“La casa deserta” – Lidija Čukovskaja – Seconda parte

Sin dall’inizio appare il profondo legame che Olga Petrovna, la protagonista de “La casa deserta”, ha con suo figlio Kolia. Rimasta improvvisamente vedova di Fiodor Ivanovic, uno stimato medico, Olga Petrovna decide di cercarsi un lavoro e ciò, soprattutto, per garantire a Kolia di proseguire i suoi studi, consentendogli di superare l’esame di ammissione all’ università, nella prospettiva di poterla poi frequentare regolarmente fino al suo completamento. Ma Olga Petrovna che, fino a quel momento, non solo non aveva lavorato ma non possedeva neanche un qualche tipo di “mestiere” si rende conto che le è necessario impararne al più presto uno. Così decide di iscriversi a un corso di dattilografia sentendosi portata per quel tipo di lavoro e infatti “Diplomatasi con la migliore qualifica, ben presto si impiegò in una grande casa editrice di Leningrado”.

Olga Petrovna affronterà quella nuova esperienza con passione e impegno, dedicandovisi con tutta se stessa, al punto da emergere “…per la sua diligenza”, venendo “…in breve tempo nominata prima dattilografa, qualcosa come capo dell’ufficio copia”. Da quel lavoro ella trae quindi non solo il necessario per il mantenimento suo e di suo figlio, ma anche apprezzamenti e gratificazioni, venendole riconosciute competenza, dedizione e autorevolezza. E, fra le sue colleghe, tenderà a familiarizzare con quelle più simili a lei sul lavoro ed, in particolare, con una di esse, Natascia Frolenko, “…una ragazza modesta, bruttina”, ma che, come Olga Petrovna, brillava per la sua bravura, giacché, anche nel suo caso, “…tutto il suo segreto…stava unicamente nella sua diligenza.”

Emerge quindi, sia nel caso di Olga che in quello di Natascia, questa loro diligenza e dedizione, questo loro essere precise e irreprensibili, scrupolose e oneste, abituate a comportarsi in modo trasparente e diretto senza altri fini se non quello di svolgere in modo responsabile e “generoso” il proprio lavoro. Questo aspetto della limpidezza e chiarezza dei propri comportamenti, così come testimoniato dal comportamento lavorativo di Olga e Natascia, costituirà un evidente spartiacque, un discrimine palese rispetto al sistema manipolatorio, incentrato sulla macchinazione, messo in atto dagli apparati del Partito, sia da quelli interni al loro posto di lavoro che da quelli esterni, nelle loro varie ramificazioni, con cui Olga e Natascia si troveranno a doversi confrontare in modo via via sempre più devastante.

Un sistema basato sull’arbitrio e sulla sopraffazione, su modalità umilianti e spregevoli, in cui il rispetto della dignità e della stessa vita umana si riveleranno, come vedremo, del tutto assenti. In tal senso Olga Petrovna coglierà subito, d’istinto, un segnale, un’ anomalia, presente all’interno del suo ufficio, nella persona del “…capocellula del Partito, Timofeiev, uno zoppo, mal rasato. Era un uomo tetro, parlava guardando per terra, e Olga Petrovna lo temeva alquanto”. Ma Olga, pur facendo parte “…di quei lavoratori della casa editrice non iscritti al Partito”, è comunque ben vista e conosciuta da tutti, al punto che, un anno dopo la sua assunzione, le viene affidato, dalla cellula del Partito, il compito di pronunciare un intervento a nome di tutti i non iscritti, in occasione della visita di “…certi importanti compagni moscoviti”. Vi è quindi, fino a quel momento, una convivenza tra le diverse anime di chi lavora lì dentro, anche per merito del direttore di quella casa editrice, un uomo giovane, affabile, gradito e gradevole, che Olga ammirava e “adorava in segreto”.

