“Casa d’altri” – Silvio D’Arzo

All’improvviso dal sentiero dei pascoli, ma ancora molto lontano, arrivò l’abbaiare di un cane.

Tutti alzammo la testa.

E poi di due o di tre cani. E poi il rumore dei campanacci di bronzo.

Chini attorno al saccone di foglie, al lume della candela, c’eravamo io, due o tre donne di casa, e più in là qualche vecchia del borgo. Mai assistito a una lezione di anatomia? Bene. La stessa cosa per noi in certo senso. Dentro il cerchio rossastro del moccolo, tutto quel che si poteva vedere erano le nostre sei facce, attaccate una all’altra come davanti a un presepio, e quel saccone di foglie nel mezzo, e un pezzo di muro annerito dal fumo e una trave annerita anche più.

Tutto il resto era buio.”

Così inizia Casa d’altri e, da questa descrizione, si ha come l’impressione di essere messi di fronte a una figurazione, a una iconografia che isola l’immagine descritta separandola da tutto il resto, dal buio appunto che la circonda: “Tutto il resto era buio”. Ma assumere la visività, questa visività, come criterio identificativo del narrato significa concepire il narrato come dentro una cornice che lo delimita e ne fissa i confini, astraendolo dal mondo. O, per meglio dire, facendo di quel “quadro”, che il narrato ci mostra, un mondo a sé, irreale ed etereo che – pur essendo ambientato in una realtà – di fatto vive in una sua alterità, in un altrove.

Un riferimento esplicito, in questo senso, ce lo fornisce già il testo, in quell’evocazione del presepio che rimanda dichiaratamente ad un elemento iconografico, quale appunto il presepio, che già a livello di senso comune possiede le caratteristiche sopra descritte. Ma Silvio D’Arzo immette nel testo un riferimento ben più potente e, a prima vista, criptico, sintetizzato da quell’interrogazione: “Mai assistito a una lezione di anatomia?”, apparentemente avulsa dal resto. Infatti “…l’appello del narratore ad immaginare una lezione di anatomia non coglie certamente un’esperienza usuale del lettore…[ma]Una lezione di anatomia è immaginabile quasi completamente al buio, [a condizione] che l’autore richieda al lettore una conoscenza visiva, e il riferimento appare evidente e fin troppo scoperto: La lezione di anatomia del dottor Tulp di Rembrandt (L’ Aja, Mauritshuis). Nel dipinto del pittore olandese la luce proveniente dal cadavere illumina di bianco i volti e i colletti degli astanti bucando il “buio” della tela. D’Arzo mettendo in bocca al narratore: “Mai assistito a una lezione di anatomia?” è come se scrivesse “hai presente La lezione di anatomia del dottor Tulp di Rembrandt?”. In questo caso le parole, forti del loro riferimento iconologico più o meno celato, inducono il lettore ad immaginare una situazione visiva già (iper)codificata, con un inevitabile surplus di senso” (1)

Ora il fatto che D’Arzo sin dall’inizio abbia dato questa impronta “visiva” al testo – nella quale domina l’immobilità dei personaggi a fronte della luce che illumina le loro facce, unico elemento che anima l’immagine – è un’anticipazione e, al tempo stesso, un imprinting di quella che è la natura profonda di Casa d’altri. E cioè la rappresentazione di un mondo sospeso in una sua fissità in cui il destino di chi vi abita è tutto racchiuso in queste parole: “Cosa fanno qui a Montelice? – dissi. – Beh. Vivono…ecco. Vivono e basta, mi pare… -E poi muoiono, – aggiunsi”. Ed in questa, che è la rappresentazione di una immobilità, si rispecchia l’immagine altrettanto immobile di quelle “sei facce” assise intorno al “cerchio rossastro del moccolo”, perché è tutta dentro questa immobilità alla quale non si può sfuggire che si svolge Casa d’altri.

Ma se è vero che quel mondo è espressione di un luogo tanto estremo quanto reale:

– Così in treno non ci si arriva, lassù…

No. E neanche in corriera.

-…

– Vi ci vogliono tre ore di mulo. E poi

non d’inverno, s’intende. E neanche quan-

do le nevi si sciolgono. Allora, non ce la

fareste nemmeno con cinque.

– Beh… e suppongo che avrà pure un

nome.

– Si, mi pare di si. Dev’essere l’unica co-

sa che abbia.

così infatti quel luogo è descritto nell’epigrafe che introduce il racconto, tuttavia tale luogo, ben lungi dal diventare oggetto di un racconto realista, si erge a rappresentazione di una condizione che non è solo quella derivante dalla durezza del vivere in quel luogo ma è, ben di più, quella della durezza del vivere in se stesso. Vi è una trascendenza implicita in Casa d’altri e un trascendere le cose che va oltre la realtà dell’esistere e ci parla dell’esistere in sé, nella sua assolutezza. Il paradosso di Casa d’altri è che, in questo racconto, siamo messi di fronte a ciò che di più sacro vi sia, qual’è appunto la vita in sé, ma questa sacralità si rivelerà, in realtà, impossibile da affermare e da preservare. E, in questa constatazione, si insedia, senza alcun possibile riscatto, la crisi e la morte del “senso” stesso del vivere e, con esso, della possibilità di attingere a qualsiasi principio di sacralità al quale potersi aggrappare.

