La prima impressione con cui si fa i conti leggendo “La casa vuota” è quella della dissoluzione e del disfacimento. Della perdita cioè di riferimenti e di coordinate che consentano di ancorare personaggi e circostanze a logiche riconoscibili e che permettano di stabilire le identità e di comprendere gli avvenimenti. C’è quasi un che di distopico che aleggia, trasmesso e indotto dalla presenza di un caos nel quale le cose si svolgono e gli individui si muovono, prevalendo un senso di annientamento e di deriva, di incomunicabilità e di disunità. I fatti si svolgono in una sorta di terra di nessuno, collocabile genericamente a est, i personaggi sono senza nome, del protagonista, anche lui anonimo, sappiamo solo che è olandese, le date si ricavano in modo indiretto e approssimato. Di certo c’è solo che siamo nel corso della guerra in un contesto in cui si fronteggiano russi, tedeschi e partigiani.
E neanche la comune appartenenza ad un raggruppamento partigiano è di per sé sufficiente a condividere quella comprensione reciproca che evita di sentirsi estranei anche fra i propri simili: “Nella truppa, che era formata da partigiani bulgari, cechi, ungheresi e rumeni, non riuscivo a capire nessuno. Da quanto tempo ero già via dai Paesi Bassi, pensai, in paesi stranieri sempre diversi, ovunque la stessa oscurità nelle città di sera, e poi alla fine nessuno con cui poter parlare”, dice il protagonista, io narrante, il quale da quattro anni vive in una condizione di fuggitivo. Fatto prigioniero dai tedeschi era fuggito da una prigione, quindi era stato ripreso e rinchiuso in un campo di concentramento, evaso nuovamente era stato catturato ancora dai tedeschi dai quali era riuscito a scappare di nuovo saltando giù dal treno col quale lo stavano trasferendo. Da quel momento, a piedi, sempre più “verso est” finché non si era aggregato a quei partigiani. Tutto ciò fra il 1940 e il 1944, anno nel quale ci si trova quando ha inizio “La casa vuota” .
E dai pochi cenni che il protagonista fa si capisce che non è mosso da ideali particolari, né da un vero e proprio odio verso quelli che dovrebbero essere i suoi nemici, prevalendo in lui un solo obiettivo quello di sopravvivere. Di quest’uomo che non ha nulla dell’eroe, né coltiva sogni eroici, colpisce in particolare il suo aggirarsi impersonale, quasi meccanico: l’aggirarsi di un uomo sperduto dentro un mondo anch’esso ormai sperduto nel quale non vi sono più regole e in cui domina solo un senso di devastazione. Come scrive Cees Noteboom, nella sua postfazione, ”…ben presto nella storia non esiste più una gerarchia di comando chiara, nel caos di attacchi aerei, carri armati e russi che giustiziano partigiani, ognuno finisce per pensare unicamente a salvarsi la pelle…e in mezzo a tanta spaventosa confusione…la casa nella quale alla fine si rifugia il protagonista diventa l’altro protagonista della storia.” (C. Noteboom – “Postfazione” in W.F. Hermans –“La casa vuota”– BUR – 2005 – pp.79-80)
A seguito di un comando ricevuto, peraltro neanche compreso chiaramente, che l’ha spinto verso quella cittadina deserta e abbandonata: “Oltre me non c’ era nessuno. Gli abitanti dovevano essere fuggiti, o forse erano stati evacuati” – che gli appare essere una località termale: “…mi trovavo in una località termale di lusso” – il protagonista si imbatte in quella casa, attratto dai riflessi del sole sulle sue “… grandi finestre”. La descrizione degli “esterni” da l’idea di un luogo ameno ed elegante che tuttavia al protagonista fa venire in mente un’ immagine macabra che sa di presagio: nel bel prato antistante la casa “…un grosso platano…la cui chioma era stata potata ripetutamente… sembrava una forca per una famiglia intera”.
