“Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” – Carlo Emilio Gadda

Non si può, a proposito del “Pasticciaccio” (“P.”) e, più in generale, a proposito di Gadda, non porre e non porsi, prima di tutto, il problema della sua “leggibilità”. E ciò in relazione al suo tratto più noto e peculiare che trova, proprio nel “P.”, il suo massimo riscontro e cioè il linguaggio. Quel linguaggio che ha consacrato Gadda come il più grande innovatore tra i nostri scrittori del Novecento facendone, per molti, il più grande tout – court. Tuttavia quel linguaggio, proprio per la sua straordinarietà, implica per il lettore un indiscutibile impegno, un’abnegazione paziente, un esercizio costante dovuti a quella straripante ricchezza espressiva che trasforma anche la più minuta e, apparentemente, insignificante descrizione in una creazione a sé. Con una iperproduzione di immagini, citazioni, riferimenti e dettagli, ma anche di evoluzioni e involuzioni della lingua, che dilatano in mille rivoli quella descrizione. In altre parole, come è stato osservato, Gadda “…richiede al lettore immersioni che comportano allenamento del respiro e dei muscoli e un addestramento dell’intelligenza e dell’immaginazione adeguati a comprendere la ricchezza e la varietà dei suoi fondali in cui galleggiano frammenti di una immensa enciclopedia dei saperi” (1)

Ora, come è noto, il linguaggio del “P.” è il frutto di un’originale ed irripetibile combinazione e contaminazione di vari linguaggi fatto, come esso è, di arcaismi, di dialettalismi – tra i quali svetta e campeggia il romanesco, in sintonia con l’ambientazione – e poi di espressioni popolari e dotte, di citazioni letterarie, artistiche e scientifiche. E’ un linguaggio ora alto, ora basso, contemporaneamente raffinato e popolano, risultando quindi polifonico e polimorfico, mai unitario, ordinato, omologante. Vi si alternano brandelli di dialoghi, scorci descrittivi, cronache di fatti e persone, ma anche toni e ritmi diversi, dall’aulico al comico, dal formale all’informale, fino a delle vere e proprie invenzioni e storpiature linguistiche. Sicuramente quindi gli scarti e le temerarietà della lingua gaddiana hanno una loro intrinseca complessità la quale, però, non è cercata per creare complessità riducendo in tal modo la prosa ad una sorta di sperimentazione linguistica.

Al contrario la complessità della lingua di Gadda è lo specchio e lo sbocco, naturale e necessario, della straordinaria consistenza narrativa della scrittura di Gadda. Cioè della sua grandissima capacità narrativa resa appunto attraverso quella sua personalissima macchina linguistica: mimetica e depistante. Il linguaggio non è quindi causa della complessità ma ne è conseguenza, essendovi “a monte” un contenuto narrativamente complesso, giacché la proliferazione delle voci e delle prospettive serve a Gadda per rendere gli svariati rivoli in cui la realtà si dipana. L’imponderabile e il frastagliato che per Gadda dominano la realtà delle cose trovano infatti in quel linguaggio il modo per essere rappresentati e detti.

Lungi quindi dall’essere un mero “sperimentatore” Gadda è, al contrario, un grandissimo disarticolatore, deflagratore e sovvertitore della realtà e della sua comprensibilità, tanto da far dire a Gianfranco Contini che “il Gadda narratore rischia di essere perfino più temerario del Gadda stilista” (2). Leggere Gadda, e in particolare il “P.”, significa quindi confrontarsi con questa ricchezza conoscitiva, immaginativa, interpretativa e percettiva veicolata da quel linguaggio tipico e inconfondibile. Laddove, sotto questa luce, la “leggibilità” anche ostica, trova senso e significato nel momento in cui ogni singola pagina, potremmo dire ogni singola riga, apre e si apre ad un ampliamento e ad un’estensione continua delle prospettive di riferimento e dei significati che essa contiene.

E’ imprescindibile in questo senso quell’idea tutta gaddiana della realtà come “garbuglio” che trova nel “P.” la sua famosa traduzione nel termine “gnommero” che Gadda fa pronunciare all’altrettanto famoso personaggio del commissario Ingravallo, incaricato di risolvere quel misterioso delitto avvenuto al “duecentodiciannove de Via Merulana” (sul cui muro esterno del palazzo tutt’ora esistente è posta una targa che rende omaggio a Gadda e al suo capolavoro), di cui è stata vittima la “sora Liliana”, cioè quella signora Liliana Balducci, sulla quale e a partire dalla quale si irradieranno molti altri ed intricati misteri.

E il mondo come irresolubile intrico di cose è proprio quella “filosofia” che Gadda attribuisce e fa esplicitare a Ingravallo, di fatto suo alter ego, all’inizio del romanzo: “Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’ un unico motivo, d’una causa al singolare. Ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo”

Per Gadda quindi “…l’intreccio del romanzo, come quello della vita, ha da rispondere “all’istinto delle combinazioni cioè al profondo ed oscuro dissociarsi della realtà in elementi”…” e perciò i suoi romanzi “… La cognizione del dolore e Il pasticciaccio mettono in scena proprio l’irrazionale dissociazione della realtà sminuzzando in frammenti la materia vivente e narrativa o riallacciandone i fili in maniera ingarbugliata” (3).