Perché in Casa d’altri si consuma un fuggire dalla vita che è non solo l’impossibilità di trovare risposte nel “sacro” e quindi “credere” nella salvezza, ma è un fuggire dalla sacralità della vita in sé in quanto vissuta come del tutto estranea e quindi non nostra, come se appunto fossimo eternamente e permanentemente in “casa d’altri”. E tutto questo diventa ancor più vero e drammatico perché coloro che ne saranno protagonisti sono un sacerdote: l’anziano prete di Montelice e un’anziana donna credente e devota: la vecchia lavandaia Zelinda che, nel constatare e vivere tutta quella che sarà la loro personale impotenza di fronte a tutto ciò, finiranno – in un tragico non detto – per dover constatare, intorno a sé, l’assenza di Dio.

Casa d’altri è il capolavoro di Silvio D’Arzo ed uno dei più grandi racconti della nostra letteratura: “…fu definito <<perfetto>> da Eugenio Montale (2)…e viene oggi considerato, secondo il parere di molti, uno dei più belli del Novecento, non solo italiano…Casa d’altri uscì postumo sul Quaderno X di <<Botteghe Oscure>> alla fine del 1952, grazie agli auspici di Attilio Bertolucci. La primavera dell’anno successivo Giorgio Bassani favorì per Sansoni la pubblicazione del medesimo testo nella collana <<La Biblioteca di Paragone>>”(3)

Ma rispetto a quella prima uscita in volume avvenuta nel 1953 la nascita di Casa d’altri in realtà risale a molti anni prima, risultando, in data 26 luglio 1947, l’invio da parte di Silvio D’Arzo a Emilio Cecchi del manoscritto del racconto. Ma nonostante la valutazione positiva di Cecchi la storia editoriale di Casa d’altri fu assai travagliata, finendo, da parte di vari editori e di illustri editor, tra cui Pavese, per non venirne sostenuta la pubblicazione. Senonché il 30 gennaio 1952 Silvio D’ Arzo muore, a trentadue anni, per una forma di leucemia, a Reggio Emilia dove era nato il 6 febbraio 1920, figlio naturale di Rosalinda Comparoni, cognome che gli verrà dato all’anagrafe, dove verrà registrato come Ezio Comparoni. Silvio D’Arzo, quel nome con cui è finito per essere universalmente conosciuto, non era quindi il suo vero nome, ma uno pseudonimo, uno dei tanti che si era dato nella sua breve vita per firmare quanto aveva, sino a quel momento, scritto.

Perché sebbene la sua notorietà, peraltro tutt’ora per niente adeguata rispetto al valore della sua opera, abbia coinciso – anche a livello critico – a lungo e per lo più con Casa d’altri, l’ insieme della sua produzione è assai più vasto ed ha avuto solo in questi ultimi anni un’ appropriata sistemazione e un riconoscimento anche editoriale. E’ infatti del 2003 la pubblicazione completa delle sue opere: Silvio D’Arzo – “Opere” – (a cura di) Stefano Costanzi, Emanuela Orlandini, Alberto Sebastiani – introduzioni di Alberto Bertoni e Fabrizio Frasnedi – Parma – MUP (Monte Università Parma) Editore, che raccoglie l’insieme dei testi narrativi, critici e poetici di Silvio D’Arzo, conosciuti e fino ad allora venuti alla luce che consistono in romanzi, racconti, saggi, poesie e libri per ragazzi.

A un destino di solitudine e di invisibilità che lo ha sempre accompagnato Silvio D’arzo ha opposto quindi, e ciò sin dall’adolescenza, un lavoro appassionato e costante di totale dedizione alla letteratura affrontata e vissuta a più livelli, sia percorrendone i generi sia approfondendone l’analisi. Così alla disattenzione presso il grande pubblico si è contrapposta una valutazione altissima da parte di chi si è accostato, o come lettore o come studioso, alla sua opera, sia a quella narrativa che a quella saggistica. Ed è in questo senso significativo soffermarsi proprio sugli autori prediletti da D’ Arzo e da lui studiati per comprenderla la sua opera. Su questo un’esemplare sintesi è stata fatta da Gianni Celati che a D’Arzo dedicò, nell’ambito dell’edizione del 2008 del “Seminario Internazionale sul Romanzo”, che si tiene dal 2006 presso la Facoltà di Lettere dell’ Università degli Studi di Trento, un ampio e approfondito intervento da titolo: “D’ Arzo, lo stile di chi è straniero dovunque”, nel quale, partendo da quello che fu l’autore prediletto di D’Arzo e cioè Henry James, ebbe a dire:

