Ingeborg Bachmann – “Poesie” – Traduzione e Introduzione di Maria Teresa Mandalari – Guanda – 1978
In “Anselm”, il recente e bellissimo film di Wim Wenders su Anselm Kiefer, appare, nella parte finale del film, Ingeborg Bachmann che legge “Exil”/”Esilio”, una delle sue più belle poesie. Ciò mi ha indotto a rileggere “Esilio” e insieme ad essa le altre poesie della Bachmann contenute in questa raccolta, la quale comprende trenta poesie di Ingeborg Bachmann di cui quindici tratte dalla sua prima raccolta “Il tempo dilazionato” del 1953, undici dalla sua seconda raccolta “Invocazione all’ Orsa Maggiore” del 1956 e quattro “Poesie sparse” tra cui “Esilio”.
Di tale raccolta propongo, qui di seguito, una selezione, preceduta da una libera riduzione dell’ “Introduzione” di Maria Teresa Mandalari.
“Temperamento eminentemente lirico ma con supporto di forti componenti intellettuali, la poesia…costituisce [per Ingeborg Bachmann] non soltanto il suo trampolino di esordio come scrittrice ma altresì – il che più importa – addirittura il crogiuolo esclusivo, fin dagli inizi, di tutta la sua tematica e problematica…
Non ancora trentenne e già agguerrita letterariamente e speculativamente, Heidegger (come per tutta la sua generazione) ma più ancora Wittgenstein ne avevano formato l’intelletto, che in lei rimase guida preminente nell’imbrigliamento di una emotività e sensibilità vivissime ma decisamente labili, insicure. Ora la liricità della Bachmann prende – si potrebbe dire – addirittura le mosse da e su questa insicurezza di fondo, ma per una sempre rinnovata “vittoria” su di essa…
Wittgenstein l’ammonisce che <<di ciò di cui è impossibile parlare, bisogna tacere>>; mentre Heidegger…la conferma nella <<angoscia>> che ha segnato la sua oscura e disagiata adolescenza…Accomunata a Celan…[con il quale] i legami sono profondi e complessi, entrambi essendo originari di quell’area austro-absburgica in cui fermenta il senso di “confini” geografico-storico-esistenziali e della ineluttabile “fine” di un mondo. Padri spirituali…alla Bachmann se ne possono poeticamente riconoscere almeno due…Hofmannsthal e Rilke…
Ora, poiché la parola deve <<tacere>> davanti a <<a ciò di cui è impossibile parlare>>, lo strumento espressivo prescelto è la metafora: prospettata tuttavia non come mezzo (abusato) di estraniamento, bensì di approfondimento conoscitivo. Sulla qualità (talvolta) altissima delle metafore della Bachmann…molto si è dibattuto…perché la metafora bachmanniana riesce…a “realizzare“ poeticamente il non-esprimibile…
Se di contestazione e di protesta sociale deve parlarsi nel suo caso (<<poetessa rivoluzionaria>>, l’ha definita Mittner) occorre sempre escludere il puro fatto “formale” registrandone invece il movente, la spinta interna, la matrice conoscitiva. La poesia secondo lei deve essere <<tagliente di potenza conoscitiva e amara di anelito>>…
…la sua “protesta“ è indirizzata a riscoprire l’espressione di una realtà che, <<ridotta in formule>>,…non riesce più a <<esser detta>>, cioè individuata, definita, posseduta dal linguaggio. Si trattava – ha spiegato – di <<ristabilire un rapporto di fiducia tra l’io, il linguaggio e le cose>>…è tenacemente persuasa – da letterata prima che da poeta – che, a monte, la “rivoluzione” debba avvenire nel linguaggio…cercando di rinverginarlo e vivificarlo ex novo dall’interno nella sua più fonda, sensuale potenza, grazie ad una estrema vibrazione e tensione interiore. È questo il <<nuovo linguaggio>> ch’ella oppone alla montante marea di aridità e ottusità del mondo contemporaneo.
Estremamente combattiva e appassionata, sia nello sdegno provocatorio come nella sensibile ansia di vita,…[per la Bachmann] al poeta compete di <<di partire verso il futuro>>…La sua tematica sta quindi sotto il segno iniziale (e poi sempre mantenuto) della “partenza”, del “viaggio”, divenuti però sempre più frequentemente “fuga”…Le navi e le isole così frequenti nella sua lirica …cui fanno riscontro gli inquieti spostamenti e le fughe da situazioni, persone e paesi nella sua vita, costituiscono un chiaro modulo di indirizzo…
Ma il tema della “fuga” si allaccia – nella frequenza e nell’insistenza – a quello del “tempo”: storico-individuale e cosmico, entrambi ostili all’uomo…la perenne fuga della Bachmann è incalzata dal tempo, la cui inesorabilità ella teme (<<Col mio assassino, il Tempo, io sono sola>>) come teme la storia (“La nostra/divinità, la Storia, ci ha riservato un sepolcro/da cui non vi è risurrezione”)…
Fuga-tempo-storia si contrappongono con naturalezza agli altri temi essenziali della sua poetica: verità, bellezza e amore. Le poesie amorose della Bachmann sono state giudicate <<fra le più appassionate della lirica tedesca di oggi>> (Mittner)…Ma il suo discorso d’amore…parte sempre dalla irraggiungibilità della parola esatta: quindi da una incomunicabilità di fondo conseguente alla ineludibile carenza di “verità” e di “fiducia” nei rapporti umani.
