“La casa deserta” – Lidija Čukovskaja – Prima parte

Lidija Čukovskaja (1907 – 1996) era “…figlia dello scrittore Kornei Čukovskij…uno degli scrittori per l’infanzia più amato dai nostri bambini, nonché eccellente critico e storico letterario…La sua casa…(nei dintorni di Pietroburgo) era il luogo in cui affluiva tutto ciò che di meglio v’era, nella Russia prerivoluzionaria, in letteratura ed in arte. Blok, Gorki, Andreiev, Maiakovski, Meyerhold, Repin…Non si riesce ad elencarli tutti. E tutti vedeva, tutti conosceva l’ancor piccola allora Lidija Čukovskaja. Piccola, ma in grado già di assorbire tutto ciò che la circondava. E forse appunto per questo, per essere stata attorniata in gioventù da uomini simili, ella ha saputo serbare e portare con sé, attraverso la propria vita, tutto ciò che di bello ha dato al mondo la letteratura russa dell’ultimo secolo – la probità, la nobiltà, la franchezza, il coraggio e – sempre – il soffrire per gli altri. E tutto ciò in nome della Verità, che è così difficile da servire, ai giorni nostri, soprattutto nel nostro Paese. E Lidija Čukovskaja è stata uno dei primi combattenti per questa Verità, un combattente senza macchia e senza paura” (1)

Queste parole dello scrittore russo Viktor Nekrasov, contenute nella sua “Prefazione” della prima edizione italiana de “La casa deserta”, del 1977, con traduzione di Giovanni Bensi – alla quale, nel 2019, si è aggiunta una nuova edizione pubblicata dalla casa editrice Calabuig con analoga traduzione – oltre a risuonare, oggi come allora, assolutamente e tristemente attuali – pensando alla realtà della Russia di oggi e a quanto in essa sia difficile se non impossibile poter esprimere la Verità delle cose – consentono di inquadrare, in quanto persona e in quanto scrittrice, Lidija Čukovskaja, cogliendone due aspetti fondamentali.

Il primo aspetto è la ricchezza e l’ampiezza degli stimoli e delle esperienze che ella ebbe sul piano della sua formazione culturale essendo stata partecipe, già in giovanissima età, di un milieu letterario e artistico di altissimo livello. Che la influenzerà al punto da diventare ella stessa scrittrice, portandola, altresì, ad intessere rapporti intensi e significativi con le due massime poetesse e scrittrici russe sue contemporanee: Anna Achmatova e Marina Cvetaeva alle quali sarà profondamente legata e alle quali dedicherà due suoi libri: “Incontri con Anna Achmatova. 1938-1941” edito nel 1990 da Adelphi e “Prima della morte: ritratto di Marina Cvetaeva” edito da Archinto nel 1992.

Ma, oltre a questo aspetto, dalle parole di Nekrasov traiamo soprattutto il significato e il valore più profondo dello spirito che animerà, sia sul piano personale e umano che su quello letterario, l’opera e l’ azione di Lidija Čukovskaja e cioè quella volontà di affermare e sostenere la Verità delle cose a fronte della sistematica negazione di quella Verità che veniva attuata. Rischiando, per questo, la sua stessa vita oltre che subirne conseguenze dolorose e tragiche legate alla morte del marito e alle circostanze in cui essa avvenne. Vicende che la segneranno ed ispireranno, in primis, “La casa deserta” e, successivamente, l’altro suo romanzo “Indietro nell’acqua scura” (Vallecchi, 1979).

E quanto questo vivere e lottare in nome della Verità sia stato presente in Lidija Čukovskaja lo testimonia l’aver messo, in epigrafe de “La casa deserta”, le seguenti parole di Lev Tolstoj, facendo assumere, a queste parole autorevoli, il valore di un sigillo rispetto a ciò che si apprestava a raccontare nel suo libro: “<< L’eroe del mio racconto – che amo con tutte le forze dell’anima mia , che ho cercato di rappresentare in tutta la sua bellezza, che sempre fu, è, e sarà sublime – è la Verità>>”. Sarà infatti questo bisogno di dire e fissare la Verità relativa ai fatti da lei stessa vissuti che costituirà la “necessità” letteraria de “La casa deserta”. Che non è un racconto, in senso proprio, autobiografico ma rispecchia largamente le sue reali esperienze.