…nel saggio dedicato [da Silvio D’Arzo] alle figure di americani in Europa nei romanzi di Henry James, [il] suo tema è l’idea d’una condizione di vita da perpetui stranieri, ma con una «ottusa fedeltà a un ambiente dettata soltanto da necessità, diciamo, biologiche, come quelle d’un pipistrello alla sua torre»….Gli autori studiati sono tutti stranieri, per lo più di lingua inglese, e quasi tutti i saggi toccano aspetti del disadattamento, perdita del luogo familiare, visioni d’altri modi di vita. Da quello su Robinson Crusoe che avvia la riflessione sull’isola dove si fa i conti col proprio isolamento, ad altri su narratori sbalzati lontano dal proprio retroterra d’origine, come T.E. Lawrence, Kipling, Hemingway. Ma quelli con più urgenza di cose da dire riguardano tre espatriati che scrivono in lingua inglese, Henry James, Joseph Conrad e R. L. Stevenson, autori che hanno saputo tradurre in nuove forme narrative l’esperienza di essere stranieri dovunque.”(4)

Vi è quindi all’ interno dell’opera di Silvio D’Arzo, nei suoi percorsi di studio, ma poi anche in quelli narrativi e, in modo particolare, in Casa d’altri, il reiterarsi del tema del sentirsi estranei, e ciò non solo nel luogo in cui si vive ma nel mondo, finendo così per smarrire qualsiasi senso di appartenenza sia verso ciò che ci è noto e familiare e ci circonda, ma più in generale verso la vita stessa che finisce per apparire inutile e insensata. E’ questo infatti ciò che accade a Zelinda Icci la protagonista di Casa d’altri che, nello spoglio ermetismo della sua esistenza, si ergerà per affermare il suo bisogno umanissimo, eppure sintomo della fine di ogni umanità, quello di farla finita.

Ma se è vero che la vita che Zelinda conduce è fatta solo di stenti e di miseria al punto che tra la sua vita e quella della sua capra non vi è alcuna differenza come ella stessa in modo impietoso, a un certo punto dice: “- Io ho una capra che porto sempre con me: e la mia vita è quella che fa lei, tale e quale. Viene in fondo alla valle, torna su a mezzogiorno, si ferma davanti al fosso con me, e poi la porto al canale, e quando vado a dormire va a dormire anche lei. E anche nel mangiare non c’è gran differenza, perché lei mangia dell’erba, e io radicchi e insalata, e la differenza sta solo nel pane. E poi a momenti io non potrò mangiare più neanche quello…Come me…come me. Ecco che cosa faccio io: una vita da capra. Una vita da capra e nient’altro”, tuttavia il suo dramma non è materiale, non è causato dalla “mancanza” in sé, ma bensì dalla perdita di ogni prospettiva, terrena o ultraterrena che sia, dalla quale ricavare una qualsiasi motivazione a vivere.

Zelinda denuda una condizione che prescinde dal possesso, perché non solo nulla è suo ma ella stessa non si possiede più, la sua vita gli è estranea. Ella nella sua coscienza elementare e solitaria lo ha capito perfettamente, mentre ogni giorno, piegata sui lastroni di pietra, lava stracci e budella in fondo al canale: “- Tutte le mattine alzarsi alle cinque e andare giù in fondo alla valle per pigliare gli stracci e fermarsi a mezzogiorno un momento a mangiare olio e pane sopra l’erba di un fosso: e poi venire su fino a monte a pigliar la carriola e andarsene al canale a lavare. Fino alle sei, fino alle sette, e il lunedì fino alle nove di sera….- E il giorno dopo fare lo stesso, e anche l’altro giorno, e tutti i giorni del mondo. Perché io questo lo so: questo lo so, lo so bene: tutti i giorni del mondo”

Nella constatazione, e implicita denuncia, dell’alienazione che scandisce la sua vita Zelinda capisce che solo di una cosa è rimasta padrona: della sua morte, perché della sua vita è stata già espropriata e per questo non vi è soluzione, ella è ormai fuori da una casa sua e non ha alcuna prospettiva di farvi ritorno. L’estremizzazione e la radicalità della vicenda di Zelinda è che essa pone un problema insolubile che è tale per chiunque si trovi di fronte lo spettro di una vita vuota, sia che lo viva su se stesso sia che ne sia spettatore.

Ma tale problema sarà insolubile anche religiosamente nel momento in cui neanche lui, il prete di Montelice – quel “prete da sagre” quale egli stesso si era definito che, proprio cercando di scoprire il “segreto” di Zelinda e farlo proprio, si era illuso di poter riscattare quella sua ormai grigia vita di prete – neanche lui potrà nulla quando sarà chiamato alla prova dei fatti a dire una parola che dia una risposta, rivelando, il suo mutismo, tutta la sua impotenza. Zelinda gli si era rivolta dopo un lungo e tormentato percorso di avvicinamento perché lui, in quanto prete, le desse quel “permesso” attraverso cui poter pacificare e bonificare dal senso di colpa quella decisione estrema, non lasciandola sola di fronte ad essa. Facendo, in altre parole, di quel “permesso” un atto di carità. Ma la paradossalità di quella richiesta solleva l’ovvio problema teologico che Zelinda, nella sua semplicità di obbediente cristiana, aveva sin dall’inizio temuto sarebbe sorto e che l’aveva a lungo resa reticente ad “aprirsi” con il prete: non a caso, da questo punto di vista, Giorgio Manganelli parlò, in merito a Casa d’altri, di <<tragedia teologica>>

