La dimensione del pensiero costituisce il contenuto fondativo de “I turbamenti del giovane Törless” (T). La trama dei rimandi e dei significanti, al di là delle possibilità, persino poetiche, che raggiunge, ci introduce infatti in una serie di meandri concettuali che ci conducono a confrontarci con l’astratto, a penetrare l’indicibile, a constatare la pulsione, a indagare la mente, a pensare a l’infinito.
La prima impressione suscitatami dal T., a lettura finita, è stata quella di essermi trovato di fronte ad un’operazione di “vivisezione”, operazione condotta da Musil su T. e da T. su se stesso e sul mondo. Ciò per l’evidente procedere analiticizzante con cui lavorano Musil e T. nel narrare e nel narrarsi. E’ paradigmatico, in questo senso, che il T. finisca con questa frase: “E analizzò, odorandolo, il profumo leggero che emanavano le vesti di sua madre” dove l’uso del verbo analizzare trova un’applicazione che definirei estrema per quel suo contenuto iperanalitico, tale da apparire quasi ironica.
Di quella “prima impressione”, di cui si diceva, ho trovato conferme nella Nota introduttiva a “L’uomo senza qualità” (USQ), in cui Cesare Cases, che ne è autore, scrive:
“Divenuto ingegnere Musil fu per un anno (1902-903) assistente al politecnico di Stoccarda. Qui gli passò l’entusiasmo per il mestiere di ingegnere e il desiderio di precisione venne a investire piuttosto il mondo dei sentimenti e dei pensieri, la loro “vivisezione”. Forse già nel 1898 (ma probabilmente qualche anno più tardi) scrisse quelle pagine autobiografiche intitolate Monsieur le vivisecteur in cui è possibile discernere il primo germe dell’USQ. Il termine “vivisezione” è di Nietzsche, che insieme a Maeterlinck e a Emerson gli serve in quegli anni da contrappeso al razionalismo ingegneresco. E a Stoccarda, per sfuggire “letteralmente alla noia”, come dirà egli stesso, egli cominciò il suo primo romanzo I turbamenti del giovane Törless.” (C. Cases – Nota introduttiva in R. Musil – L’uomo senza qualità – Vol. 1° – Einaudi – 1979 – pg.XII).
Possiamo quindi cominciare ad acquisire che quel contenuto basato sul pensiero a cui facevo cenno in apertura è svolto da Musil come una vera e propria indagine, ai limiti del chirurgico, sulla psiche, sui processi mentali e sui sentimenti di T., il che, per contro, dal punto di vista letterario, non inficia e non mortifica in alcun modo la bellezza espressiva, l’eleganza della prosa, l’ evocatività delle immagini, delle metafore e dei simboli che fanno del T. quel grande romanzo che è, costituendosi, in tal senso, come un raro esempio di equilibrio e compenetrazione tra speculazione e letteratura.
Interrogato dal direttore e dagli altri componenti del corpo insegnante sui fatti accaduti nel collegio che T. frequenta e che lo hanno visto coinvolto, T. fa una confessione sconvolgente – in quanto riportata con “parole e similitudini, molto sproporzionate all’ età di Torless” – con cui egli descrive, ai suoi “stupiti” interlocutori, non fatti e vicende ma aspetti della sua vita psichica, sue idee sui pensieri, elaborazioni della sua mente, e, in particolare, a un certo punto afferma: “io ho in me qualcosa di oscuro che non posso misurare razionalmente, una vita che non può essere espressa con le parole e che tuttavia è la mia vita…”
Questa affermazione contiene, come un distillato, il senso più profondo e cruciale di tutto il T. L’impossibilità di dire e di dirsi che esprime T. è infatti la base stessa dei suoi turbamenti, segna quella linea di demarcazione che attraversa come una ferita e una lacerazione infinitamente aperte l’esistenza psichica, fisica e mentale di T. E’ la consapevolezza non risolvibile di una scissione tra una cosa definibile cioè la ragione e un’altra cosa che c’è ma che è impossibile definire, tanto che T. dirà subito dopo: “Ora so che le cose… continuerò a vederle ora in un modo e ora nell’ altro, ora con gli occhi della ragione ora con quegli altri occhi…”. Di fronte a “gli occhi della ragione” T. non è in grado di collocare una corrispondente definizione e, soprattutto, non è in grado di trovare una parola che stia sullo stesso piano, alla pari, sulla stessa frontalità di ragione. T. sembra come affacciato sul bordo di un abisso, su una cavità oscura di cui sente la presenza e l’esistenza, che ha una sua forza e un suo potere su di lui ma che non sa che cosa sia, a quale ordine di spiegazione sia riconducibile.