Scritto in quattro mesi fra il novembre del ’39 e il febbraio del ’40 “La casa deserta” si svolge in quei terribili anni del regime staliniano, coincidenti con la seconda metà degli anni ’30, noti come gli anni delle Grandi Purghe, dominati, come essi furono, da una repressione vasta e spietata. Durante quegli anni la paura e il terrore divennero parte costitutiva della vita dei cittadini sovietici, tanto che tale periodo è noto anche come Grande Terrore, in quanto deportazioni, processi sommari e uccisioni sommarie erano all’ordine del giorno, colpendo anche semplici cittadini, solo perchè sospettati di essere ostili al regime. E, rispetto a quegli eventi, “La casa deserta” fu scritto, per così dire, in presa diretta, costituendo da questo punto di vista non solo un racconto tragicamente intenso, che rende benissimo l’evolversi e il pathos degli avvenimenti, ma anche un documento straordinario di ciò che significò per tante persone trovarsi a vivere in quella situazione.

Come è stato infatti osservato, “La sua originalità sta nel fatto di essere stato concepito e portato a termine “sulla traccia ancora fresca degli eventi appena accaduti”. (2). Si tratta di una “convocazione” letteraria della realtà in cui Čukovskaja era stata coinvolta e non della semplice narrazione di un caso. Ma c’è di più. Il genere di appartenenza ambisce allo statuto della testimonianza a futura memoria. La stessa autrice…ne parlerà più come di una deposizione che come di una novella. “E’ un racconto sul ’37, scritto nell’inverno del ’39 -’40, immediatamente dopo due anni di code davanti alle prigioni. Non sta a me giudicarne il pregio artistico, ma il suo valore come testimonianza veritiera è indiscutibile. Fino ad oggi […] non mi risulta che vi sia nessun’altra opera sul ’37, scritta in prosa lì e allora”. (3) Sul Terrore, in effetti, non disponiamo di molti testi scritti “in tempo reale”. Le più celebri testimonianze furono compilate in anni successivi, in particolar modo dopo il 1956. Pensiamo, ad esempio, a quelle di Nadežda Mandel’štam…[Giacché] Scrivere un racconto sul Terrore comportava il pericolo dell’arresto, della deportazione e perfino della morte, non solo per se stessi, ma anche per i propri familiari”. (4)

E proprio di una vicenda tipica di quegli anni del Terrore fu vittima Lidija Čukovskaja: “Nell’agosto del 1937 assistette all’arresto del suo secondo marito, il fisico Matvej P. Bronštejn…In seguito alla carcerazione del coniuge, Lidija Čukovskaja condivise l’esperienza delle donne “in coda” davanti alle procure di Leningrado, cercando di avere notizie e presentando domande di revisione del caso. [Sarà tra l’altro, proprio nel corso di queste estenuanti “file“ che incontra Anna Achmatova, il cui figlio era stato anche lui arrestato. Entrambe davanti alle prigioni, insieme con molte altre mogli e madri di arrestati sperando di poter avere almeno qualche notizia]. Nel febbraio del 1938, le venne notificato che Bronštejn era stato condannato alla “confisca dei beni” e a “dieci anni [di detenzione] senza diritto alla corrispondenza”. Questa sentenza significava “l’arresto e il lager [anche] per la moglie”. La normativa penale sovietica prevedeva infatti la responsabilità collettiva di parenti, amici e conoscenti. Introdotta nel 1934, la legge sul “tradimento della patria” era diventata sempre più severa. Čukovskaja riuscì nondimeno ad evitare la deportazione, allontanandosi a più riprese da Leningrado e sottraendosi così alla polizia politica. Sarà informata confidenzialmente dell’uccisione del marito nel dicembre del 1939. [Ma] La conferma ufficiale la riceverà solo nel 1957, quando Bronštejn verrà riabilitato, “perché il reato non sussisteva”. [E]Dal confronto tra le date del procedimento, della sentenza e della morte riportate su differenti documenti, risulterà che Bronštejn era stato “processato”, condannato e fucilato nello stesso giorno, il 18 febbraio 1938.” (5)