Ma se l’impotenza del “sacro” esplode in Casa d’altri in modo devastante ma anche commovente: “La tensione conoscitiva del prete, di fronte alla vecchia che lo guarda come un bambino, si spenge al pari di un fiammifero in acqua” (5), tuttavia il racconto non mira a denunciare il naufragio del “sacro” in sé, pur essendo questo un punto di arrivo irreversibile del racconto che ne illumina da dentro la sua tragicità. Casa d’altri va oltre questo e affronta la condizione di solitudine dell’uomo nel mondo, in questo senso, infatti “L’indagine è orizzontale, non verticale tra uomo e Dio” (6), sebbene proprio l’assenza di Dio, che ne scaturisce, ne amplifica la tragicità, mettendo a nudo il nucleo tutto umano e terreno di quella solitudine che riguarda l’uomo in sé.

A tal punto che la stessa conclusione del racconto, in cui il vecchio prete sente che anche per lui “é ormai ora di preparare le valigie…e senza chiasso partir verso casa” non evoca una soluzione religiosa quanto piuttosto un destino comune agli esseri umani, constatando anche lui di vivere, su questa terra, in “casa d’altri”. In quella sommessa e rassegnata pronuncia che egli fa la casa che deve raggiungere è infatti, anche per lui, quella della morte, la stessa casa che poco prima egli stesso ci aveva detto che anche Zelinda aveva raggiunto: “La vecchia è morta”, senza però dirci nulla sul come. Perché alla fine non è neanche più questo il punto: il come morire, ma il fatto che si è messi sempre e comunque di fronte alla morte e in ciò ognuno, anche il prete, si trova solo con se stesso. Da ciò l’amara e lapidaria ironia della frase che chiude il racconto: “Tutto questo è piuttosto monotono, no?”. Laddove, come in una sorta di ineluttabile circolarità, ci si ritrova di nuovo al cospetto della morte, cioè là dove il racconto era iniziato, quando il prete e le donne: “Chini intorno al saccone di foglie”, con il moccolo che illuminava le loro facce, è a una veglia funebre che erano intenti.

Vi è quindi all’interno di Casa d’altri un’ evidente impronta metafisica, perché ciò intorno a cui D’Arzo fa ruotare il racconto, alla luce del modo in cui i suoi personaggi esprimono se stessi, non è di ordine né spirituale, né sociale ma esistenziale e metafisico. E’ una visione del mondo e dell’uomo in netta e consapevole antitesi con quella dell’allora diffuso neorealismo, perciò contraria sia all’idea di una letteratura coinvolta nella speranza di modificare la realtà, sia all’idea di essere umano tanto più vero quanto più partecipe di quella speranza. Vi è al contrario in Casa d’altri un indugiare sull’incertezza e sulla fragilità dell’esistenza che si manifesta nella stessa esilità della trama, nel ritmo che cadenza e asseconda le pause contemplative, nella tensione al silenzio e alla solitudine del personaggio di Zelinda la quale diviene, essa stessa, nel corso del racconto una sorta di “metafora metafisica” sospesa come essa è tra la vita e la morte.

E, a questo livello, conta sottolineare quanto i “silenzi” in D’Arzo siano importanti, perché parlano assai più delle parole, rivelandosi, nel non detto di molti dialoghi, lo sgomento, le difficoltà, i dubbi, le paure, le impossibilità a dirsi e a dire, di fronte all’insopportabile peso di una normalità lancinante, intesa non solo in senso materiale ma soprattutto e assai più in senso esistenziale. A tale riguardo sono di nuovo utili e illuminanti le parole di Celati quando afferma: “[I silenzi] sono segni d’un bisogno di reticenze: il bisogno d’un silenzio che sospenda per un attimo la paurosa inflazione delle parole. E nei racconti di D’Arzo del dopoguerra i silenzi, gli stati di sospensione, i momenti vuoti, la pochezza dei fatti, sono appunto mosse narrative anti-inflazionistiche. Non servono più soltanto a far respirare il discorso, come le pause o le cesure tradizionali: ora servono a metterlo in crisi, servono a bloccarlo nel laconismo e sospenderlo nel suo implicito; molto spesso lasciando anche che un racconto termini senza una vera conclusione sul piano dei fatti, come succede in Casa d’altri. Il laconismo, i momenti vuoti, l’uso di silenzi interni con cui un racconto resta sospeso nel proprio implicito, sono segni d’una nuova narrativa che elimina le scene madri e le pose dei buoni sentimenti.” (7)