Peraltro, come è stato osservato, la scelta stessa fatta da Gadda di adottare il termine “pasticciaccio” sottolinea e rinforza l’aspetto della compresenza mischiata di vari elementi e della loro inestricabilità resa, peraltro, ancor più cupa ed oscura dal termine “brutto” che a “pasticciaccio” fa seguito: “Gadda nel titolo del suo giallo sui generis non utilizza né assassinio, né delitto, né caso, né dramma, bensì pasticcio, nella forma accrescitiva di pasticciaccio: a indicare la confusione dell’accaduto, il groviglio conoscitivo, il nodo dell’inchiesta difficile da sciogliere….Ma anche, in prospettiva metatestuale, a indicare le modalità di costruzione del romanzo, che si configura esso stesso come un pasticcio, cioè come una mescolanza di parti non omogenee, antiche e moderne, secondo il significato che il termine ha ancor oggi in architettura e nelle arti plastiche… Nella pagina del Pasticciaccio, come sul suolo di Roma e della campagna romana, in effetti si incontrano e mescolano fonti antiche e moderne, suggestioni di diversi tempi, origine e natura, rese tutte funzionali a una nuova narrazione” (4)

Se quindi il “P.” è la creazione, attraverso la combinazione e la contaminazione di più stili e linguaggi, di una “nuova narrazione” cioè di un modo nuovo di scrivere e di esprimersi, dando vita ad uno stile e ad una lingua nuovi, questo però avviene in funzione di un’ idea ben precisa che Gadda ha della realtà e delle sue possibilità di rappresentazione. In altre parole il termine “pasticciaccio” è anche un concetto, anzi il concetto che sovraintende l’opera di Gadda. Se infatti l’esistenza e di conseguenza la letteratura si configura per Gadda come lotta contro quel groviglio di cose e di fenomeni che è il mondo, il cui caos egli inscena attraverso quel suo linguaggio fatto di codici diversi accostati e mescolati fra loro, la letteratura posta di fronte a quel “pasticciaccio” che è la realtà non può che rivelare e svelare l’impotenza che domina l’esistenza divenendone di fatto la cartina di tornasole. Detto in altri termini la letteratura non può che attestare “l’impossibilità di attingere ad una verità.” (5)

E, a suo modo, Gadda si “vendica” dell’assurda complessità del mondo e del suo caos portandola al massimo di intensità proprio attraverso quella costruzione “artificiale” che è la lingua che egli “inventa” la quale, attraverso lo straniamento che produce, mette a nudo il non-senso e il ridicolo della normalità. Peraltro egli stesso in un testo su di sé, da lui stesso stesso scritto, si era espresso in questi termini: “Nella mia vita di “umiliato e offeso” la narrazione mi è apparsa, talvolta, lo strumento che mi avrebbe consentito di ristabilire la “mia” verità, il “mio” modo di vedere, cioè: lo strumento della rivendicazione contro gli oltraggi del destino e dé suoi umani proietti: lo strumento, in assoluto, del riscatto e della vendetta.”(6)

Da qui derivano la parodia e il sarcasmo che compenetrano la scrittura di Gadda dove la dissacrazione e la ridicolizzazione dei “valori” rivelano il suo accanimento contro qualsiasi illusoria ricerca di senso e qualsiasi illusorio ancoraggio alla razionalità dei luoghi comuni. E, nel solco di questa ispirazione dissacratoria, la sua scrittura, composita e centrifuga, va alla ricerca di rapporti causa – effetto sviandosi in interminabili piste senza però ricondurre a cause risolutive la trama fittissima degli eventi.

In questo modo il genere letterario del “giallo” viene “smontato” in quanto la ricerca delle cause e, con esse, dell’assassino, su cui il “P.” ruota, perde in realtà per Gadda ogni valore risolutivo. La causa o movente dell’omicidio si colloca infatti all’interno di un gomitolo inestricabile di relazioni così che, anche se il colpevole venisse individuato e scoperto, non si sarebbe in realtà spiegato nulla. Essendo quindi per Gadda del tutto irrilevante sia la soluzione in sé del suo ”giallo”, sia il “giallo” in quanto genere, a fronte invece del mistero e dei misteri – che sono il vero oggetto narrativo – che gravano su quel ”giallo” che diventa, ben più significativamente, metafora della vita stessa. Perché Gadda, come è stato osservato, è proprio questo che insegue: “…Gadda insegue, l’ambiguità, l’incertezza e il mistero nascosti nei fatti” (7)

L’investigazione attorno ad un atroce delitto diventa perciò l’occasione per un’indagine sui meccanismi della realtà e sull’inestricabile groviglio dei suoi rapporti causali. E nel fare ciò l’analisi gaddiana che rifiuta le grandi prospettive storiche si appunta sui dati di costume, sui moventi segreti e torbidi della psicologia degli individui, sui particolari minimi delle abitudini e dei comportamenti, inserendosi in tal modo Gadda, a pieno titolo, in quel processo di rinnovamento che segnerà profondamente la letteratura del ‘900.