Ma quel vuoto su cui si affaccia T. non è solo la dolorosità della vita psichica interiore è ben altro, è la conseguenza dell’inesistenza di una parola pronunciabile, di una parola in grado tradursi in un segno intellegibile, capace di rappresentare tutto ciò che la vita è, di riprodurre e fissare la cristallina purezza di quello che sentiamo. E’ come se i significanti fossero assi più potenti, plurimi e variegati dei significati che siamo in grado di attribuire e coniare. Il tesoro che il pescatore porta a galla – nella bellissima metafora utilizzata da Musil facendo ricorso, in apertura del T., ad una citazione di Maeterlinck – non è più lo stesso tesoro che egli aveva scorto nella profondità del mare, il quale in quella profondità continua a brillare immutato, ma, allorché è nelle nostre mani, appare solo fatto di “pietre false e frammenti di vetro” perché, dice Maeterlinck: “noi svalutiamo le cose appena le pronunciamo”.
Non c’è modo, in sostanza, che si riesca a fare emergere la totalità, ci sarà sempre uno scarto incolmabile che può arrivare ai limiti dell’afasia fra quello che sentiamo e quello che esplicitiamo, fra quello che percepiamo e quello che diciamo, fra quello che i nostri occhi vedono e quello che riusciamo a raccontare e a dimostrare di ciò che essi hanno visto. La parola che portiamo a galla, l’espressione, viene quindi da un fondo, da un buco indefinibile e non circoscrivibile, che ribolle in noi, ma di cui non riusciamo né a darne, né a farcene una ragione, la quale ragione, torna ancora una volta nel discorso ma in tutta la sua debolezza.
E qui si tocca da vicino la grandezza di Musil e si capisce perché lo si consideri uno dei grandi introduttori del ‘900. La scena quasi surreale in cui T. di fronte al direttore e agli altri insegnanti, tutti molto più grandi di lui, si erge maestoso, al punto che Musil dirà proprio queste parole: “Stava molto eretto, fiero come se il giudice fosse lui, e guardava diritto davanti a sé. Al di là degli uomini che aveva di fronte; non aveva voglia di vedere quella ridicola assemblea” ci illumina della rottura che Musil stava compiendo con il T., innovando il pensiero del suo tempo. Il professore di religione con il suo concetto di anima, la difesa d’ufficio dei concetti matematici da parte del professore di matematica, lo stesso direttore che taccia T. di fare una “discussione filosofica”, palesano tutta la loro inadeguatezza, costretti a confrontarsi con una sfuggevolezza concettuale inclassificabile che appare loro stordente e quasi eversiva in quanto non contempla più la possibilità di affermazione di un Io ordinatore e unificante, affermandosi al contrario la sua precarietà.
Ma questa indicibilità insita nel dire rimanda ad una irraggiungibilità delle cose che sono dentro ma anche di quelle che sono fuori di noi. La scena di T. che nello squarcio apertosi nel cielo slancia lo sguardo nel buco azzurro che gli appare fra gli orli di nuvole che lo delimitano e tenta di appropriarsi e di definire quell’ esperienza attraverso l’inutile evocazione de “L’infinito!” ripropone l’inadeguatezza del rapporto tra esperienza e sua dicibilità: “le parole non dicevano niente, o piuttosto dicevano tutt’ altro, come se parlassero, si, dello stesso argomento, ma lo prendessero da un altro lato, estraneo e indifferente” e quell’ infinito che: “Stava lassù, in quel cielo, vivo e minaccioso e sogghignante” nella sua sfuggente inappropriabilità suscita a T. uno sgomento e un timore – “di colpo, gli balenò che in quella parola v’era qualcosa di terribilmente inquietante” – che esprime tutta la indefinibilità del vuoto e l’indimostrabilità de l’infinito.