Ma, più in generale, vi è, collettivamente, un’accettazione del “sistema” generatosi con la Rivoluzione, un “sistema” che si è ormai attuato ed è penetrato nella vita delle persone e nella realtà delle cose. Un’accettazione delle sue regole e delle sue logiche, laddove le rinunce, le perdite, le limitazioni, rispetto a quella che era la propria libertà e la propria condizione personale, costituivano un dato di fatto. E ciò in nome di una fiducia verso quel “sistema”, e in nome dei fini superiori di giustizia e di eguali condizioni per tutti che esso propugnava e si prefiggeva di garantire. Così, per esempio, Natascia Frolenko che pure “…simpatizzava col regime sovietico, quando aveva fatto domanda per entrare nel Komsomol [l’Unione della Gioventù Comunista] non era stata accettata”. Questo perché suo padre era stato un colonnello zarista e proprietario di una casa e ciò deponeva negativamente sul fatto che Natascia sarebbe potuta “…essere una sincera simpatizzante”. E sebbene molto dispiaciuta Natascia non si contrapporrà a tale assurda decisione, trovandovi persino una sua logica: “ Da un punto di vista marxista, forse è anche giusto”, ella dirà ad Olga.

A sua volta, a quest’ultima, era stato requisito, sin dal 1918, cioè “…proprio all’inizio della Rivoluzione” il suo appartamento, in quanto appartamento borghese composto di più stanze. Al fine di suddividerlo con altre due famiglie che vi erano venute ad abitare: “Nell’antico studio di Fiodor Ivanovic si era installata la famiglia dell’agente di “milizia” Doroshko, nella sala da pranzo la famiglia di un ragioniere”. E, ad Olga e Kolia, era rimasta in uso solo “…l’antica camera da bambino di Kolia”, il quale, ormai grande, adesso avrebbe avuto bisogno di una stanza per sé. Ma Kolia stesso – con la madre, che si lamenta per quella situazione – difenderà quella scelta “rivoluzionaria”, inducendo anche la madre a condividerne il principio di “giustizia” in esso insito: “<<Ma, mamma, era forse più giusto che Doroshko e i suoi figli abitassero in uno scantinato? E noi in un bell’appartamento? Era forse giusto? Rispondi!>> le chiedeva severamente Kolia, spiegando ad Olga Petrovna il significato rivoluzionario della requisizione degli appartamenti borghesi. E Olga Petrovna doveva convenire con lui: “Questo non sarebbe davvero del tutto giusto.”

Vi è quindi una “tenuta” di quel “sistema”, imposto dal regime in nome della Rivoluzione, a cui si “crede” facendosi forti del valore morale insito in quelle restrizioni individuali subite in nome di quelle collettive. Sviluppando modalità adattive per convivere con quelle regole che costringevano a sopportazioni di vario tipo, anche in casa propria e, tutto ciò, perché convinti che un generale principio di rispetto e universalità delle regole desse a tutti certezze e uguali opportunità. E tali restrizioni erano a loro volta incanalate dentro una modalità coagulante che finiva per tenere insieme tutto. Una modalità che i singoli, consciamente o inconsciamente, avevano introiettato che era quella della disciplina. La quale veniva alimentata dal Partito, onnipresente attraverso le sue ramificazioni, che erano volte a costruirne il culto e a radicarne il legame.

Come in occasione di quell’ 8 marzo quando Olga Petrovna ricevette “…un cestino di fiori. Tra i fiori c’era un biglietto: <<Alla zelante lavoratrice non iscritta al Partito, Olga Petrovna Lipatova, con i migliori auguri per l’8 Marzo. La Cellula di Partito e il Comitato Sindacale.>> Ella mise i fiori sulla scrivania di Kolia, sotto il ripiano con le opere di Lenin, vicino al piccolo busto di Stalin. Per tutta la giornata si sentì un gran calore nell’animo. Decise di non gettare via quei fiori quando fossero appassiti, ma di farli senz’altro seccare e di riporli in un libro, come ricordo.”