Ma anche il contesto in cui si svolge Casa d’altri, pur immerso in un quadro topografico e in uno scenario fisico assolutamente realistico,va sganciato da una “lettura” di questo tipo, configurandosi invece come luogo letterario e, in quanto tale, assolutamente finzionale, come un “altrove” così come la chiave di lettura “pittorica” adottata all’inizio suggeriva. In questo senso sintetizza e inquadra molto bene la “scena” in cui si svolge Casa d’altri Eraldo Affinati quando afferma: “Nel raccolto scenario di un paese appenninico, Montelice, vero più del vero e fantastico come una leggenda” (8)

Perché se è vero che ad ispirare Montelice a D’Arzo, così come ormai acquisito (9), è stato un luogo reale che lui ben conosceva e cioè quel Cerreto Alpi – posto a 1000 metri, su uno sperone roccioso nel cuore dell’Appennino reggiano, ai margini della statale 63 che congiunge Reggio Emilia a La Spezia – luogo di origine della madre, in cui D’Arzo, da bambino, trascorreva le vacanze estive e di cui, come nella descrizione riportata in epigrafe, egli ne riproduce in Casa d’altri tutta l’ impervia e selvatica asprezza e rudezza, tuttavia Montelice non esiste. E’ nome e luogo di fantasia, e, nella sua narrazione, D’ Arzo riesce ad avvolgere quei luoghi in un’atmosfera di sospesa irrealtà conferendogli un’espressività che li trascende rispetto alla loro collocazione geografica. Così come, di conseguenza, non ha niente a che vedere con il noto Bobbio dell’Appennino piacentino il Bobbio che, a un certo punto, appare nel racconto quando, proprio per far risaltare l’estremo isolamento di Montelice, si dice : “ e chi non sapeva che più in là c’era Bobbio poteva anche pensare di trovarsi ai confini del mondo”.

Ora, D’arzo, in primo luogo, si serve di questa essenzialità, persino spietata, dei paesaggi che lui conosceva, come contesto sintonico e visivo della tragica disumanizzazione organica al racconto come in questo brano dove, in modo lirico ma imbevuto di profonda e disarmata amarezza, egli fa dire proprio al prete di Montelice: “Dai costoni dei monti e dai pascoli veniva giù il color blu della notte. Non c’era più grama compagnia di quell’ora. Vi sorprendono certi pensieri, e i ricordi v’entrano in corpo: <<Tutto qui?>> vi vien fatto di chiedere; sicché un uomo non è più neanche un uomo.”

E, più in generale, se ne serve come contrappunto dei vissuti dei personaggi così come Anna Luce Lenzi, una delle prime studiose di Silvio D’Arzo, aveva chiaramente esplicitato in un suo contributo del ’77 in cui aveva affermato: “[In Casa d’altri]il paesaggio e la natura, sempre, dove compaiono, sono immagini che, oltre ad essere in sé rappresentazioni dirette, evocano un sentimento e più spesso lo sostituiscono facendosene oggettivazione. Così i calanchi, le forre, le torbiere, la “prata dei pascoli”, il sentiero dei pascoli, non sono soltanto il paesaggio ricorrente di Montelice, ma commentano e suggeriscono lo stato d’animo del prete, la povertà e lo squallore della vita della vecchia” (10)

Ma, oltre a questo, ancor più significativamente – proprio per il fatto di essere diventati, i luoghi di Casa d’altri, nella trasposizione narrativa, luoghi dell’immaginazione letteraria, ad essa prestati, – ne deriva che la descrizione del “mondo fisico” di Casa d’altri è, in realtà, il tragico contrappunto di “un mondo metafisico”. In uno dei lavori più recenti sull’opera di Silvio D’Arzo dal titolo “Luci sulla Contea. D’Arzo alla prova della critica tematica” di cui è autore Giulio Iacoli egli mette molto bene a fuoco questo aspetto quando dice: ”E’ un paesaggio statutariamente, irrimediabilmente confinario quello che include e demarca il mondo finzionale di Casa d’altri. Le coordinate narrative essenziali esplicitano questa situazione estrema, tematizzando il senso di estraneità al procedere del mondo…Si aggiunga poi, con Raffaele Crovi, che i luoghi di D’Arzo sono, senz’ombra alcuna di dubbio, <<non luoghi…>>. E ancora, <<tutti teatrali, tutti scenografici, tutti simbolici i luoghi toponomastici di D’Arzo;…sono frutto di una dislocazione in “altri” luoghi con personaggi che interpretano “altre” storie rispetto a quelle per le quali sono stati chiamati in scena: sono, in altre parole, luoghi metafisici>>. Dunque, per mezzo di tali collocazioni metafisiche la narrazione tende a una misura astratta e assoluta del racconto…” (11)