Quel processo che porterà all’abbandono di un’idea del mondo soggetto e governato da leggi razionali e concepito come una totalità unitaria e in sé conclusa, in cui è possibile arrivare a una fine, a una conclusione e perciò a una verità. La conoscenza divenendo relativizzata diviene parziale, caratterizzata dal non finito e dall’incompiuto, dando luogo ad un “relativismo conoscitivo” che, come è stato osservato, “…induce gli scrittori del Novecento (Pirandello, Svevo, Gadda, per citare i maggiori) ad abbandonare ogni pretesa di conoscenza e rappresentazione oggettiva del reale, orientandoli piuttosto verso la sua scomposizione e/o deformazione: i dettagli, i frammenti, i particolari a prima vista irrilevanti risultano, ora, più importanti rispetto ad una totalità che appare inafferrabile, inspiegabile. Le trame dei romanzi divengono insignificanti o sono “aggrovigliate” al punto da non riuscire a dipanarne i fili [come] nei romanzi di Gadda…Le storie narrate non hanno più un andamento lineare, ma piuttosto “circolare” o addirittura “spiraliforme”, sono storie che…si avvitano su se stesse senza arrivare a conclusione” (8)

E, a questo livello, conta accennare al paradosso della “distanza” tra la formazione di Gadda, che come è noto era ingegnere, e la sua concezione assolutamente non lineare e non razionale della realtà e del mondo sin qui descritta, in evidente contrasto con la sua formazione. Il che lo assimila ad un altro dei grandi protagonisti della letteratura europea del ‘900 e cioè Robert Musil, anche lui ingegnere e anche lui interprete, nell’opera che lo ha consacrato e cioè “L’uomo senza qualità”, del romanzo come “non finito” che si sviluppa per linee parallele, estraneo anch’esso ai principi di razionalità e consequenzialità. Ma in ciò, così come è stato osservato, essi si rivelano gli interpreti più rilevanti della “…crisi definitiva del nesso di causalità, avendo risentito entrambi della fine della visione meccanicistica del mondo moderno nel quale al nesso causa/effetto si è sostituita la ben poco rassicurante dialettica ordine/disordine. La «fuga nell’arte» compiuta dai due scrittori…va allora letta come tentativo di sottrarsi alla crisi o di reagire ad essa attraverso gli strumenti dell’analisi o della «mimesi» interpretativa della realtà. Insomma, “L’uomo senza qualità” di Musil, “La cognizione”e il “Pasticciaccio” di Gadda risponderebbero alla medesima esigenza di coniugare “verità” e “soggettività”, esattezza (della scienza) e contraddizione (del reale), di far coesistere Logos e Caos nell’unico ambito dove fare ciò è possibile: la letteratura.” (9)

Ma l’esito di questa compresenza di polarità opposte non è la loro coesistenza indolore bensì un magma che fuoriesce non appena si rompe l’involucro delle apparenze, così come accade nel “P.”. Nella dialettica ordine/disordine è quest’ultimo che dietro la facciata ordinata delle cose appare e penetra inesorabile la realtà, svelandone intrighi e inafferrabilità, minando alle radici qualsiasi idea di stabilità e sicurezza, gettando un senso di precarietà e di oscuro malessere su ciò che accade.

Già l’ambientazione del “P.” è, in questo senso, indicativa laddove prima quel furto dei gioielli nell’appartamento di fronte a quello della Balducci, poi l’assassinio della Balducci che, in rapida successione, avvengono in “quer gran palazzo der duecentodicinnove dove non ce staveno che signori grossi” cioè tutte persone “bene”, rivela che anche lì le cose prendono una piega diversa rispetto a quello che quell’immagine di esclusività farebbe pensare. Vi è quindi nel “P.” uno schema che rimanda ad una ben precisa concezione e visione in cui le cose non sono quelle che appaiono: la loro forma è alterata e viziata dall’ inatteso e dall’impensato; il disordine interno delle cose erode e mette a nudo l’ordine esterno rivelandone ora la sua fragilità, ora la sua inconsistenza, ora il suo contenuto perturbante.

La trama stessa, se pur “ordinata” secondo il canone del genere letterario, essendo in primo piano tutti gli elementi del romanzo giallo, viene violata costantemente. E, come è stato osservato, “Lo scrittore finisce così per incrinare, se non la verosimiglianza, l’efficienza narrativa del romanzo, non riproducendo un fatto o una serie di fatti ma un insieme frantumato di fenomeni che possono collegarsi gli uni agli altri ma che non formano necessariamente un complesso trasparente, armonico e chiuso.” (10) In tal senso il trovarci di fronte ad un giallo in cui non si scopre il colpevole finisce per farne mancare la sua ragione essenziale, il suo stesso fine, cioè la soluzione che ristabilisce l’ordine. In altre parole se il giallo deve segnare il trionfo della razionalità, il “P.”, che arriva al suo finale al di fuori di essa, ne segna invece il fallimento.