E quella pervasività e predominanza del Partito agirà anche in relazione a Kolia che, felicemente dedito ai suoi studi di Meccanica nel relativo istituto universitario e già impiegato come disegnatore in un ufficio progetti, viene, insieme al suo miglior amico e compagno di studi Aleksandr Finkelstein, spedito, all’improvviso, in una fabbrica in un’altra città: “...eccellenti allievi, Nikolai Lipatov e Aleksandr Finkelstein erano stati mandati, in virtù di chissà quale speciale assegnazione, a Sverdlovsk, nella fabbrica Uralmash, come capireparto. Laggiù scarseggiavano di tecnici. Da parte sua l’ Istituto offriva loro la possibilità di terminare gli studi per corrispondenza.”

La partenza di Kolia spinse ancor più Olga Petrovna a pensare a lui, dedicando ancor più tempo al lavoro così da poter disporre di più denaro per acquisti e spese destinate a Kolia. Olga aveva accettato quella decisione, unilaterale e piovuta dall’alto, in nome di quello spirito di patria che ella provava e che le rendeva piacevoli quelle “nuove canzoni”, allora in voga, come quella che aveva per titolo:“Quando il paese ordina di essere un eroe”. Insomma a Olga “…piaceva la parola “Patria”. Quella parola scritta con la lettera maiuscola le infondeva nell’animo un senso di dolcezza e di solennità”.

L’accettazione dello stato delle cose resta quindi per Olga incrollabile, anche di fronte a quell’allontanamento di Kolia avvenuto senza alcuna attenzione alle sue esigenze. Ed era stato così anche per Kolia il quale aveva accettato quella decisione senza discussioni, pronto a prestarsi per quell’incarico senza remore. Come confermeranno i successi che egli ben presto raggiunse nella nuova fabbrica alla quale era stato destinato: ”Nikolai sta elaborando con successo un procedimento di fabbricazione delle frese di Fellows nel nostro reparto utensili. Di lui, nel comitato di Partito dello stabilimento, si dice che è una futura aquila sorgente”, scriverà il suo amico, Aleksandr Finkelstein, in una lettera indirizzata a Olga. E Kolia porterà a compimento con successo quel suo progetto, tanto da spedirne orgogliosamente il primo esemplare alla madre: “Mammina ti mando il primo pignone intagliato con la fresa di Fellows fabbricato nel nostro stabilimento, secondo il mio procedimento”. E persino la “Pravda”, l’organo del Partito Comunista, metterà Kolia in prima pagina con tanto di foto e, “…sotto la foto c’era scritto: <<Il lavoratore entusiasta…Nikolai Lipatov, che ha elaborato un procedimento di fabbricazione delle frese di Fellows nello stabilimento di costruzioni meccaniche degli Urali>>” .

Siamo all’inizio del ’37 e tutto, fino a quel momento, sembra andare per Olga per il meglio. Senonché, nel bel mezzo della festa di capodanno, organizzata in ufficio, un collega si avvicina a Olga e le comunica “…una terribile notizia: in città erano stati arrestati numerosi medici…Fra gli arrestati…anche il dottor Kiparissov, che era stato collega del marito e padrino di Kolia. <<Come? Il dottor Kiparissov?…Non è possibile! Cos’è successo?…>> chiese Olga Petrovna”. Ma sarà proprio a partire da quel momento che la vita di Olga cambierà e, insieme alla sua, quella di molte altre madri e mogli.

Il clima è infatti cambiato, “Con molta insistenza si parlava ormai da ogni parte di spie fasciste, di terroristi, d’ arresti…In gennaio i giornali cominciarono a pubblicare articoli su un nuovo processo”. E infatti alla fine di gennaio del ’37 si svolgerà il secondo “grande processo” detto dei “Diciassette”, tanti erano infatti gli imputati, tredici dei quali saranno condannati alla pena capitale e giustiziati. Questo processo aveva fatto seguito al primo “grande processo”, detto dei “Sedici” nel quale, tra gli imputati, vi erano Kamenev e Zinoviev, indicati da Lenin nel suo testamento, con Bukharin, Trotski e Stalin come suoi possibili successori, che si era svolto ad agosto del 1936 e, al termine del quale, tutti gli accusati erano stati condannati alla fucilazione.

