’anima, dall’altra ne affermano la sua precarietà e indeterminatezza che la rendono inafferrabile rispetto a qualsiasi possibilità di dominarla e definirla. Ma questa condizione di precarietà e indeterminatezza dell’anima rende l’io esposto ad essa, creandosi una scissione tra l’io e la sua esistenza che si riversa nella vita stessa rendendo quest’ultima, a sua volta, inafferrabile e minando quindi la possibilità di entrarvi pienamente. Ebbene questa inafferrabilità della vita è il centro intorno a cui ruota il “Niels Lyhne”e da cui deriva tutta la sua grandezza, in quanto precursore del grande tema novecentesco, ma a tutt’oggi a noi contemporaneo, della lontananza e dell’estraneità della vita, dell’impossibilità di viverla in tutta la sua pienezza, del volervi appartenere senza riuscirci.

Ma la grandezza del “Niels Lyhne” è la grandezza di Jens Peter Jacobsen, “…uno dei primi, e più grandi, poeti dell’irrealtà che sembra aver colpito la vita moderna…votandola all’astrazione e alienandola agli uomini che dovrebbero viverla…”, come scrive Claudio Magris nel suo bellissimo saggio: “Nichilismo e malinconia. Jacobsen e il suo Niels Lyhne” (C. Magris – “L’anello di Clarisse” – Einudi Tascabili Saggi -1999 – pp.63-85).

Jacobsen pubblica il “Niels Lyhne” nel 1880, ponendosi idealmente come capostipite di una sequenza fondamentale che partendo dal personaggio di Niels Lyhne, passa dal personaggio protagonista di “Fame” (1890) di Knut Hamsun, per giungere al personaggio di Malte protagonista de “ I quaderni di Malte Laurids Brigge” (1910) di Rainer Maria Rilke. Tutti personaggi questi nati nell’ambito di quella letteratura che tra otto e novecento ebbe già chiara la consapevolezza di quella scissione che stava diventando insita negli individui e aventi altresì in comune l’appartenenza a letterature nordiche: essendo Jacobsen danese e Hamsun norvegese o provenienze nordiche come il personaggio di Malte a cui Rilke attribuisce origini danesi, ispirato espressamente, come egli fu, dal “Niels Lyhne”, da cui la dichiarata ammirazione e il “debito” verso Jacobsen che Rilke ammise ripetutamente.

Ma, soprattutto, tutti personaggi dei quali i relativi autori rappresenteranno le loro lacerazioni rispetto a una vita vissuta quale assenza, quale anticamera e attesa di un’esistenza che non giunge mai. Fondandosi la loro precarietà nella loro condizione interiore, in quella cosa chiamata anima di cui parla il personaggio del “Niels Lyhne” che pronuncia quella frase citata all’inizio, nella quale e dalla quale si avverte tutta la sfuggevolezza di se stessi a se stessi e che porta a sentire la vita come nostalgia, come osserva Magris quando afferma: “La poesia moderna è spesso nostalgia della vita: non di una sua forma particolare e determinata di cui si lamenti la mancanza, o di qualche bene la cui privazione la renda dolorosa e infelice, ma della vita in sé, come se essa stessa fosse assente [e] Anche Niels Lyhne s’accorge di non nuotare nel fiume della vita, di non essere identico a quel fluire e di non parteciparvi, ma di guardarlo dalle sue sponde. La malinconia di Niels Lyhne [nasce] dall’avvertenza dell’esilio della vita vera, dalla consapevolezza che’essa è altrove, inafferrabile per l’individuo che dovrebbe viverla”. (C. Magris, cit. p.64)

La grandezza di Jacobsen sta quindi proprio nella sua capacità di avere travalicato il suo tempo ponendosi come apripista sia di concezioni e sensibilità con cui ci si continua a confrontare, sia di tendenze letterarie che hanno contrassegnato il Novecento.