Mancando la conoscibilità ordinatrice il romanzo si realizza allora non nel raggiungimento della conoscenza ma nella tensione verso la conoscenza. Come a voler raggiungere quella verità, quell’esattezza, quel Logos che pur dovendo abdicare all’irrazionalità del mondo, tuttavia ad essa non si arrende, nella volontà e nello sforzo di portare il proprio sguardo conoscitivo più in fondo possibile. La moltiplicazione dei nessi, delle piste, dei rimandi è quindi anche metodo, cioè costruzione di ipotesi e di percorsi con cui Gadda dà e riconosce valore al processo della conoscenza, pur a fronte della consapevolezza dell’ineluttabile crisi a cui quel processo è destinato. E Ingravallo è il tramite attraverso cui Gadda trasferisce all’interno del romanzo questo processo. Infatti – come è stato osservato – “…Ingravallo è un personaggio molto autobiografico. Perché come Gadda sente il compito dell’ordine e ha la consapevolezza del disordine” (11)

Le indagini diventano così strumento di scoperte e, in primo luogo, di scoperte sui personaggi, ma più esse si ampliano e si amplificano, più aumenta ed ha il sopravvento l’oscurità del mistero. Esemplare in questo senso è la figura di Liliana Balducci che più che la vittima di un delitto di cui si deve trovare il colpevole diventa un mistero da sciogliere anzi il mistero per eccellenza, rivelandosi l’ ”ordine” nel quale ella conduce la sua vita pervertirsi nel proprio contrario; l’iniziale “verità” sulla vita e la persona di Liliana Balducci si trasforma infatti in una sequenza di “disordini” che ne infrangono e ne deformano quella verità.

E il deformare nel senso di snaturare, deviare, modificare, scomporre, deturpare, svelare il modo in cui le cose, a prima vista, sono e si presentano è una costante del “P.”, dando in tal senso al romanzo, sia stilisticamente che concettualmente, un’impronta profondamente espressionista che evidenzia ancor più quelle seconde nature che le cose hanno. D’altro canto, come afferma in modo esplicito Michele Mari: “…in Gadda non si dà conoscenza che non passi per una deformazione.” (12).

Il che se è vero in senso tecnico-scientifico come Gadda ben sapeva, avendo egli stesso affermato in “Meditazione milanese”: “Conoscere è inserire alcunché nel reale, è, quindi deformare il reale”, ad intendere che l’osservatore, con il semplice atto di osservare, interviene sull’evento, modificandolo, ciò tanto più vale per la letteratura. Nella quale l’insita ampiezza dei suoi gradi di libertà libera da qualsiasi illusoria rappresentazione oggettiva e consente di sfaccettare tutte le possibili distorsioni della realtà e crearne di nuove. Il che, nel caso del “P.”, conduce, come ha osservato Italo Calvino al deformarsi “dal di dentro” della struttura stessa del romanzo: “La struttura del romanzo si deforma dal di dentro, per l’eccessiva ricchezza della materia rappresentata e per l’eccessiva intensità di cui l’autore la carica.” (13) Finendo così per crearsi, nella scrittura di Gadda, per effetto di quest’ enorme densità linguistico-narrativa, congestioni, ipertensioni, ingorghi.

E deformata appare già l’immagine di Liliana Balducci nella descrizione del suo cadavere alla mercé dei fotografi, nel contrasto fra la sua condizione di “vittima” offesa e tuttavia ancora bella e delicata: – “Operavano sulla “vittima” senza riguardarne la pena, e senza poterne riscattare l’ignominia. La bellezza, l’indumento, la spenta carne di Liliana era là: il dolce corpo, rivestito ancora agli sguardi” – e la “turpitudine”, se pure involontaria, del suo aspetto, quasi ella si stesse concedendo a quegli sguardi, la cui descrizione fa immediatamente seguito alla precedente: – “Nella turpitudine di quell’atteggiamento involontario – della quale erano motivi, certo, e la gonna rilevata addietro dall’oltraggio e l’ostensione delle gambe, su su, e del rilievo e della solcatura di voluttà che incupidiva i più deboli…”. – Per risolversi, poco dopo, in una attestazione dello sfaldarsi della sua stessa capacità di stare al mondo, trasmessa dal suo aspetto: – “Come il risolversi d’una che non ce la fa più ad essere e ad operare come tale, nella caduta improvvisa dei rapporti, d’ogni rapporto con la realtà sistematrice”. – In un passare repentino quindi dalla condizione di vittima innocente e immacolata a quella di chi dà l’impressione di essere torbidamente invischiato nel male, per giungere a quella di chi non è più in grado di stare in relazione con le cose e, soprattutto, con l’ordine delle cose, cioè con “la realtà sistematrice”.

Ma il contrasto armonia/disarmonia domina il personaggio di Liliana Balducci anche da viva, risaltando il conflitto fra i suoi modi affabili, eleganti, morigerati – improntati come essi sono alla disciplina e all’ordine – e quella che è invece l’interiorità e l’intimità dei pensieri e dei vissuti che trasmette e che trapelano. Dai quali emanano tormenti che parlano di un disordine esistenziale in cui Liliana Balducci vive.