Ora, da questo punto di vista, mi sembra che il mondo di Casa d’altri – per poter ancor meglio comprenderlo – possa trovare un eco significativo in un libro come La malora di Fenoglio, il quale, tra l’altro, era quasi coetaneo di D’ Arzo, nonché, come lui, anglofilo e altrettanto solitariamente appartato, infine, non da ultimo, erano entrambi, D’Arzo e Fenoglio, scrittori “asciutti” che lavoravano “per sottrazione”. Proprio ne La malora Fenoglio ci mette di fronte la brutalità degli uomini e delle loro vite su cui incombe quella dannazione, quella “malora” appunto che li sovrasta e li pervade la quale, come un male oscuro, invade le esistenze e domina le cose. In quella realtà e in quel mondo non è dato sfuggire a quel destino e, come vittime di una inesorabile metafisica i personaggi hanno le loro vite iscritte in quel destino. E’ un mondo, quello descritto da Fenoglio ne La malora, spietato e avaro, dove l’umanità che pure tenta di continuo di affiorare è schiacciata dagli eventi. E, in tutto ciò, si ritrovano temi, evocazioni ed ispirazioni assolutamente presenti anche in Casa d’altri, se pur qui i toni e i significati sono virati in chiave più interiore e introspettiva, più individuale e personale, più poetica ed esistenziale e, in certo senso, più “cosmica”.

Vi è infatti, nel respiro del testo, come afferma Iacoli, “…lo sprigionarsi continuo di una materia altra rispetto al costrittivo mondo sociale ritratto nel paese, la convocazione delle immagini della natura che si dispongono, parrebbe, a perdita d’occhio alla contemplazione del lettore.” (12) E tuttavia, se la stasi e l’immobilità sono le condizioni ontologiche che incombono nel mondo di Casa d’altri, ciò non confligge con e non mortifica mai la tensione narrativa che si mantiene incessante e serrata tra il vecchio prete e la vecchia Zelinda che occupano da veri protagonisti la scena, laddove tutto ciò che succede intorno appare sempre lontano e irrilevante rispetto alla posta in gioco tra di loro: “tutto il resto è paesaggio” dice infatti il vecchio prete sminuendo ogni altro atto che non sia l’occuparsi di Zelinda: “…se il tuo mestiere è interessarti di tutti, comincia intanto a interessarti di uno: non più che uno solo. Fino in fondo però, fino alla radice a dir poco…Se no, galantuomo, risparmiati pure il sapone: tutto il resto è paesaggio”.

Il tempo narrativo è quindi scandito dall’attesa che si sveli quel “mistero” che Zelinda vorrebbe dire ma che gelosamente e tormentatamente nasconde e di cui, l’anziano prete, vorrebbe conoscere il contenuto per potercisi confrontare, così da poter riaffermare, soprattutto con se stesso, la “competenza” che la sua vocazione prevede. Insomma fare di quell’occasione l’occasione per tornare a “servire” nel senso alto del termine, per dimostrare che può dare ancora conforto e speranza a chi a lui si rivolga, che non è un prete fallito, che non è un uomo fallito. Si ha così il paradosso di un uomo, che sembra interiormente ormai condannato a morire, che vorrebbe tornare a vivere, e di una donna, interiormente ancora lucidamente viva, che vorrebbe morire. Zelinda diventa così, per il prete di Montelice, una “ossessione”, alimentata, come essa è, dal differimento continuo di quella rivelazione: il racconto registra infatti l’alternarsi di una interattività muta e a distanza – fatta, al massimo, solo di sguardi che sottendono tacite intese – con avvicinamenti ed incontri nei quali i dialoghi, quando ci sono, sembrano essere un’ “infrazione” all’imperante codice dei silenzi, e, comunque, contrassegnati da malintesi, passi falsi, repentini dietro front, appostamenti senza esiti, che “ritardano” la rivelazione del segreto di Zelinda.

Ma quando Zelinda svelerà, nella sua tragica nudità, quel suo segreto:

…se in qualche caso speciale, tutto diverso dagli altri, senza fare dispetto a nessuno, qualcuno potesse avere il permesso di finire un po’ prima.

Mi voltai senza aver ben capito

– Anche uccidersi…si, – spiegò lei con una tranquillità da bambina.

E si mise a guardare gli zoccoli”,

il prete non potrà far altro che provare vergogna:

Di mio non una mezza parola…E la cosa più brutta era che lei stette ancora in attesa di qualcosa come un minuto e anche più. Stava lì e continuava a sperare… – Zelinda…- cominciai io, ma così goffamente da provare vergogna di tutte le parole del mondo.”

Senza quelle attese parole che lei sperava di sentire e lui di dire finirà quell’incontro e in quel modo, da quel momento, finirà quella storia, la loro storia: “E adesso era finita. Qualcosa era successo, una volta, e adesso era tutto finito. Non provavo neppure dolore, però, né rimorso o malinconia o roba simile. Mi sentivo solo dentro un gran vuoto come se ormai non potesse capitarmi più nulla. Niente fino alla,fine dei secoli…Un’assurda vecchia: un assurdo prete: tutta una assurda storia da un soldo” dirà il vecchio prete alla fine.