La porta di ingresso della casa è “… socchiusa” ed ovviamente egli non può non entrarvi: “Dovevo guardare all’ interno”. E nel compiere quell’atto, che nasce come conseguenza dell’ esecuzione dell’ordine ricevuto, gli sovviene in realtà un pensiero che ha per lui un che di gratificante e che si manifesta come fosse un’ epifania: “…mi resi conto che stavo per entrare in una casa vera, un’ abitazione vera, per la prima volta dopo molto tempo”. Il protagonista vi si aggira all’ interno, la “scopre” progressivamente e pur non mancando segnali di presenze anche recenti dettati, in primis, dall’ accorgersi che non ci sono tracce di polvere – “Poi a un tratto capii: da nessuna parte c’era polvere. Finché in una casa non c’è polvere, la casa vive, così come un corpo non è morto finché traspira” – egli constata che la casa è vuota e disabitata.
E, a quel punto, gli si apre un’inattesa e insperata possibilità. Quella casa gli si offre con tutti i suoi comfort: “Un rubinetto dell’ acqua calda dal quale usciva veramente acqua calda! Durante tutta la guerra non mi era ancora mai capitato! Ero così eccitato che mi svestii e riempii la vasca”, una “… cantina piena di generi alimentari di tutti i tipi”, oltre a tutto ciò che la rendeva comoda e vivibile. Insomma un rifugio sicuro in cui insediarsi: “Ero al sicuro, scioglievo gli interrogativi con facilità. Potevo restarmene immerso nell’ acqua per tutto il tempo che volevo”. Lavatosi, rasatosi, dismessa la divisa da partigiano e indossati abiti civili, quelli di chi in quella casa ci viveva davvero, il protagonista si ritrova ad assaporare un momento che per lui ha un che di idilliaco dato che gli consente di appropriarsi di una condizione: quella “borghese” che la casa gli offre, che gli conferisce una dignità da essere umano da tempo dimenticata: “Ora avevo la sensazione di dovermi comportare di nuovo in modo civile, anche se il padrone di casa doveva già essere contento che non saccheggiassi niente”.
E a quella nuova identità si aggrapperà e vi si immedesimerà così bene che quando, inaspettatamente, si troverà di fronte, sulla porta, un tedesco, invece dei suoi compagni partigiani che si era immaginato:“…mi resi conto che era il campanello. Non aprire sarebbe stato inutile, chi altro poteva essere davanti alla porta se non uno dei nostri partigiani?”, egli si qualificherà come il figlio del proprietario di quella casa, fingendo di essere rimasto lì ad abitarvi, mentre genitori e sorelle erano scappati. E, da quel momento, inizierà a “convivere” con quei tedeschi che, convinti dalle sue parole, lo lasceranno libero, dandogli pure un lasciapassare, avendo essi, in cambio, la disponibilità di una parte della casa in cui insediarsi. Appropriatosi definitivamente di quella identità: “…Io sono il figlio del padrone di casa…Io sono sempre vissuto qui. Questa è casa mia”, si dirà convintamente, decide di “usarla” quella identità finché gli sarà possibile: “La guerra non poteva più durare a lungo. Sarei rimasto qui, mi sarei finalmente riposato”.
Stanziarsi in quella casa diventerà quindi darsi una possibilità di sopravvivenza, sperare di salvare la pelle, e ciò isolandosi il più possibile dal mondo. Sia da quello interno della casa, da qui la decisione di non aprir più bocca con i tedeschi: “…Decisi, d’ ora in avanti, di evitare tutti, anzi, tanto a cosa poteva servire parlare? Ero rimasto in silenzio così a lungo, ora che avevo la possibilità di parlare non potevano derivarne altro che disgrazie”, sia dal mondo esterno, fino al punto di immaginarsi di restare lì, a vivere in quella casa: “…Poi un giorno la guerra finirà, i tedeschi se ne andranno, e noi resteremo qui, per sempre” dirà, rivolto ad un gatto che ha trovato con cui si immagina di condividere quel programma risolutivo e salvifico.