Come è stato infatti rilevato, Jacobsen “…in un clima letterario dominato dal positivismo e dal naturalismo dogmatico, trascurava l’attualità e l’impegno sociale per esplorare, in forme raffinate e armoniose, la problematica esistenziale dell’individuo in una dimensione sostanzialmente atemporale…[risultando altresì, per ciò che riguarda] le tendenze letterarie europee, in varia misura, antesignano: dal decadentismo al simbolismo, dal neoromanticismo al modernismo”. ( a cura di Fausto Cercignani e Margherita Giordano Lokrantz – “In Danimarca e oltre. Per il centenario di Jens Peter Jacobsen” – Cisalpino-Goliardica – 1987 – p.12).

Il “ Niels Lyhne” lo si può considerare una sorta di biografia del suo protagonista. Ma tale biografia pur seguendo le vicende della vita di Niels Lyhne dalla sua nascita alla sua morte non ha uno sviluppo sistematico ma si configura piuttosto come una catena di avvenimenti, basati su episodi significativi ciascuno dei quali segnerà l’esistenza di Niels facendogli sperimentare quell’impossibilità di insediarsi stabilmente nella vita in sintonia con essa. Tale biografia quindi assume più il carattere di una biografia spirituale – o meglio di una biografia del suo spirito – a suo modo priva di una vera unità laddove l’ unità è tematica e stilistica più che narrativa. La vita di Nils Lyhne è infatti sviluppata come fosse una sequenza di quadri interconnessi da uno stile intensamente lirico e intimista che sprigiona poeticità anche quando constata svolte amarissime e fallimenti dolorosi nella vita di Niels. Ma è quel tipico sottofondo malinconico tormentato che si percepisce costantemente nel sottotesto che fa, in ultima istanza, da vero trait d’union di tutto il “Niels Lyhne” e gli dà quell’unità di forma e contenuto che ne identifica la sua natura.

Narrativamente l’esistenza di Niels Lyhne segue uno schema circolare che si ripete sistematicamente nella sua vita, basato su tre momenti: l’ “anelito” cioè l’aspirazione e l’attesa di vedere realizzato un proprio desiderio verso il quale ci si protende ardentemente; la “disillusione” derivante dalla mancata realizzazione di quel desiderio; la “solitudine” che subentra e succede ad ognuna di quelle mancate realizzazioni portando Niels a isolarsi e a fargli vivere l’amarezza del fallimento. E pur di fronte alla constatazione del susseguirsi di questa ciclicità Niels non rinuncerà mai, nel corso della sua vita, a protendersi verso nuovi “aneliti” su cui indirizzare la sua pulsione cioè far si che si traduca in realtà ciò che egli più fortemente desidera.

Niels non è quindi un personaggio rassegnato e passivo ma, bensì, è mosso da una spinta vitale, contrassegnata da una sensibilità e da una delicatezza profonde che lo rendono estraneo a quella prosaicità della vita di cui, inesorabilmente, si troverà a patirne conseguenze e sofferenze.

E a tutto ciò egli è indotto dalla sua natura che lo porta a perseguire un’idea “poetica” della vita basata principalmente sull’amore e la bellezza. La gran parte delle disillusioni di Niels saranno infatti determinate da delusioni e dolori legati a esperienze d’amore. “Che questo sentimento occupi un posto privilegiato nella sensibilità del giovane protagonista non deve meravigliare, dal momento che quasi tutti i personaggi principali di Jacobsen fanno parte di quella eletta schiera di esseri umani che “ricevono fin dalla nascita un’indole diversa da quella degli altri”…Per uomini così fatti l’amore e la bellezza sono veri e propri simboli della condizione umana, di quel trascendente che si rivela e si conferma inesorabile principio di esistenza: perché “ogni bellezza è bellezza che svanisce, e ogni felicità è felicità che si infrange.”” (a cura di F. Cercignani cit. p.125).