Ingravallo, che ben conosce la Balducci – da prima della sua morte e da prima delle relative indagini delle quali, ironia della sorte, è stato incaricato – essendone frequentatore della casa in quanto commensale di quei pranzi domenicali ai quali è invitato da lei e dal marito, un giorno, proprio mentre è a tavola con loro, così descrive tra sé e sé Liliana Balducci: “…e il di cui sguardo pareva licenziare misteriosamente ogni fantasma improprio, istituendo per le anime una disciplina armoniosa: quasi una musica”. Da questa descrizione Liliana Balducci appare come ammantata di candore, capace di infondere serenità e pace intorno a sé, al punto di apparire agli occhi di Ingravallo quasi celestiale. Eppure nello stesso frangente, solo pochi istanti dopo, Gadda così ci descrive Ingravallo che si sofferma a riflettere su certe “uscite” della Balducci: “Ingravallo notò che due o tre volte, a mezza voce, aveva detto mah! Chi dice ma, cuore contento non ha. Una strana mestizia pareva soffonderle il viso, nei momenti in cui non parlava o non guardava i commensali. Una idea, una preoccupazione la teneva? celandosi dietro alla cortina dei sorrisi, o delle attenzioni gentili? e dei discorsi non già voluti o studiati, ma pur sempre molto garbati, di cui amava inghirlandare il suo ospite? Il dottor Ingravallo a quei sospiri, a quel modo di porgere, a quegli sguardi che talora divagavano tristi, e parevano tentare uno spazio o un tempo irreali da lei sola presagiti, si sarebbe detto, a poco a poco aveva preso a farci caso; ne aveva dedotto altrettanti indizi, non forse di una disposizione originaria ma di una condizione attuale dell’animo, di uno scoramento crescente”

Vi sarebbe quindi una “crepa” nell’animo e nella vita di Liliana Balducci da cui fuoriesce una sofferenza e un malessere che, ben diversamente da quella prima impressione di calma e di compostezza descritta da Ingravallo, fanno presagire che Liliana Balducci non sta bene, in altre parole che è infelice. E quando, dopo morta, Ingravallo darà una sorta di diagnosi di quell’infelicità della Balducci egli così si esprimerà: “[aveva la] psicosi tipica delle insoddisfatte, o delle umiliate nell’anima: quasi, proprio una dissociazione di natura panica, una tendenza al caos”. Quindi all’iniziale “disciplina armoniosa” che risponde ad un principio di ordine inappuntabile, fa riscontro alla fine quella “tendenza al caos”, sintomo di un disordine estremo. In altre parole, come è stato osservato: “Nel medesimo personaggio coesistono due inclinazioni opposte e contraddittorie [e]…La personalità antitetica di Liliana è riassunta bene in una descrizione ossimorica di Ingravallo (“dolcissimi momenti della tristezza di lei”)” (14)

L’indagine diventa perciò, in parallelo a quella sul delitto, un’indagine sulla figura di Liliana Balducci, sul recondito e il non detto che gravano su quel “groppo” che si porta dentro. E più se ne scoprono i termini più se ne intorbidiscono le implicazioni, rivelandosi i “percorsi” di Liliana Balducci segnati dall’impotenza e da avvitamenti che la renderanno sempre più sola con se stessa e sempre più vulnerabile. Ed “E’ proprio questa sua singolarità, questa sua impossibilità di instaurare un rapporto con la realtà a segnare la sorte di Liliana, destinata a soccombere”. (15) Perché da pura e semplice vittima inerme ed indifesa di quel delitto qual essa appare, in realtà si svelerà che Liliana Balducci l’aveva dentro di sé cercata e desiderata quella morte, che era “avviata mentalmente alla morte, [che era] in intensa attesa della morte” (16) pur senza averne mai dato alcuna palese manifestazione o esternazione.

Ma in questo Liliana Balducci é l’acme, il punto più alto che raggiunge all’interno del “P.” la questione del mistero del femminile assunto, a sua volta, come simbolo dell’idea stessa di mistero. Nel “IX” Capitolo Gadda, a un certo punto, fa dire, con tono di rassegnata saggezza popolare, al semplice e modesto conducente del calesse su cui questi sta trasportando le due cugine Lavinia e Camilla Mattonari, convocate dai Carabinieri in caserma, in quanto coinvolte nelle indagini, nonché due delle tante e per lo più sfuggenti figure femminili presenti nel “P.”: “La donna è un gran mistero…Le donne bisogna studialle bene prima de comincià, sentenziava:…perché la donna è un mistero”.

Ma questa ricorrenza del femminile sia come presenza di personaggi, tanto che è stato rilevato come “…il “Pasticciaccio”, a ben guardare, si presenta come un intreccio multiplo di storie di donne che si richiamano, si rispecchiano, scompaiono e tornano” (17), sia per l’ambivalenza e la sfuggevolezza dei caratteri di tali personaggi, avvolti come essi sono in un alone di mistero assume una valenza simbolica che va oltre lo specifico del femminile. Come è stato infatti notato nelle narrazioni gaddiane “…la rilevanza che le figure femminili vi assumono [è] simbolo del groviglio conoscitivo…come espressione dell’ Altro – non solo l’altro sesso ma anche il Mondo – come incarnazione di ciò che sta fuori dell’ Io e che insieme lo contiene” (18) Detto diversamente tutto ciò che sta al di fuori della ragione e ha una sua autonomia finendo per comandare sulla ragione.