Ma l’illusione di poter vivere in quella condizione di separato dal mondo, rinchiuso in quella tana, ridotto a vivere una vita nei minimi termini: “Ora che abitavo lì da tempo, non uscivo quasi più di casa, non andavo oltre al bersò in fondo al giardino, non sentivo il bisogno di svolgere nessun’altra attività. In genere stavo nella stanza, a letto, non mi svegliavo prima di mezzogiorno e a volte mi riaddormentavo già prima che facesse buio.”, senza che si verificasse alcun genere di contraccolpi si infrangerà, mettendo a nudo ciò che egli, prima di tutto, era diventato e cioè un usurpatore. Farà infatti la sua apparizione il legittimo proprietario della casa, venuto a riprenderne possesso. Il protagonista si era immaginato che costui non sarebbe più apparso destituendolo persino dal suo ruolo: “Lui era l’intruso non io. Alla fine della guerra avrei saputo che era morto e sarei rimasto lì per sempre”
E quando, per i documenti che quell’uomo gli mostrerà ma, soprattutto, per la chiara sensazione che quell’uomo, apparso all’improvviso, “…era proprio il padrone di casa”, egli dovrà decidere cosa fare, l’istinto di conservazione prenderà il sopravvento. Un istinto di conservazione cieco e irrazionale, immediato e brutale lo guiderà spietatamente e lo condurrà ad uccidere quell’uomo, fulminandolo senza esitazioni: “…imbracciai il fucile: la testa dell’uomo, il mirino e l’alzo allineati in linea retta…” Ma a tutto ciò si aggiungerà altro raccapriccio, perché dietro al protagonista, appena dopo che questi aveva sparato, apparirà la moglie di quell’uomo: “Dal bagno uscì una donna,…Gridò qualcosa in una lingua che non capivo…<<Dov’è mio marito?>> chiese in tedesco, <<dov’è mio marito? Non l’ho visto!”>>, ed anche per lei non vi sarà scampo. Egli non la risparmierà, meccanicamente proteso a difendere senza alcuna pietà quel suo fortino, avendo fatto diventare quell’ uomo e quella donna, che si sarebbero potuti frapporre alla sua libertà e alla sua sopravvivenza, suoi “nemici”. C’è in tutto ciò la perdita di qualsiasi senso di appartenenza alla generalità degli esseri umani, dominando sulla ragione e su qualsiasi parvenza di umanità il sordo richiamo degli istinti, dei quali il protagonista diventa prigioniero, rinchiuso com’è in quel suo mondo totalmente alienato nel quale la salvezza assume i caratteri distruttivi e regressivi della barbarie.
E, a fronte di questa barbarie, dall’ interno di quella casa si leverà ancora, nonostante tutto, un segno di umanità e di civiltà, un segno del tutto inatteso e, a suo modo, surreale. Perché al protagonista apparirà, all’ interno dell’ unica stanza di quella casa che egli non era mai riuscito ad aprire e che, fino ad allora, “…era sempre stata chiusa”, un uomo intento a dare da mangiare a dei pesci in un acquario, giacché, in quella stanza “Lungo tutte le pareti c’erano scaffali pieni di acquari”. Quell’ uomo, fragile e inerme – “Mio figlio e mia nuora sono stati colpiti da una granata per strada…Ho novantasei anni e sono solo al mondo” dirà al protagonista – era tornato apposta per nutrire i suoi amatissimi e preziosissimi pesci: “Mi lasci stare qui…Io non posso stare senza i miei pesci, e loro non possono stare senza di me. Se non ci sono più questa collezione unica muore. Ci ho lavorato per ottant’anni. Ho iniziato a sedici.” E, consideratolo innocuo, il protagonista asseconderà, a suo modo, quella sua richiesta e lo chiuderà letteralmente lì dentro.