La conseguenza di ciò sarà il determinarsi, nella vita di Niels Lyhne, di un divario incolmabile fra l’essenza della sua vita e la sua concreta esistenza, rendendo l’una via via sempre più destinata a non realizzarsi e l’altra un susseguirsi di ora opache, ora dolorose e tragiche esperienze. Vi è quindi nel “Niels Lyhne” un’intrinseca istanza nichilistica ma, come osserva Magris, essa non è a fondamento di nuovi sistemi di valori o di un “pensiero” negativo bensì, “…il nichilismo che regna nell’opera di Jacobsen è sentito quale privazione dolorosa, quale esaurimento e malinconia.” (C. Magris cit. p.69)

L’esistenza tormentata di Niels Lyhne nel suo essere specchio del suo travaglio esistenziale è però anche specchio dell’ateismo di Jacobsen. Come è stato infatti osservato: “…non è possibile scindere il personalissimo e sofferto ateismo di Jacobsen dal travaglio esistenziale che si riflette in tutta la sua opera.” (a cura di F. Cecignani cit. p.127). “Niels Lyhne” doveva essere infatti in origine un romanzo sull’ateismo e il suo titolo doveva essere “Atei”.

E, in effetti, Niels Lyhne professerà nella sua vita il suo ateismo restandovi fedele fino alla morte: “Il libro è certo anche la storia di un ateo, il protagonista, che vive coerentemente la sua convinzione, resistendo alla tentazione di abbandonarla in fin di vita, come accade ad altri, e morendo così, solo, “la sua morte, la sua pesante morte.”” (C. Magris cit. p. 67). Ma quest’ateismo di Jacobsen non è cieca fiducia in un nuovo ordine razionale del mondo, bensì è espressione di come l’assenza di Dio comporti dover fare conto solo su se stessi e di come tale compito sia per gran parte degli esseri umani improbo. Niels Lyhne, in questo senso, incarna una estraneità e una diversità che non è solo interiore ma è anche ideale, anelando a una “liberazione” da Dio e a una affermazione dell’uomo sulla terra. Ma “Jacobsen non vuole enunciare una sua verità circa l’inesistenza di Dio, bensì la consapevolezza che Dio è dileguato dall’orizzonte della civiltà occidentale…Jacobsen [quindi] non è il poeta dell’ ”oltreuomo” ma è il poeta dell’individuo tradizionale nel doloroso momento della sua trasformazione…la poesia di Jacobsen è un perenne soffermarsi in questa transizione, [e] il crepuscolo danese di Jacobsen sta ancora avvolgendo le nostre giornate, perché la nostra stagione è ancora quella transizione” (C. Magris cit. pp. 67-69)

Il tormento di Niels Lyhne è quindi anche il segno della difficoltà di stare al mondo in assenza di un principio ordinatore a cui ancorarsi. Quello di Jacobsen non è quindi un nichilismo ideologico ma è un nichilismo che coglie l’assenza di quel principio ordinatore ma anche l’assenza, ormai, di qualsiasi altro principio e quindi, per questo, ancora più sofferto oltre che estremamente contemporaneo.

Appare quindi ancor più evidente in questo quadro quella condizione di sfuggevolezza della vita che pervade il “Niels Lyhne” e che diventa attesa che sia la vita a giungere e a riempire l’ esistenza: “Ah, se solo si fosse decisa a venire finalmente – la vita, l’amore, la passione – così che smettesse di farvi sopra della poesia, per lasciare che fosse la vita stessa a farsi poesia con lui”. La vita per Niels Lyhne sarà invece una vita che lo sottoporrà a delle continue prove in cui baleneranno di fronte a lui i possibili approdi ma da questi sarà ogni volta trascinato via prima che li possa afferrare. La vita, per Niels, sarà quindi un continuo anelito alla vita, l’amore una privazione che continuamente rinasce.