Ed è a partire da quell’esperienza cruciale e terribile da lei vissuta personalmente – basata prima sulla impossibilità di avere notizie del marito dopo il suo arresto improvviso, poi sullo sfiancante e sfinente tentativo di avere, del tutto invano, dalle autorità giudiziarie, informazioni in merito al provvedimento giudiziario e al suo iter e, infine, su quella notizia dell’uccisione del marito – che nasce, si sviluppa e si realizza la stesura de “La casa deserta”. Laddove la parola, la parola scritta, sarà l’unico modo a disposizione di Lidija Čukovskaja per affermare la Verità.

Tuttavia – come già accennato – in quegli anni, il solo fatto di scrivere in merito a quel tipo di vicende era pericolosissimo, ed essere scoperti, in quanto autori di un racconto che metteva a nudo ciò che nella realtà avveniva, ma di cui era assolutamente proibito parlare, poteva comportare conseguenze gravissime. Da qui le rocambolesche vicende che ebbe, da subito, il manoscritto di questo libro, il cui titolo originale, datogli da Lidija Čukovskaja, era “Sof’ ja Petrovna” dal nome della protagonista del racconto. “Čukovskaja, che aveva “alle spalle tre perquisizioni e una confisca totale dei beni”, non poteva di certo “conservare il quaderno in casa”. Per un lungo periodo l’unico esemplare di“Sof’ja Petrovna”, vergato con inchiostro lilla, fu preservato da una persona fidata: “Il mio quadernetto trovò asilo da un amico. Se gliel’avessero trovato, gli avrebbero dato venticinque anni”.(6) L’amico morì di fame durante la guerra, nel corso dell’assedio di Leningrado, quando Čukovskaja si era già allontanata dalla città; ma era riuscito poche settimane prima a trasmettere il manoscritto alla sorella, che lo avrebbe in seguito restituito all’autrice.” (7)

Ma, ai fini della pubblicazione, il destino di questo libro resterà tormentatissimo. Di una sua pubblicazione in Russia si comincerà a parlarne solo nei primi anni ’60. Nel “…1962, dopo il XXII congresso del PCUS che riaffermò la volontà di portare avanti la denuncia dei crimini staliniani, Lidija Čukovskaja propose la pubblicazione di “Sof’ja Petrovna” alla casa editrice Sovetskij Pisatel’ [Lo scrittore sovietico]. Tutto iniziò a procedere secondo le regole: dopo due recensioni positive, il racconto, nel mese di dicembre, venne approvato e accettato per la stampa. Čukovskaja siglò un normale contratto e, nel gennaio del 1963, le fu pagato il 60% dell’onorario… Ma, improvvisamente, arrivò un’inversione di rotta. La letteratura fu accusata di occuparsi troppo del culto della personalità e delle sue conseguenze, di sottolineare troppo gli “errori” invece dei “successi”.

Nel XX e nel XXII congresso del partito – fu detto – si era ormai chiarita e risolta la questione. Era il momento di porre termine alle discussioni e andare avanti. I “superstiti erano tornati dai campi e dalle prigioni; erano stati reintegrati nella società sovietica; si era trovata loro non solo un’abitazione, ma anche un lavoro; ai parenti dei deceduti erano stati dati “dei certificati di riabilitazione postuma dei figli, delle sorelle, dei mariti”. La domanda ricorrente era: “Non vi basta? perché cospargere di sale le ferite?”. In questo contesto…Čukovskaja fu convocata in casa editrice (maggio 1963), dove ebbe comunicazione che il racconto, benché entrato in produzione e perfino pagato per il 60%, non poteva essere stampato. L’autrice accolse il rifiuto come una “catastrofe esistenziale ” e chiese spiegazioni al capo redattore… Secondo la casa editrice il racconto era “ideologicamente viziato”.