La complessità dell’irrazionale assume quindi una più precisa valenza che rimanda ad una dimensione più profonda ed interiore la quale attiene alla sfera degli istinti e delle emozioni, dei sentimenti e delle passioni, in sintesi: ”Il groviglio è metafora di una visione irrazionale del mondo, in cui giocano soprattutto spinte erotiche ed affettive” (19) E questo è Gadda a farlo dire ad Ingravallo già nel primo capitolo: “…soleva dire, “ch’i’ femmene se retrovano addò n’i vuò truvà”. Una tarda riedizione italica del vieto “cherchez la femme”. E poi pareva pentirsi, come d’aver calunniato ‘e femmene, e voler mutare idea….Sicché taceva pensieroso, come temendo d’aver detto troppo. Voleva significare che un certo movente affettivo, un tanto o, direste oggi, un quanto di affettività, un certo “quanto di erotia”, si mescolava anche ai “casi di interesse”, ai delitti apparentemente più lontani dalle tempeste d’amore.”

Il mistero avvolge quindi per Gadda quella sfera dell’esistenza segnata dalla sensibilità e dalle sensibilità che restano a loro volta misteriose nelle loro manifestazioni e nelle loro incarnazioni. Delle quali Gadda elegge a simbolo quelle femminili. E di quelle sensibilità, fino a farsi ipersensibilità, era intensamente e fortemente portatrice Liliana Balducci. La madre morta di parto quando Liliana era ancora bambina: “Liliana aveva perduto la madre, quand’era ancora bambina. Complicazioni sopravvenute al parto, il secondo. E la creatura pure.”, lascia un segno che diverrà un presagio e, al tempo stesso, una maledizione, perché Liliana da adulta vivrà l’impossibilità di poter avere figli e il suo desiderio inesaudito di poter diventare madre la affliggerà finendo per assoggettarla a ad una persistente malinconia.”Per ben sette volte nel romanzo la parola “malinconia (o uno dei suoi derivati) è legata all’infelice madre. Sembra quasi che questo tratto denotativo segua un climax ascendente di tensione e di complessità che segue lo svolgersi della trama” (20) Si va infatti da iniziali connotazioni di signorilità insite nella malinconia di Liliana come quando viene definita“[la] nobile malinconia della signora Liliana”, per poi essere descritta come manifestazione di una fissazione: “certe fissazioni malinconiche della signora”, per finire associata, nella sua ultima apparizione, al sintomo di una follia: “La sua disperazione e la sua speranza (vana) si erano coagulate in una follia malinconica”.

Né il marito gli è di alcun conforto, incapace come egli è di comprenderla. Spesso assente: “Viaggiava tredici mesi all’anno” e, soprattutto, grossolano e fedifrago. Infatti così Ingravallo lo considera: “Conosceva il Balducci per cacciatore, e cacciatore fortunato. Cacciatore in utroque. In cuor suo gli rimproverava certa mascolina grossezza, certe fanfaronate…certo egoismo o egotismo un po’ da gallinaccio: con una creatura simile! Si sarebbe detto, a voler fantasticare, ch’egli, il Balducci, non avesse valutato, non avesse penetrato tutta la bellezza di lei. Quanto vi era in lei di nobile e di recondito: e allora…i figli non erano arrivati. Quasi per una incompatibilità gamica dei due spiriti”. Quasi, cioè, che un misterioso groviglio avesse fatto interferire fra loro funzioni fisiologiche e vita psichica.

Ma se ancora una volta le apparenze danno una facciata ordinata alle cose dato che Liliana Balducci resta comunque fedele al matrimonio: “il matrimonio è un sacramento, uno dei sette del Signor nostro”, dice in ossequio al suo spirito religioso, al quale si aggrappa e col quale si scherma, in realtà ella cerca di surrogare il suo bisogno inadempiuto di maternità con mezzi che contrastano con quello spirito date le loro modalità ambigue e contorte. A partire da quell’andirivieni di domestiche e di sedicenti “nipoti” che, come una sorta di figlie adottive, Liliana Balducci prende in casa e sulle quali Ingravallo si interroga perplesso: “…allorché il fardello delle sue private opinioni sulle concause affettive (lui diceva anzi erotiche) degli accadimenti umani lo portò a considerare, ovviamente, che una nipote in quelle condizioni non era una nipote ordinaria…Dietro quel nome “nipote” ci doveva stare nascosto tutto un groviglio…di fili, un ragnatelo di sentimenti, dei più rari,…delicati…E le serve! Sta bene che frullan via come passere al primo stormir d’un capriccio: ma i Balducci, via! Ne cambiavano, si può dire, una al mese…La signora Liliana non potendo scodellare del proprio…Così ogni anno: il cambio della nipote doveva di certo valere nel suo inconscio come un simbolo, in sostituzione del mancato scodellamento”.