E, nel contesto di questo clima, iniziano a susseguirsi gli arresti: “Una dattilografa, appena tornata da una casa di vacanza, raccontò in ufficio che nella stanza vicino alla sua alloggiava un giovane ingegnere…Una notte, d’improvviso, arrivò una macchina e lo arrestarono. S’era scoperto che era un sabotatore. A vederlo sembrava così per bene…Nessuno l’avrebbe mai detto…Anche nella casa di Olga Petrovna, nell’appartamento di fronte al suo, avevano arrestato qualcuno, un comunista. Avevano sigillato la sua stanza con ceralacca rossa”.Il clima intorno ad Olga e per Olga si fa via via più cupo e il romanzo piomba progressivamente in un’atmosfera opprimente.

L’ idea del complotto orchestrato da “nemici del popolo“, il cui fine era sovvertire il regime agendo disonestamente e crudelmente viene alimentata e diffusa dal Partito. E tale “propaganda” prende piede tanto che persone come Olga e Natascia convintamente e in buona fede vi credono: “La sera Olga Petrovna… leggeva il giornale a Natascia…erano indignate tutte le persone oneste. Sui treni fatti deragliare dai sabotatori potevano esserci dei bambini ! Che crudeltà ! Mostri ! Non per niente i trotskisti erano strettamente legati alla Gestapo”. Ma anche sui luoghi di lavoro si procede a “dettare la linea” imponendola con modalità minacciose e agendo d’ autorità: “Dappertutto, in ogni impresa e in ogni azienda s’organizzavano riunioni, ed anche nella loro casa editrice ve ne fu una… La responsabile del comitato sindacale passò in anticipo in tutti gli uffici e avverti’ che se ci fossero stati degl’incoscienti che volevano andare via prima della riunione, sapessero costoro che la porta d’ uscita era chiusa a chiave. Alla riunione vennero tutti, senza eccezione”.

Ma, soprattutto, si moltiplicano le epurazioni che avvengono in modo pretestuoso, basate unicamente sulla cultura del sospetto, alimentata e applicata in modo ossessivo e paranoico, come avverrà anche là dove lavora Olga: “Quindi la parola fu data alla responsabile del comitato sindacale…<<La notte scorsa è stata arrestato l’ ex capo della nostra tipografia, Kusmin,… S’è scoperto che è nipote di quel Kusmin di Mosca, smascherato un mese fa… Kusmin aveva continuato…a “lavorare” nella nostra tipografia anche dopo lo smascheramento di suo zio…>>.” Ma le epurazioni avvengono per lo più in modo inspiegabile, improvvise e repentine, come quella che colpirà persino il direttore della casa editrice, a tutti noto come un irreprensibile bolscevico, arrestato senza spiegazioni.

E di fronte a tutto ciò – che smarrisce e lascia increduli – persone come Olga e Natascia si aggrappano all’ idea che si tratti di equivoci che si chiariranno o di “tranelli”, quali l’ adescamento da parte di una donna, di cui il direttore poteva essere stato vittima, che l’ avrebbe circuito facendogli commettere qualcosa di “sbagliato”. Non vivendo in prima persona queste vicende Olga e Natascia continuano perciò a credere che vi sia una sostanziale fondatezza nell’ agire del Partito, il quale, suo modo, sarebbe in “buona fede”, non possedendo elementi sufficienti per poterne dubitare, come dirà Natascia ad Olga, a proposito del direttore. “<<Cosa sappiamo?>> replicò Natascia con foga. <<Sappiamo che era il direttore della nostra casa editrice e d’ altro, esattamente, non sappiamo nulla. Conosce forse la sua vita ? Può forse lei garantire la sua innocenza?>>”.