L’amore è per lei – come la verità e la bellezza – un valore ideale, utopico nel senso etimologico, è un oracolo da interrogare e patire, con sospesa speranza, in una solitudine planetaria…nel perenne isolamento dell’io, inseguito e trascinato via dal tempo-storia come da un fiume ineluttabile.
Tuttavia nell’opera e nella vita della Bachmann la testimonianza ultima di questa poesia, così intimamente conflittuale (ed è la ragione prevalente del suo singolare fascino), non è già l’accettazione lamentosa e ambigua di una condizione: bensì volontà strenua, schietta di lotta e sofferta “pena di vivere” (<<questa enorme offesa ch’è il vivere>> ha detto una volta pubblicamente).
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Da “IL TEMPO DILAZIONATO”
II tempo dilazionato
S’avanzano giorni più duri
Il tempo dilazionato e revocabile
già appare all’orizzonte.
Presto dovrai allacciare le scarpe
e ricacciare i cani ai cascinali:
le viscere dei pesci nel vento
si sono fatte fredde.
Brucia a stento la luce dei lupini.
Lo sguardo tuo la nebbia esplora:
il tempo dilazionato e revocabile
già appare all’orizzonte.
Laggiù l’amata ti sprofonda nella sabbia,
che le sale ai capelli tesi al vento,
le tronca la parola,
le comanda di tacere,
la trova mortale
e proclive all’addio
dopo ogni amplesso.
Non ti guardare intorno.
Allaccia le tue scarpe.
Rimanda indietro i cani.
Getta in mare i pesci.
Spengi i lupini!
S’avanzano giorni più duri.
Tutti i giorni
La guerra non viene più dichiarata,
ma proseguita. L’inaudito
è divenuto quotidiano. L’eroe
resta lontano dai combattimenti. Il debole
è trasferito nelle zone del fuoco.
La divisa di oggi è la pazienza,
medaglia la misera stella
della speranza, appuntata sul cuore.
Viene conferita
quando non accade più nulla,
quando il fuoco tambureggiante ammutolisce,
quando il nemico è divenuto invisibile
e l’ombra di un riarmo eterno
ricopre il cielo.
Viene conferita
per la diserzione dalle bandiere,
per il valore di fronte all’amico,
per il tradimento di segreti obbrobriosi
e l’inosservanza
di tutti gli ordini.
[Da] Tema e variazione
Giù nel villaggio i secchi del cortile
erano vuoti, e pronti a rullare.
Il sole allora vi ha battuto sopra
e rullò morte.
Le finestre si son chiuse di botto,
le regine hanno trascinato via gli sciami,
e nessuno ha impedito loro di volare.
Le ha ospitate la campagna selvaggia:
l’albero cavo tra le felci
il primo stato libero.
Un pungiglione indolore ha colpito
l’ultimo essere umano.
In questa estate è mancato il miele.
Messaggio
Dall’atrio celeste, tepido di salme, spunta il sole.
Non gl’immortali sono lassù,
bensì i caduti, apprendiamo.
E lo splendore non si cura della corruzione. La nostra
divinità, la Storia, ci ha riservato un sepolcro
da cui non vi è risurrezione.
Nella bufera di rose
Ovunque ci volgiamo nella bufera di rose,
la notte è illuminata di spine, e il rombo
del fogliame, così lieve poc’anzi tra i cespugli,
ora ci segue alle calcagna.
[Da] Grande paesaggio nei dintorni di Vienna
Innumerevoli sono i prodigi dell’incredulità.
Un cuore persiste tenace a essere cuore?
Tu sogna di essere puro, leva la mano a giurare,
sogna il tuo sesso che ti vince, sogna eppure
respingi il distacco mistico nel contestare.
Con l’altra mano, fanno buona riuscita
cifre e analisi, che ti disincantano.
Ciò che da te ti separa, sei tu. Defluisci
e saggio poi torna, in una nuova labile forma.
Precede l’uragano il sole che fugge verso occidente:
due millenni sono trascorsi, e a noi non resterà nulla.
Il vento raccatta ghirlande barocche,
rotola per le scale la faccia del puttino,
bastioni precipitano dentro cortili in ombra
e giù dai canterani maschere e corone…
Sulla piazza soltanto, nel sole meridiano,
avvinta alla base della colonna, incline
all’attimo fuggente e alla bellezza votata,
mi separo dal tempo: un fantasma
tra fantasmi che avanzano.
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Da “INVOCAZIONE ALL’ORSA MAGGIORE”
[Da] Canti durante la fuga
I
La neve spezza il ramo alla palma,
le scalinate crollano,
la città giace rigida e scintilla
nell’estraneo lucore invernale.