E, infine, lo scacco della pulsione. Anche qui T. nel suo inventario esistenziale deve constatare una scissione che, in questo caso è fra il suo Io e la sua pulsione e tanto più tenta di ricomporla e tanto più gli sfugge. L’esperienza erotica di T. con Basini sarà per T. un’esperienza dolorosa e conflittuale, segnata da attrazione/repulsione, intimità e vergogna, perché ancora una volta non vi è espressione atta ad esplicitare e chiarire, capace di fare una stabile sintesi del sentimento: “ciò che in un momento sperimentiamo indivisibilmente e senza problemi diventa incomprensibile e confuso appena tentiamo di avvincerlo con catene di pensieri e farne un possesso permanente”.
Ma la pulsione in questo romanzo non è solo quella erotica di T., ma è anche quella violenta e bestiale agita da Reiting e Beineberg contro Basini, fatto da loro oggetto di umiliazioni fisiche e psicologiche inumane, a cui T. si ribellerà, prendendone le distanze e aiutando a suo modo Basini. Ma il cupo contenuto di follia che quelle umiliazioni manifestano è intuito da T., tanto più in quanto, viste da fuori, gli appaiono ancor più estranee e mostruose, non sorrette da un significato che gli dia un senso.
Ma qui più che mai, visti gli esiti storici che le cupe manifestazioni di follia insite nella violenza volta a umiliare e degradare l’altro hanno avuto, come circoscrivere con le parole quel cupo contenuto di follia, qual è la verità che nasconde, chissà a quale profondo recesso della mente umana bisogna attingere per dichiararne l’identità. E ancora una volta la natura, in questo caso umana, rivela tutta la sua inesplicabilità ad essere detta e pronunciata.
Ecco la recensione del mio amato Törless! Questo romanzo mi è rimasto così impresso che appena concluso ho cercato un sacco di recensioni su internet… Va beh niente da fare, questo libro mi ha sconvolto e basta (grazie Musil!), ma la tua recensione è una delle migliori (se non la migliore) che abbia letto.
Ciao Raffaele e grazie per avermi fatto conoscere il tuo interessantissimo blog.
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Grazie Federica per i tuoi gentilissimi e graditissimi apprezzamenti per la recensione e per il blog.
Condivido pienamente il tuo entusiasmo e la tua ammirazione per la grandezza di Musil e per la bellezza del “Törless”.
Non a caso Musil, insieme a Kafka, a Joyce e a Proust è considerato il fondatore della letteratura del ‘900, cioè della letteratura moderna.
Musil è stato un grandissimo precorritore dei tempi, tanto da apparire, rispetto ai suoi tempi, un “inattuale”, perché anticipa con lucidissime intuizioni temi che non erano stati neanche ancora pensati.
Se si considera che il “Törless” è del 1906 si resta esterrefatti di come già allora egli affrontasse quei temi.
E gli “inattuali” sono i veri grandi innovatori.
Se vai a Klagenfurt (in Carinzia, non lontano dal confine con l’Italia) che è la sua città natale, proprio di fronte alla stazione c’è un museo che prende il suo nome, dedicato a lui e a Ingeborg Bachmann sua concittadina oltre che, anche lei, grandissima poetessa e scrittrice ed è molto bello da visitare perché raccoglie un sacco di materiale, notizie e foto su di lui e sulla sua opera.
Grazie ancora e, quando vuoi, sei sempre graditissima ospite.
Ciao
Raffaele
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Grazie, ne te terrò presente. Nel caso mi trovassi da quelle parti andrò volentieri a visitare il museo.
Ciao
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