Ma tutto cambierà per Olga Petrovna (ma anche per Natascia) quando ad essere coinvolta sarà lei stessa allorché le verrà arrestato suo figlio Kolia, proprio là dove egli aveva sin lì lavorato con successo, essendo peraltro, come è noto, un fervente sostenitore del regime. E ciò, ovviamente, senza che se ne sapesse il motivo. La notizia gliela darà Aleksandr Finkelstein, l’amico e collega di Kolia: “D’improvviso uno squillo di campanello…Sulla porta stava Alek Finkelstein. Vedere Alek Finkelstein solo, senza Kolia, non era normale. <<E Kolia?>> gridò Olga Petrovna, afferrando Alek per l’estremità della sciarpa…<<Sssst!>> disse Alek, <<Andiamo nella sua stanza>>…Olga Petrovna lo seguiva inebetita. <<La prego, non si spaventi, Olga Petrovna…non è davvero il caso di spaventarsi…Insomma, prima dell’ultimo giorno di riposo…hanno arrestato Kolia.>> Alek si buttò sul divano, con due strattoni si liberò della sciarpa, la scagliò per terra e scoppiò in pianto.”

Da quel momento l’ esistenza di Olga si trasformerà in un incubo e inizierà per lei una vera e propria odissea. Già solo per riuscire a sapere qualcosa di quell’ arresto si dovrà assoggettare a una penosa e umiliante prassi: “I suoi giorni e le sue notti li passava ora non più a casa e in ufficio, ma in una sorta di mondo nuovo: le code”. E il racconto di queste “code” e di ciò che esse rappresentavano in termini di abbrutimento fisico e di disumanità per coloro che le dovevano fare è sicuramente uno dei temi centrali e più angoscianti de “La casa deserta“. Queste “code” erano infatti la tragica condizione a cui erano costrette moltissime donne che cercavano disperatamente di avere, da una burocrazia ostile che, di fatto, si negava, notizie dei loro mariti e figli scomparsi, cercando, in qualche modo, di aiutarli.

Tale realtà di cui sarà vittima Olga è così raccontata dalla Čukovskaja: “Sapeva già, [Olga,] uscendo di casa dopo un breve sonno, che sulla via, sulla scala, nel corridoio, nella sala di via Čaikosvkij, sul lungofiume, alla procura, ci sarebbero state donne, donne, donne, vecchie e giovani, con scialli e con cappelli, senza bambini e con bambini di pochi anni o ancora lattanti, bambini che piangevano per la stanchezza e donne affrante, spaventate, taciturne”. E di tale realtà ne darà un’ altrettanto precisa e terribile descrizione anche Aleksandr Solženicyn in “Arcipelago Gulag”, quando scrive: “…in quel mondo vagavano, smarrite e accecate, milioni di donne alle quali era stato strappato e portato nell’Arcipelago il marito, un figlio, il padre. Erano le più spaventate di tutti, avevano paura delle insegne luminose, delle porte degli uffici, delle suonerie telefoniche, dei colpi ad una porta, temevano il postino, la lattaia, l’idraulico…Facevano la coda davanti alle prigioni, si recavano a cento chilometri di distanza perché correva voce che là accettavano pacchi. A volte morivano prima del detenuto.” (A. Solženicyn – “Arcipelago Gulag” – Oscar Mondadori – Volume secondo – pg. 659)

Lì per lì Olga si illude ancora che possa trattarsi di un “mostruoso equivoco”, che certe cose non possono avvenire nel suo Paese. Ma ben presto sarà risucchiata in quell’ allucinante trafila delle ricerche ed inizierà anche per lei quel calvario fatto di desolanti attese, da un ufficio all’altro, da un funzionario reticente all’altro, da una fila interminabile all’altra, con il gelo o sotto il sole, per mesi. Solo per avere una sia pur minima notizia di Kolia, dov’è, come sta.