Quell’uomo con quel suo “…bene culturale unico”, così come egli definirà quei suoi acquari e, soprattutto, con l’umanità di cui si rivela ancora capace, in mezzo a tanta devastazione, rappresenterà l’ultimo residuo di dignità umana e di civiltà a cui ci sarà dato assistere. Perché l’epilogo de “La casa vuota” sarà un precipitato di eventi convulsi e assurdi, nel segno della crudeltà e della violenza.
“…la città è circondata dai bolscevichi. Sono venuto ad avvertirla” dirà, al protagonista, il colonnello tedesco che, al comando delle sue truppe, si era insediato in casa. E di fronte a quella nuova situazione, ancora una volta con repentina lucidità, il protagonista metterà in atto ciò che più favorevolmente gli avrebbe garantito la salvezza. Indossata di nuovo la divisa da partigiano, farà prigioniero il colonnello, chiudendolo nella cantina, poi, abbandonata la casa, si unirà ai suoi compagni: “Scesi le scale, uscii, attraversai il prato, superai il cancello e mi accodai ai partigiani che marciavano cantando…Sapevo esattamente cosa avrei detto, quando avrebbero chiesto dove fossi stato tutti quei mesi…Prigioniero dei tedeschi qui! I tedeschi sono scappati!”
Ma se essere riaccolto dai suoi compagni non sarà un problema ciò che egli non immaginava è che, da essi, ne sarebbe stato travolto perché a confronto con la sua crudeltà quella dei suoi compagni, della quale egli stesso ne sarà disarmato spettatore, sarà agghiacciante in quanto agita in preda ad un parossistico sadismo. Saranno i suoi compagni a prendere possesso della scena il cui teatro sarà di nuovo la casa vuota che diverrà un palcoscenico dell’ orrore, dato che fra le sue mura avrà luogo una sorta di teoria dell’eccidio. I partigiani entreranno nella casa e metteranno in atto una distruzione cieca e indiscriminata di tutto ciò che vi trovano, devastandola e insozzandola in modo folle e osceno. Poi inizierà una sorta di mattanza di cui saranno vittime il colonnello tedesco che verrà impiccato a una corda di pianoforte insieme al cadavere, denudato, della moglie del padrone di casa, e il vecchio collezionista di acquari che verrà impiccato al platano di fronte alla casa, quel platano che, a inizio racconto, al protagonista aveva suscitato l’immagine di una forca.
E alla fine anche la casa diverrà il cadavere di se stessa ormai spogliata e svuotata di qualsiasi segno di vita, rivelandosi, in quella sua cruda e disperata nudità, alla stregua e non diversa da quella bestialità e da quella follia che sono insite nella guerra e dalle quali, in guerra, non c’è scampo. “Lanciai un’ultima occhiata alla casa: tutti i vetri erano in frantumi, gli infissi saltati. Vidi fascine di miseri travicelli morti che penzolavano dai soffitti scrostati…Guardai nella gola moribonda della casa. Era come se anch’essa per tutto quel tempo avesse mentito, e soltanto ora si facesse vedere com’era sempre stata: una spelonca percorsa da correnti d’aria, internamente piena di rovine e sudiciume”
Se questo libro può apparire duro e spietato, quasi infame nei confronti di chi salvò l’Europa dal nazismo, per non dire che può apparire esso stesso sadico, nel descrivere l’ “universo sadico” che in esso vi è rappresentato, tuttavia sarebbe fuorviante leggerlo in tal modo. Non è infatti qui in discussione la “verità storica”, ma la guerra in sé che contiene sempre, comunque e dovunque, insensatezza e follia, dolore e distruzione e che, soprattutto, mette a nudo e porta a galla ciò che di più oscuro e primordiale si annida nella natura umana. Quella di Hermans è una sfida, un atto di coraggio nel dirci queste verità scomode che purtroppo, nonostante l’evidenza dei fatti, continuano a restare inascoltate.