Strillano i bimbi che a frotte
salgono la collina di fame,
mangiano farina bianca
e invocano il cielo intanto.
Il prezioso lustro invernale,
l’oro dei mandarini,
turbina nelle impetuose folate,
L’arancia sanguigna rotola.
II
Ma sola io giaccio dentro la morsa
del gelo, piena di piaghe.
La neve non è riuscita
ancora a bendarmi gli occhi.
I morti, stretti nel mio petto,
in tutte le lingue tacciono.
Nessuno mi ama, non agita
nessuno un lume per noi.
V
Via la neve dalla città densa di aromi!
che il sentore dei frutti le vie inondi.
Spargete l’uvetta,
recate i fichi, e i capperi!
Ravvivate l’estate,
ravvivate la circolazione,
nascita, sangue, sterco e rifiuti,
morte – incrudelite sulle cicatrici,
ricalcate
i solchi nei volti
diffidenti, pigri e antichi,
spruzzati di calce e intrisi d’olio,
astuti per traffici,
intrinsechi col rischio,
con l’ira del dio lavico,
con l’angelo fumo
e con la dannata vampa!
VI
Istruita nell’amore
da migliaia di libri,
ammaestrata nella trasmissione
di poco mutabili gesti
e di giuramenti stolti –
iniziata all’amore
però soltanto qui –
quando la lava è sgorgata
e il suo fiato ci ha colti
ai piedi della montagna,
quando alla fine l’esausto cratere
ha rivelato il segreto
a questi corpi serrati –
Penetriamo in ambienti stregati
e illuminiamo il buio
con la punta delle dita.
XII
Bocca, che ha pernottato dentro la mia bocca;
occhi, che hanno sorvegliato i miei occhi;
mano –
e come mi annientavano, quegli occhi!
Bocca che ha pronunciato il verdetto,
mano che mi ha giustiziata!
XIII
Il sole non scalda, senza voce è il mare.
Le tombe sono pacchi di neve, che nessuno scioglie.
Non vi è alcuno a colmare il braciere
di solida vampa? Ma, la vampa non basta.
Liberami! Non reggo a così lungo morire.
Il Santo ha ben altro da fare,
va intorno per la città, per il pane.
La corda del bucato è greve di panni:
cadranno presto. Ma, non mi copriranno.
Colpevole sono tuttora: risollevami.
Non sono colpevole: risollevami
Sciogli i ghiacciuoli dagli occhi gelati,
irrompi con i tuoi sguardi,
cerca gli abissi azzurri,
nuota, indaga, immergiti:
Non sono io.
Si, sono io.
XV
Ha un trionfo l’amore e la morte ne ha uno,
il tempo e poi il tempo seguente.
Noi non ne abbiamo.
Solo un declino di stelle vi è intorno. Splendore riflesso e
silenzio.
Ma il successivo canto oltre la polvere
alto su noi durerà.
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Da “POESIE SPARSE”
Corrente
Già così innanzi nella vita e prossima
alla morte, da non poterne disputare con nessuno,
strappo alla terra la mia parte:
trafiggo dritto al cuore il silenzioso oceano
col verde cuneo, e tutta mi inondo.
Si levano uccelli di stagno e odor di cannella!
Col mio assassino, il Tempo, io sono sola.
Ebbrezza e azzurro ci imbozzolano insieme.
Esilio
Un morto sono che cammina
non più dichiarato in nessun luogo
sconosciuto nel regno burocratico
in soprannumero nelle città dorate
e nelle campagne verdeggianti
liquidato da tempo
e di nulla munito:
se non di vento di tempo e di suono
chi tra la gente più vivere non può
Con la lingua tedesca
questa nube intorno
che tengo per dimora
mi aggiro in mezzo a tutti i linguaggi
Oh come essa si ottenebra
gocciano soltanto
i suoni bui suoni di pioggia
In più luminose regioni il morto poi essa solleva
A voi, parole
Per Nelly Sachs, l’amica, la poetessa, con venerazione
A voi parole, orsù, seguitemi!
Anche se già ci siamo spinti avanti,
fin troppo avanti, ancora si va
più avanti, si va senza fine.
Non vi è schiarita.
La parola
non farà
che tirarsi dietro altre parole,
la frase altre frasi.
Così il mondo intende
definitivamente
imporsi,
essere già detto.
Non lo dite.
Seguitemi, parole,
che non diventi definitiva
– questa ingordigia di parole
e detti e contraddetti!
Lasciate adesso per un poco
ammutolire ogni sentimento:
che il muscolo cuore
si eserciti altrimenti.
Lasciate, vi dico, lasciate.
Non sussurrate nulla,
nulla, dico, all’orecchio supremo,
che per la morte nulla
ti venga in mente:
lascia stare, seguimi,
né mite né amara,
non consolatrice
né significativamente
sconsolante,
ma nemmeno priva di significato –
E soprattutto non immagini
tessute nella polvere, vuoto rotolare
di sillabe, parole di morte.
Nemmeno una,
o parole!