Ed è, questo dell’attesa, insieme a quello del totale disincanto e della conseguente disperazione, il tema che fa di questo romanzo non solo una testimonianza ma anche una descrizione potente di che cosa possono diventare l’esistenza e la condizione umana. Quel diventare appunto ostaggio non solo del Partito, del potere, del sistema, ma dell’attesa in sé. Un’attesa di fatto impersonale e senza volto con la quale non si può interagire. Una costrizione che annichilisce, della quale si è prigionieri e contro la quale è impossibile combattere. Una kafkiana impotenza dominerà infatti, da lì in poi, la vita di Olga e di quelle donne che, come lei, tentano di avere e darsi una speranza che però viene loro sistematicamente distrutta e negata. “Passarono cinque mesi dal giorno dell’ arresto di Kolia; l’ inverno aveva già ceduto alla primavera e la primavera a un giugno spietatamente afoso, ma Kolia non c’ era ancora. Olga Petrovna era esausta per l’ afa, l’ attesa, le code notturne.”

E’ una generale condizione di ingiustizia – che si manifesta in modo assurdo e persecutorio – quella che Olga Petrovna sperimenta ormai in tutti gli ambiti della sua vita. Anche nel suo ufficio, nel quale la direzione è stata assunta da Timofiev, il capocellula del Partito, si affermano mediocrità e soprusi. Viene arbitrariamente licenziata la sua amica e collega Natascia Frolenko, colpevole – a causa di un veniale errore di battitura: aveva scritto Armata Rissa invece di Rossa – di “mancanza di vigilanza politica“. Così come viene licenziata la segreteria dell’ ex direttore, in quanto e solamente, perché era stata la sua segretaria. Mentre chi si rivela asservito e prono viene promosso e tenuto in considerazione anche se senza merito e meriti, anzi proprio per la sua pochezza e bassezza. Anche Aleksandr Finkelstein sarà “perseguito”. Rifiutatosi infatti di rinnegare la sua amicizia con Kolia verrà espulso dal Komsomol e licenziato. E sia per lui che per Natascia Frolenko si rivelerà impossibile trovare un nuovo lavoro date le modalità “stigmatizzanti” con cui erano stati licenziati.

E’ quindi questa la situazione, una situazione a dir poco raggelante, quella che Olga Petrovna sente e registra intorno a sé. Tutte le vicende che la coinvolgono e le loro modalità appaiono infatti inquietanti e oscure, come muri che si ergono, invalicabili e impenetrabili. E’, di fatto, vivere in una condizione di pericolo e di paura costanti. Perché non si hanno più punti di riferimento, non sai cosa ti può accadere e cosa può accadere. Illazioni, accuse, sospetti, non sorretti da alcunché di valido, formano un insieme colloso e inestricabile, come una rete nella quale, senza sapere il perché e il come, si può finire catturati e fatti prigionieri. Capacità, meriti, diligenza, onestà, correttezza – di conseguenza – perdono qualsiasi valore. E l’ avere manifestate e dimostrate in vari modi e momenti della propria vita le proprie qualità morali e intellettuali finisce per non avere più alcuna importanza di fronte alla “disciplina” imperante che vuole che si sia ciecamente e totalmente “complici” di quel sistema, rendendosi suoi servi ed aguzzini. Alla faccia della “legalità rivoluzionaria” come recita beffardamente quel cartello che Olga legge negli uffici del Procuratore presso cui finalmente è stata ammessa per avere notizie di Kolia: “… accanto alla parete, un grande cartello: ” In alto la bandiera della legalità rivoluzionaria””.