E in tutto ciò e di tutto ciò quello che resta è un grande senso di delicatezza, quel senso di delicatezza che si prova costantemente leggendo questo racconto, che lo avvolge e lo sorregge, quella delicatezza che consente di rendere esprimibile l’inesprimibile, sopportabile ciò che appare insopportabile, vero ciò che è irreale, leggero ciò che schiaccia, pietoso ciò che è spietato, perché solo stando dentro questa delicatezza è possibile scrivere un racconto così.

*****

(1) Stefano Costanzi – “D’Arzo: lo spazio, i sensi e le immagini” – in (a cura di) Sandro Parmiggiani/ Leda Iotti – “Dedicato a Silvio D’ Arzo” – Edizioni Palazzo Magnani – Reggio Emilia – 2002 – p.23-24

(2) Così Montale in un breve quanto celebre ricordo, apparso sul “Corriere della Sera” del 10 marzo 1954, avente per titolo “Silvio D’Arzo”, nel quale Casa d’altri viene letto quale esemplare racconto lungo <<a mezza via fra il romanzo breve e la prosa poetica>>, ora in (a cura di) Sandro Parmiggiani/ Leda Iotti – cit., pp.119-120

(3) Eraldo Affinati – “Silvio D’Arzo: una vita in affitto” in Silvio D’Arzo – “Casa d’altri e altri racconti” – Einaudi – 1999 – p.XIII

(4) Gianni Celati – “D’ Arzo, lo stile di chi è straniero dovunque” – in (a cura di) Massimo Rizzante, Walter Nardon, Stefano Zangrando – “Finzione e documento nel romanzo” – Casa Editrice Università degli Studi di Trento – 2008.(Il volume raccoglie i contributi dell’ edizione 2008 del “Seminario Internazionale sul Romanzo”). Poi anche in “Zibaldoni e altre meraviglie” – sito on line; e in Gianni Celati – “Studi d’affezione per amici e altri” – Quodlibet – 2016

(5) E. Affinati – cit.. pp. XXI-XXII

(6) E. Affinati – cit.. p. XXI

(7) G. Celati – cit.

(8) E. Affinati – cit.. p. XV

(9) E. Affinati – cit., p. XXI

(10) Anna Luce Lenzi – “Silvio D’Arzo (<<Una vita letteraria>>)” – Tipolitografia Emiliana – 1977 – p.56

(11) Giulio Iacoli – “Luci sulla Contea. D’Arzo alla prova della critica tematica” – Mucchi Editore – 2017 – pp. 134-135

(12) G. Iacoli – cit., p. 135

8 risposte a "“Casa d’altri” – Silvio D’Arzo"

    • ilcollezionistadiletture 10 dicembre 2020 / 7:37

      Grazie molte per il tuo generoso apprezzamento. Il merito è tutto nella grandezza di D’Arzo e del suo racconto.
      Grazie ancora.
      Ciao
      Raffaele

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  1. Luisa Consolini 8 gennaio 2021 / 16:49

    Ti ringrazio anch’io per aver dato questa visibilità a un racconto magistrale che, confesso, ho scoperto da poco.
    Tuttavia, vorrei offrirti un punto di vista un poco diverso.
    Nella mia lettura, ho percepito la “lezione di anatomia” come un’ allusione a tutto il racconto, che sembra infatti un’ analisi ”anatomica”, con la sua materialità apparente ma un profondo senso di indagine sul funzionamento dell’ organismo umano.
    Monselice e quell’ Appennino è, a mio avviso, un ”luogo antropologico”, simile in funzione, ai luoghi liguri di confine di Biamonti. Con la differenza che mentre in Biamonti i personaggi sono tutti “dentro”, qui il prete guarda da fuori (casa d’altri appunto) ed è trascinato, suo malgrado, al dialogo con chi è dentro, rappresentato da Zelinda.
    Numerosi sono i segnali che il prete crede di aver capito tutto (non succede niente, si lasciano vivere ecc.) e in ciascun caso viene smentito (succede qualcosa, Zelinda non si lascia affatto vivere eccetera).
    Il prete prende un abbaglio via l’altro ed è forzato da una vecchia apparentemente vegetale a mettersi in gioco in un un vero e proprio dibattito teologico. La donna non vuole un aiuto come il prete è abituato a dare – vengono tutte da lui prima o poi – vuole che lui entri nella sua “casa” e vi adatta la morale di cui è portavoce. Insomma il corpo chiede all’ anatomista di mettersi in gioco.
    Vero è che, alla fine, di fronte a una Zelinda inusualmente piena di parole precise ed eloquenti, il prete cade nella afasia, ma la conclusione del racconto è molto aperta, cioè non esclude che Zelinda si sia uccisa e il prete le dia cristiana sepoltura senza indagare. Anzi.
    Io non ci trovo troppa metafisica, ma piuttosto il pensiero impossibile, reso possibile dalla finzione, di una vittima (come non accade in La malora e non ne I malavoglia) che ragioni lucidamente sul proprio destino con chi viene pieno di principi morali e precetti in “casa d’altri”. Il prete è esposto a una vertigine: il suo rinunciare a capire – storia assurda, fare le valigie – è in realtà una trasformazione, quasi una vittoria postuma di Zelinda (che in vita aveva comunque guidato la partita a modo suo).
    Scusa la lunghezza del commento.
    Luisa Consolini