L’autrice, allora, con un gesto senza precedenti, decise di fare ricorso al codice civile e intentò causa a Sovetskij Pisatel’ per non aver ottemperato agli obblighi contrattuali. Il suo obbiettivo era quello di ottenere, se non proprio la pubblicazione, perlomeno il pagamento integrale del compenso pattuito. Le sembrava il solo modo per rivendicare la legittimità di un’opera nella quale era “impresso un momento essenziale della storia della nostra società”…Čukovskaja vinse il processo e Sovetskij Pisatel’ fu obbligato a versarle l’intero onorario. Ma il tribunale non aveva poteri sulla pubblicazione dei libri e il racconto “Sof’ja Petrovna”, raccolto dal samizdat, dopo essere passato a lungo di mano in mano, dovrà varcare la frontiera per essere infine stampato in russo nel 1965, a Parigi, con il titolo apocrifo “Opustelyj dom” [“La casa deserta”] e molti errori nel testo (ad esempio, “Ol’ga Petrovna” [quale è appunto il nome della protagonista de “La casa deserta”] invece di “Sof’ja Petrovna”), e nel 1966, a New York, con il titolo esatto e lievi mancanze. La prima edizione in Unione Sovietica è soltanto del 1988”. (8) Una versione “con il titolo esatto” di “Sof’ja Petrovna” è stata pubblicata anche da noi nel 1999, da parte della casa editrice Alfredo Guida Editore, con traduzione di Antonella Cristiani

Ma venendo ora al merito del racconto conta prima di tutto dire chi è Ol’ga Petrovna, la protagonista de “La casa deserta”. E’ una madre e, come tale, si troverà coinvolta nell’inverosimile e allucinante vicenda che coinvolgerà il proprio figlio Kolja. Il fatto di avere messo come protagonista del racconto una madre fu una scelta ben precisa della Čukovskaja che ella stessa ha avuto modo di precisare, costituendo tale scelta, per lei, un elemento fondamentale del racconto: “In una realtà intenzionalmente falsata tutti i sentimenti sono deformati, anche quello materno”. Ecco perché, “come protagonista principale”, non aveva scelto né una sorella o una moglie, né un’innamorata o un’amica, “ma il simbolo della dedizione: una madre”“. (9)

E, in quanto madre, Ol’ga Petrovna si troverà a lottare, prima di tutto dentro se stessa, tra la dedizione a suo figlio e alla sua parola e la dedizione, altrettanto forte, a ciò che l’autorità, dominata dal partito, nelle sue varie ramificazioni, faceva e diceva. Ed è lo scontro umano e disumano al tempo stesso tra queste due dedizioni, di cui sarà vittima Ol’ga Petrovna. “Era infatti proprio questo l’obbiettivo di Lidija Čukovskaja: “Scrivere un libro su una società che impazzisce; l’infelice, folle Sof’ja Petrovna [ Ol’ga Petrovna] non è affatto un’eroina lirica; per me è l’immagine generalizzata di coloro che seriamente credevano alla ragionevolezza e legittimità di ciò che accadeva. ‘Da noi non si va in prigione infondatamente’. Se perdi questa convinzione, non c’è salvezza; rimane una sola cosa: impiccarsi”” (10)

A seguire un articolato commento de “La casa deserta”.

Note

(1) – Viktor Nekrasov – “Prefazione” in Lidija Čukovskaja – “La casa deserta”- Jaca Book – 1977- pp.10-11;

(2) – Lidija Čukovskaja – “Prefazione dell’autrice” in L. Čukovskaja – “La casa deserta” – cit. p.16

(3) – Lidija Čukovskaja – “Il processo. Memoria sul costume letterario” – Jaca Book – 1982 – p. 13

(4) – Antonella Salomoni – “Per una ricerca su “verità” e “giustizia”. L’esperienza di Lidija Čukovskaja” – in “Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile” – 2007 – p. 35

(5) – A. Salomoni – cit. p. 34

(6) – L. Čukovskaja – “Il processo” – cit. p. 15

(7) – A. Salomoni – cit. p. 35

(8) – A. Salomoni – cit. pp. 40,41,42

(9) – L. Čukovskaja – “Il processo” – cit. pp. 13, 14

(10) – L. Čukovskaja – “Il processo” – cit. p. 13,14

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