A plasmare la natura e l’anima di Niels era stata Bartholine, sua madre, la cui indole votata al sogno e alla fantasia, aveva influenzato in modo determinante Niels.E’ in questo senso significativo che tutta la vita di Niels sarà contrassegnata soprattutto da figure femminili e dal rapporto col femminile: “La storia delle esperienze di Niels sembra quasi volersi organizzare in un “Bildungsroman” le cui fasi principali siano in qualche misura caratterizzate da figure femminili di volta in volta diverse” ( a cura di F. Cercignani cit. p. 100). Tali figure diverranno per Niels quell’oggetto del desiderio il cui raggiungimento è la condizione attraverso cui potersi realizzare, ma i suoi “innamoramenti” saranno sempre inesorabilmente interrotti o per effetto di scelte antitetiche a Niels che si tradurranno in abbandoni o per il sopraggiungere della morte che strapperà dalla vita di Niels coloro che vi erano entrate. A dominare è quindi l’esperienza della perdita, in cui si concentra la più evidente manifestazione di quello sfuggire della vita laddove essa vuole essere, prima di tutto, appagamento della propria interiorità e della propria anima.

E così, ancora ragazzo, Niels sperimenterà quel vissuto della perdita assistendo impotente alla morte repentina della bella e giovane zia Edele che aveva fatto oggetto di adorazione, apparendo, ai suoi occhi, “…un essere superiore, meraviglioso, misticamente assurto a divinità per la sua bellezza”. E quell’ “…abisso profondo tra il nostro desiderio e ciò che desideriamo” si rivelerà già in tutta la sua evidenza a Niels, pregando egli disperatamente Dio, sul letto di morte della zia, di salvarla, ma invano. E nella solitudine in cui piomberà: “…la solitudine si distendeva sopra di lui, traeva cerchi di silenzio intorno a lui, sempre più vasti, sempre più lontani”, si consumerà, se pur ribellisticamente a questo stadio, quel rifiuto di Dio che lo porterà a sentirsi diverso ed estraneo per sempre: “E tale restò per tutta la vita. Perché, nella sua ribellione, egli si era staccato definitivamente da tutte le maniere di pensare che gli erano state instillate nella scuola, ed era passato, con tutte le sue simpatie, dall’altra parte, dove stan coloro che hanno tentato invano di andar contro corrente”

Nella vita adulta Niels vivrà, prima, il susseguirsi di “innamoramenti” nei quali dovrà subire il disincanto derivante da abbandoni dolorosi causati da rigetti e rifiuti.

Nella storia con la signora Boye saranno le convenzioni sociali ad avere la meglio sull’amore, rivelando a Niels come i sogni e le fantasie nulla possono quando subentra quell’ “indifferente saggezza del mondo” che trapela nelle parole della signora Boye: “Si, vedi, una cosa bisogna che ti dica, Niels: noi donne, quando qualcosa capita nella nostra vita, che ci apre gli occhi sopra quell’istinto di libertà che è pure anche dentro di noi, noi donne, possiamo, per un certo tempo, scioglierci da ogni vincolo; ma poi – poi – non vi resistiamo. E’ così. E’ una cosa che abbiamo nel sangue. Il correttissimo fra tutto ciò che è corretto: quella è la nostra passione. Le convenienze: ciò che è come si deve: non c’è nulla a cui siamo più sensibili…Tre settimane dopo la signora Boye era sposata, e Niels Lyhne restò completamente abbandonato a se stesso”

Nella storia con la cugina Fennimore saranno le conseguenza della colpa e del peccato derivanti da quell’amore “a tradimento” tra Niels e Fennimore che si abbatteranno su Niels e su quell’amore, allorquando la morte improvvisa e violenta di Erik amico d’infanzia di Niels e marito di Fennimore metterà costei di fronte agli “spettri del peccato”. Delusa e umiliata da Erik, Fennimore aveva accettato l’amore di Niels accortosi di amare la cugina e, a suo modo, anche desideroso di “salvarla” da quella vita infelice. Ma il rifiuto di Fennimore di lasciare il marito per non arrecare un dolore ai suoi genitori costringe gli amanti alla falsità e alla slealtà portandoli a vivere un amore divorante e traditore. E quando Erik muore, Fennimore vivrà “selvaggiamente e senza riguardo” il suo peccato, “con tutto quello stesso fanatico odio di sé medesima che induce la monaca a flagellare il suo corpo nudo” e quell’odio si riverserà con violenza inaudita su Niels colpevole di averla attratta col suo amore. E, ancora una volta, Niels si ritroverà solo, a combattere con se stesso, in una solitudine ancor più grande di quella di chi è solo: la solitudine che si avverte quando manca “la chiara stella fissa di uno scopo di vita”.