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    • ilcollezionistadiletture 9 gennaio 2021 / 11:58

      Grazie a te per la lettura e l’attenzione prestata.
      Il fatto che “Casa d’altri” susciti punti di vista diversi ne conferma tutto il suo valore e tutta la sua ricchezza e quindi va a suo merito questa sua capacità. Anche per questo concordo pienamente sul fatto che sia un racconto magistrale.
      Ho letto a mia volta con attenzione le tue considerazioni.
      Che la “lezione di anatomia”, oltre che richiamare il significato testuale e visivo a cui mi sono riferito, che resta secondo me il più immediato – per ciò che implica in termini di evocazione del senso di irrealtà che aleggia in quella scena e, in generale, nel testo – possa, tuttavia, a livello per così dire metatestuale, evocare l’ “indagine” che il prete compie intorno e su Zelinda, assumendo in tal senso i panni dell’anatomista è un’ipotesi interessante. Il racconto è, in effetti, una sorta di “osservazione” in senso esistenziale compiuta dal prete su Zelinda non dissimile dall’osservazione che il dottor Tulp e gli astanti che lo circondano compiono intorno al cadavere nel quadro di Rembrandt.

      Zelinda rappresenta sicuramente per il prete una situazione limite che irrompe in quella realtà immobile e senza tempo, a cui il prete è passivamente e rassegnatamente abituato e quindi le loro posizioni sono specularmente asimmetriche.
      Il contesto di Montelice, che è il “dentro”, è quello in cui il prete vive, di cui, i personaggi di contorno che appaiano nel racconto sono testimoni, con i loro riti, uguali se stessi, che essi devono organizzare. Rispetto ai quali il prete rivela di sentirsi ormai estraneo e indifferente, ma dei quali comunque è ancora parte. Appartenendo quindi anche lui, ancora, a questo “dentro”.
      Mentre Zelinda è una cosa nuova e viva che il prete ha capito, da subito, essere un’occasione, per lui, per tornare a vivere, se riuscirà a risolvere l’”enigma” di ciò che, tormentatamente, Zelinda trasmette. Zelinda, però, si sente ormai un’estranea nel mondo, appunto in casa d’altri, dato che non prova più nessun senso di appartenenza per tutto ciò che la circonda ed è per questo che vuole morire.

      Il punto quindi secondo me è che Zelinda è già “fuori” dal mondo, non vi appartiene più, e il prete che invece, suo malgrado, al mondo continuava ad appartenere, arriverà, dopo l’”incontro” con Zelinda a sentirsi anche lui pienamente e coscientemente in casa d’altri, anche lui un estraneo che nel mondo non ha più un suo posto. Certo che Zelinda trascina il prete sul suo terreno ma, di fatto, lo fa traghettare definitivamente “fuori” dal mondo che significherà, in concreto. per il prete. evocare la morte.

      Egli non ha argomenti per “tenere” al mondo Zelinda e quindi la perde e perdendola perde anche se stesso. E di questo egli è consapevole e sente in pieno il peso della sconfitta sia come prete che come uomo, soffrendone amaramente.
      Non vi sono quindi risposte di nessun genere, né religiose, né di altro tipo e così sia Zelinda che il prete si ritrovano soli e da soli di fronte ad una situazione che rivela come l’uomo possa arrivare a non essere padrone di sé, padrone del suo destino e della sua vita, da qui la natura metafisica del racconto.

      Nulla esclude che Zelinda si sia uccisa, né che sia morta di morte naturale, per esempio Montale, nell’articolo a cui ho fatto cenno, ipotizzava questa seconda soluzione, ma non si può dire, né sapere e, in fondo, non penso che sia davvero importante saperlo, perché quello che conta davvero, secondo me, è il mutismo, il silenzio, la mancanza di risposte, l’indicibilità che certe cose hanno, che così come è riuscito D’Arzo a renderle in questo racconto, rivelano tutta la loro potenza e, al tempo stesso, tutta l’impotenza che esse suscitano.

      Ci sarebbero anche altre cose da dire ma mi fermo qui.

      Ti ringrazio per questo confronto e per queste considerazioni ulteriori che mi hai dato modo di riportare e scusami, anche tu, per la lunghezza.

      Raffaele

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  2. Rino Palma 9 luglio 2021 / 15:26

    Un’analisi eccellente che mi sono permesso di condividere sulla mia pagina di Facebook.

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  3. Francesco Paolo Giannilivigni 14 settembre 2021 / 3:01

    Casa d’altri,nella prospettiva di Silvio D’Arzo,costituisce l’assurda dialettica di una incomunicabilita’ che attraverso l’uso di forme di allitterazione para-simbolica intende affermare l’esigenza di una comunicazione primordiale capace di legare e disunire i flussi vitali dei soggetti che risultano essere coinvolti nella stessa stesura narrativa e della quale rappresentano le figure imprescindibili di un’accettabile comprensione coerente.

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