La tecnica è quella di separare, isolare, allontanare le persone tra loro impedendo di poterne conoscere i destini e le esistenze, conducendole ad una scomparsa reciproca, ad una condizione di inesistenza che contiene implicita l’ idea della morte. Così quando Olga incontra, in quella ennesima fila presso il Procuratore, la moglie dell’ ex direttore, il quale è stato condannato a dieci anni di campo, mentre la moglie dovrà andare, a sua volta, a vivere in un lontano villaggio nel Kazakhstan, Olga scoprirà l’ esistenza di quel destino che conduce al “perdersi di vista”: “<<E dove hanno mandato suo marito?>> chiese Olga Petrovna. <<Come faccio a saperlo? Crede forse che lo dicano?…>> <<Ma allora poi, fra dieci anni quando sarà liberato come farete a ritrovarvi? Lei non conoscerà l’ indirizzo di lui, nè lui quello di lei…Vi perderete entrambi di vista.>>

Ma Olga – che si ostina e si illude di poter ancora uscire da quell’ incubo, convinta che la vicenda di Kolia si chiarirà e che egli “non sarà mandato“, giacché “Lo hanno arrestato per errore” – constaterà, sgomenta ed incredula, che non solo Kolia era stato già “mandato”: “Dieci anni di campo lontano” le comunicherà sbrigativamente e brutalmente il Procuratore, ma che Kolia aveva ammesso lui stesso di essere colpevole: “<<Suo figlio ha confessato i propri crimini. Il verbale porta la sua firma. E’ un terrorista e ha preso parte ad un atto terroristico. Capito?>>”. Senza poter sapere ovviamente nulla su dove Kolia si trovasse.

Inizierà da quel momento per Olga una parabola discendente lungo un piano inclinato che la porterà a perdere ogni ancoraggio con quella che era stata sino ad allora la sua vita. In ufficio viene fatta oggetto di un esplicito atto d’ accusa, affisso pubblicamente sul giornale murale, solo perché era stata amica di Natascia Frolenko e l’ aveva difesa. Nel frattempo viene arrestato Aleksandr Finkelstein. Sul lavoro Olga è ormai isolata: “Sul lavoro non parlava più con nessuno…E nessuno parlava più con lei”. Sentendosi in pericolo decide di licenziarsi prima di venire licenziata: “Olga Petrovna firmò la lettera. Lei stessa aveva già pensato di andarsene. Ormai nella casa editrice cominciava ad avere paura… L’ indomani entro nello studio del direttore e senza una parola depose la lettera… Timofiev la lesse e, anch’egli senza una parola, annuì. Il licenziamento fu regolato con rapidità inconsueta. Due ore dopo, l’ ordine era già esposto sulla parete del corridoio, e dopo tre il capo contabile le aveva già consegnato l’ intera liquidazione”.

Ma i dubbi su tutte quelle confessioni di crimini, ottenute dagli inquirenti di regime, cominciano a farsi strada: “Come si è potuto confondere Kolia a tal punto, da fargli confessare delitti che non ha mai commesso?..E come mai tutti confessano? …a tutte le mogli dicono che i loro mariti hanno confessato. Hanno confuso tutti?”, dirà Natascia a Olga. Perché Natascia lucidamente e tragicamente aveva capito e avendo capito aveva sentito tutta l’ insostenibile pesantezza di quella situazione: <<Cara Olga Petrovna>> – scriverà Natascia ad Olga – <<… ormai non sono utile a nessuno. Per me è meglio così. Forse tutto si accomoderà nel modo giusto e Kolia tornerà a casa, ma io non ho la forza di aspettare che tutto si accomodi. Non arrivo più a comprendere l’ attuale fase del regime sovietico. Ma Lei mia cara deve vivere…>>“. Natascia Frolenko si toglierà la vita avvelenandosi: <<Frolenko Natalia è deceduta oggi alle quattro del pomeriggio, senza avere ripreso conoscenza>> diranno ad Olga in ospedale.