Nella storia con Madame Odero una cantante d’opera che attende con impazienza di poter recuperare la pienezza della sua voce dopo un insidioso mal di gola, la relazione si conclude improvvisamente quando Madame Odero, ormai guarita, si rende conto di potersi scrollare di dosso tutto il “nulla di quei mesi”. Niels troverà soltanto qualche parola di addio sulle pagine di “un misero taccuino”.

Poi, finalmente, un amore pieno, ma che sarà anche l’ultimo amore di Niels: quello per Gerda. Un amore felicemente e pienamente corrisposto: “Quella giovane anima si piegava verso di lui con una fiducia senza nome, si premeva contro di lui con una confidenza carezzevole senza limite” Per Niels “la piccola Gerda” non è più una figura da venerare, un idolo, ma è una “bianca e rossa e bionda fanciulla”, un amore “puro e nobile” fondato sul comune sentire. E così, “Vissero per tre anni, insieme, una vita felice; e gran parte della loro felicità s’irradiava dal soave piccolo viso di un bimbo nato nel secondo anno del loro matrimonio. La felicità rende generalmente gli uomini buoni; e Niels si prodigava perché la loro vita riuscisse nobile e bella e utile, che nessuna pausa potesse mai intervenire nell’assurgere delle loro anime verso quell’ideale di umanità, in cui tutti e due credevano. Improvvisamente, Gerda si ammalò; e non ci fu più mezzo di salvarla”. E Gerda che aveva voluto condividere tutto con Niels financo “ quell’ideale di umanità” cioè “la verità dell’ateismo”, in quell’ “ultima mattina [mentre] Niels vegliava presso di lei” sente e rivela a Niels quella sua terribile paura: “… ho paura Niels. Là, dove io devo andare, impera Iddio; e Iddio non domanda quella che è stata quaggiù la nostra sapienza: Iddio domanda ciò che è Suo, soltanto ciò che è Suo…Fammi venire il parroco, mi faresti tanto piacere!…Il parroco venne, e restò solo con Gerda…A mezzanotte morì”.

Per Niels, “…il tempo sembrò essere diventato qualcosa di smisurato, di mostruoso, di ostile. Ogni giorno che passava era un infinito deserto di Vuoto: ogni notte un inferno di ricordi”, finché giunse l’ultima e definitiva prova per Niels: il figlioletto giace in preda alle convulsioni e il medico non arriva, quando il padre legge in quegli occhi angosciati “la crescente implorazione d’aiuto”, la disperazione è tale che egli innalza una preghiera a Dio, ma, come era accaduto durante l’agonia della zia Edele, l’invocazione rimane inascoltata. Niels si ritrova più solo che mai: solo con il suo “amaro abbattimento”, solo con il rimorso di aver ceduto alla tentazione pur sapendo benissimo che pregare significa rifugiarsi in un sogno.

Ormai “L’esistenza per Niels era lacerata e il suo contenuto si disperdeva, senza senso, in tutte le direzioni…la sua caduta era un fatto compiuto irrimediabile e, sia che essa si dovesse ancora ripetere, sia che non si dovesse ripetere più, la cosa era indifferente”. Niels andrà in guerra e lì morirà. E in quei suoi ultimi momenti di vita gli si svelerà quell’ultima verità: “Era la grande verità triste che un’anima è sempre sola. Ogni fede nella fusione di un’anima con un’altra anima è un inganno. Non la madre che ci tiene in grembo, non l’amico, non la sposa che dorme presso il nostro cuore…”

E così, senza alcun conforto, né terreno, né ultraterreno: “E avrebbe fatto così bene al cuore, avere un Dio con cui lamentarsi, avere un Dio da invocare!…finalmente morì, morì la sua morte, la pesante morte.”