Un flusso di fanciulle penetra quindi nel romanzo raccogliendosi intorno a Liliana ma non solo in chiave sostitutiva del “mancato scodellamento” ma delineandosi anche un ambiguo rapporto di seduzione omoerotica tra Liliana e le sue protette. Un flusso erotico che trova la sua più esplicita apparizione nel personaggio di Virginia, una delle “nipoti” che sarà anche una delle principali sospettate dell’assassinio di Liliana. Così è ben sintetizzato il “profilo” di Virginia da M. A. Terzoli: “… la splendida e sprezzante Virginia, terza nella serie delle “nipoti” adottive…una cupa figura diabolica, quasi incarnazione del demonio. Personaggio inafferrabile e inquietante, mai direttamente in scena in tutto il romanzo, ma evocata da voci ammirate e paurose …Il suo violento erotismo nei confronti di Liliana, sembra del resto contenere i segnali della futura aggressione mortale, frammenti di verità decifrabili però solo a posteriori: ”La baciava come po bacià una pantera, dicennole: “Sora mia bella Liliana, voi siete ‘a Madonna pe mme!” poi, basso basso, in un tono di ardore anche più soffocato: “Ve vojo bene: bene, te vojo: ma una vorta o l’antra me te magno”: e le strizzava il polso, e glie lo storceva, fissandola: je lo storceva come in una morsa, bocca contro bocca, de sentisse er fiato der respiro in bocca, l’una co l’artra, zinne contro zinne…Un giorno, in un accesso d’amor filiale, davvero je mozzicò un’orecchia”. (21)

Peraltro, Ingravallo, all’inizio delle indagini, ancora ignaro di questi retroscena, rivedendo mentalmente la scena del delitto, tende a propendere per un torbido delitto a sfondo passionale, la cui descrizione sembra evocare proprio il personaggio di Virginia: “Il modo del delitto…là, quegli occhi, la orrenda ferita: un movente, forse, più torbido. Quella gonna…così!…buttata addietro, come da un colpo di vento: una vampa calda, vorace, avventatasi fuori dall’inferno…L’eccidio “aveva tutto l’aspetto di un delitto passionale”. Oltraggio? Brama? Vendetta?”

Siamo quindi di fronte ad una trasformazione di quelle “finte” adozioni in una loro forma torrida e violenta, in cui agli istinti materni e filiali si sostituiscono quelli dell’attrazione e della sessualità e nella quale aleggiano inquietanti eros e thanatos che sono, con tutta evidenza, due cifre fortemente compresenti nel “P.”. Lo è eros in forma repressa e lo è thanatos in forma esplicita, sancito quest’ultimo, peraltro, dall’evocazione di Ermes che Gadda fa nel quarto capitolo dove il dio messaggero di morte appare a Liliana e “con tacito imperio”, cioè con fare silenzioso e inappellabile le apre le porte dell’Ade.

Ma, come abbiamo sin qui visto, sono altresì presenti nel “P.”, altri “meccanismi” pulsionali fondamentali quali la maternità e la discendenza: interrottesi nel caso della madre di Liliana, del tutto non agite da Liliana. A cui fa riscontro un’altra pulsione profonda quella del matricidio e ciò nell’evocazione del possibile omicidio di Liliana da parte di Virginia, ma anche da parte di altre tra coloro che formavano il “gineceo” di Liliana e che Ingravallo sospetterà. Finendo, in quest’ipotesi, tra l’altro, Liliana Balducci per risultare simbolicamente uccisa due volte, sia dal suo desiderio spasmodico di essere madre, sia dal suo voler svolgere il ruolo di madre.

Ma tutti questi aspetti inducono a sottolineare il convergere all’interno del testo di un insieme di pulsioni che rimandano ad archetipi basilari della psiche individuale e collettiva. In questo senso – come è stato rilevato – il “P.” “…è un libro dedicato alle pulsioni erotiche e ai meccanismi della sublimazione, agli istinti profondi e agli spostamenti che li trasformano, li incanalano, li deformano. Storia freudiana quant’ altre mai”. (22)

E quanto nel “P.” si avverta la presenza e il richiamo di Freud è acquisizione ormai diffusa come testimonia M.A. Terzoli quando afferma: “La straordinaria rilevanza della lezione freudiana nel Pasticciaccio è stata ampiamente e precocemente indagata: si vedano almeno gli studi di Agosti (1995), Amigoni (1995), Bertoni (2001), Gioanola (2004). Molte situazioni narrative ed elementi del racconto rivelano una grande competenza psicanalitica dell’autore del Pasticciaccio: dai lapsus verbali a sfondo sessuale,…al lungo sogno…narrato nell’ottavo capitolo,…alle valenze oscene di oggetti,…alle metafore a forte simbologia sessuale” (23). Ma questa ricezione gaddiana di Freud è di nuovo quella consapevolezza che ha Gadda di come dietro la realtà delle cose se ne celi una diversa e assai più profonda, i cui meccanismi si rivelano superiori alle nostre possibilità di controllo, come lui stesso, con esplicito riferimento a Freud, dirà: “Noi tutti si vive, già, dentro o contro la meccanica di Freud: ma co’ gli occhi e co’ sensi e co’ l’anima felicemente bendati (o almeno velati): indossando i gentili addobbi delle nostre illusioni” (24)