Nei posti di lavoro in cui Olga si presenta, scoperto che aveva dei parenti arrestati, immediatamente risulta che non c’è più nessuno posto in organico. Rimedierà un modesto impiego come avventizia in una biblioteca. La vita di Olga si svolge, ormai, nel timore generale per tutto ciò che la circonda: “Ora temeva tutto e tutti. Temeva il portinaio che le rivolgeva uno sguardo indifferente, eppure severo. Temeva l’amministratore dello stabile che le aveva tolto il saluto…Temeva di passare davanti alla casa editrice. Tornando a casa dopo i vani tentativi di trovare un impiego, temeva di trovarvi la convocazione del commissariato…Temeva ogni squillo di campanello“. Ed anche alzarsi al mattino le appare inutile venendo, anche fisicamente, segnata da ciò che le accade: “Non aveva più motivo di alzarsi. Non aveva voglia di vestirsi, di infilare le calze, di buttare le gambe giù dal letto. Il disordine nella stanza, la polvere non le davano fastidio. Tanto…Non sentiva fame. Stava distesa sul letto senza pensare a nulla, senza leggere nulla….I giornali le incutevano un orrore indefinibile…Di tanto in tanto gettava indietro coperte e lenzuolo e si guardava le gambe, enormi, gonfie, come fossero riempite d’ acqua”

Intanto è trascorso un anno dall’ arresto di Kolia e Olga comincia a chiedersi se Kolia è ancora vivo: “Da un anno ormai non sapevo dove fosse Kolia, cosa gli fosse successo. E se fosse morto? Avrebbe mai potuto pensare che sarebbe arrivato un giorno in cui non avrebbe saputo se Kolia fosse morto o vivo?” e, intanto, continua a scrivere lettere a Stalin: “Da quando avevano portato via Kolia, di lettere al compagno Stalin ne aveva già scritte tre”, alle quali, ovviamente, non era seguita alcuna risposta. E, rasentando ormai una sorta di follia, divenuta preda di vaneggiamenti, Olga arriva a convincersi che Kolia è stato rilasciato e che presto tornerà, al punto di comunicarlo ai suoi coinquilini, inventandosi l’ arrivo di una fantomatica lettera e una permanenza di Kolia in Crimea per riposarsi prima di fare rientro a Leningrado e, persino, un futuro matrimonio.

Ma una lettera, una vera lettera di Kolia arriverà e rivelerà quello di cui Kolia era stato sin lì vittima e di cui continuava ad essere vittima, chiedendo egli, in quella lettera, alla madre, di aiutarlo: “… l’ inquirente mi ha picchiato e calpestato…Ho scritto da qui molti ricorsi, ma tutti sono rimasti senza risposta. Scrivi tu nella tua qualità di vecchia madre, ed esponi nella tua lettera i fatti.”

Ma quell’ appello di Kolia resterà inevaso perché, come dirà ad Olga una persona fidata, scrivere un ricorso sarebbe stato assai peggio: “<<Non lo scriva per il bene di suo figlio. Con un ricorso del genere non la passerà liscia. Nè lei, né lui. E’ possibile scrivere che l’inquirente lo ha picchiato? Non si possono nemmeno pensare cose simili, altro che scriverle. Hanno dimenticato di mandarla al confino, ma se lei scrive il ricorso, se ne ricorderanno. E anche suo figlio lo cacceranno ancora più lontano…E poi, da chi è stata portata questa lettera? E i testimoni dove sono?…E come fa a provarlo?…No, per amor di Dio, non scriva niente>>”

Ormai svuotata e abbandonata a sé stessa Olga Petrovna darà fuoco a quella lettera di Kolia e, con un gesto fatto di rabbia e di disperazione, la schiaccerà sotto i suoi piedi: “Olga Petrovna gettò la fiamma sul pavimento e la schiacciò col piede.” E così, come recita quell’ ultimo verso della poesia “Condanna” di Anna Akhmatova che Lidija Čukovskaja riporta alla fine del suo romanzo: “Questo dì chiaro e la casa deserta”, anche quella casa, la casa di Olga Petrovna, resterà deserta.

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