7 risposte a "“Niels Lyhne” – Jens Peter Jacobsen"

  1. vengodalmare 30 aprile 2017 / 6:47

    Il caro Niels .. quanto influenzò la mia tarda adolescenza! Grazie di questo articolo, molto ben descritto il personaggio.

    Piace a 1 persona

  2. giacinta 30 aprile 2017 / 16:00

    Sto pensando a quanto siano distanti i romantici dagli autori decadenti. Eppure condividono condizione di insoddisfazione. Lo streben romantico ha però una valenza propulsiva che manca al’aspirazione decadente, forse perchè la frattura tra anima e esistenza si fa più radicale sul finire dell’ottocento. La società borghese inizia a mostrare chiaramente il suo carattere, la sua rapacità e il tempo degli ideali è forse ormai dissolto..

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  3. ilcollezionistadiletture 1 Maggio 2017 / 6:53

    Si, allo “struggimento” tipico del romanticismo di inizio ottocento, nel quale esisteva ancora l’idea di totalità, riferita sia all’uomo che al pensiero, subentra, sul finire del secolo, la consapevolezza dell’esistenza di una vita psichica che fa prendere coscienza di quella frattura fra anima e esistenza, nonché ha inizio quella frammentazione che porterà all’affermazione dell’individuo, incrinandone però la sua unità e conducendolo all’isolamento e all’individualismo, anche per effetto di quei “valori” borghesi a cui accenni.
    Grazie Giacinta della visita e un saluto.

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  4. viducoli 3 Maggio 2017 / 12:34

    Preziosa come sempre questa Tua recensione, di un libro che peraltro non ho in biblioteca e che mi affretterò ad acquistare.
    Il periodo di passaggio tra ‘800 e ‘900, quello dell’inizio della crisi dei valori borghesi, si rivela sempre più cruciale per capire la letteratura posteriore: anche a me in questo periodo è capitato di leggere alcuni antesignani e di restarne affascinato.
    Nel caso di Jacobsen ritrovo tra l’altro, come evidenzi molto bene, il tema del rapporto con dio che è tipico del protestantesimo nordico,e che caratterizza anche – ad esempio – il cinema di Dreyer e Bergman.
    La Tua assenza dal blog cominciava a preoccuparmi, vista l’importanza dei tuoi scritti, per cui saluto davvero il Tuo ritorno.

    A presto
    V.

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    • ilcollezionistadiletture 4 Maggio 2017 / 8:48

      Ciao Vittorio,

      e grazie per la tua sempre partecipe attenzione.
      Non “preoccuparti” per le mie eventuali assenze, può capitare. Le letture di cui scrivere non mancano di certo quindi “le buone abitudini” di scriverne non rischiano di esaurirsi.
      Si, ti consiglio senza riserve la lettura di Niels Lyhne, tra l’altro è stato da poco riedito da Iperborea con una postfazione di Claudio Magris che è poi la stessa da lui pubblicata a suo tempo su “L’anello di Clarisse”, fonte da me utilizzata e citata.
      Quel periodo tra otto e novecento è effettivamente cruciale, è come se lì germinasse tutto quello che si sarebbe affermato e sviluppato dopo nella letteratura e non solo.
      Non a caso Thomas Mann, tanto per fare un esempio, considerava Jacobsen un suo precursore e lo ammirava profondamente. Come scrive Magris, T. Mann dichiarò “…più volte il suo grande debito intellettuale e fantastico nei confronti del narratore danese”
      Grazie ancora e a rileggerti presto.
      Un caro saluto
      Raffaele

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