Che è quello che di fatto fa Liliana Balducci, la quale non sarà peraltro esente neanche da un ambiguo, se pur sublimato, trasporto amoroso verso il cugino Giuliano Valdarena che sarà il primo a scoprire Liliana morta e, per questo, il primo ad essere indagato. Liliana arriverà persino a chiedere a Giuliano che questi gli “regali” il primo figlio che egli avrà. Nella quale richiesta si mischiano torbidamente la sostituzione del coniuge con la surroga della mancata maternità: “Tu sei giovane, diceva, sei sano…come un Valdarena. Appena sposi, tu fai un figlio: me pare de vedello, me pare de sentillo…Si nun l’hai già combinato a metà strada. Rideva, piangeva. E quello me devi da giurà che me lo dai a me. Insomma, che glie lo facevo adottà: come fosse fijo suo”, così racconta Valdarena a Ingravallo, nel corso della sua deposizione. E Ingravallo, che stenta a credere alle parole di Giuliano Valdarena, si rende conto che non può fare diversamente: “Ma capiva, poco a poco, d’essere trascinato a credere quello che avrebbe creduto incredibile” E, sempre più disincantato, affermerà poco dopo: “Il mondo delle cosidette verità, filosofò, non è che un contesto di favole: di brutti sogni. Talché soltanto la fumea dei sogni e delle favole può avere nome verità”.

Ma quello che a Ingravallo appare un male oscuro, un universo labirintico e incomprensibile in realtà rivela che nella “coppia”: Giuliano Valdarena prolifico/Liliana Balducci non prolifica, così come nella centralità ossessiva del ciclo biologico che ruota intorno a Liliana, si gioca l’incontro/scontro tra natura e sua negazione, tra normalità e diversità. La sua inadempiuta maternità rende infatti Liliana Balducci una diversa sia come donna, sia rispetto al sistema di valori e al senso comune imperante: il “P.” è ambientato nel 1927, con Mussolini già al potere e impareggiabili sono, a questo proposito, le “tirate” ferocissime che Gadda, lungo tutto il romanzo, gli rivolge – una per tutte: “…sto Pupazzo a Palazzo Chiggi, a strillà dar balcone come uno stracciarolo” – e, in quel “mondo”, la prolificità era un valore imperante.

Questa diversità porta perciò Liliana Balducci a rinchiudersi in un suo mondo, facendo calare su di sé un alone tragico. Dietro i suoi grotteschi ed irreali tentativi di supplire alla sua mancata maternità viene infatti alla luce la tragedia e la tragicità di Liliana Balducci. La condanna alla sterilità sentita come un malinconico destino funebre fa si che la sua morte “…è innanzitutto una morte interiore, spirituale…[e] la sua diversità, il suo desiderio inesaudito e la sua malinconia incurabile la porteranno infine ad arrendersi davvero alla morte, concedendosi al carnefice” (25) Così come la descrizione del cadavere, la sua postura e il suo aspetto trasmettono e suggeriscono: “Il naso e la faccia, così abbandonata, e un po’ rigirata da una parte, come de chi nun ce la fa più a combatte, la faccia! Rassegnata alla volontà della Morte…non aveva potuto, non aveva osato…fermare la determinazione del carnefice. Si era conceduta al carnefice”.

Ma la “diversità” di Liliana Balducci non è solo la sua personale e specifica diversità, ma è elemento connotativo di tutto il “P.”, in quanto la diversità come condizione e tema pervade e attraversa tutto il romanzo. Tanto che si può affermare che il “P.”, nel suo insieme, è un romanzo sulla “diversità” e sulla sconfitta e l’impotenza che da essa derivano. Se consideriamo infatti i due principali protagonisti che inverano con la loro presenza tutto il romanzo e cioè Ingravallo e la Balducci siamo, in entrambi i casi, di fronte a due figure la cui natura li pone fuori dagli schemi rispetto ai canoni che si pretendono da un poliziotto e da una donna normotipica e borghese. Facendone oggettivamente oltre che soggettivamente due “diversi” che sanno e sentono di esserlo.

Perché un diverso è anche Ingravallo, poliziotto anomalo, idealista e malinconico, aduso a “filosofeggiare”, che rifiuta le semplificazioni, che ha una visione del mondo complessa e poco allegra. Insomma uno “strano” che sembra più adatto ad avere a che fare con quelli “strani”, così come viene percepito e vissuto da chi lo conosce: “Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate,…alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori, sostenevano che leggesse dei libri strani: da cui cavava tutte quelle parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma servono come non altre ad accileccare gli sprovveduti, gli ignari. Erano questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici dei matti.”

Ed entrambi, Ingravallo e la Balducci, sono anche accomunati dai relativi destini romanzeschi dato che entrambi dovranno subire la sconfitta: tragica quella di Liliana, amara quella di Ingravallo, derivante dall’impotenza a cui, nei rispettivi ruoli, saranno costretti: non riuscendo a realizzarsi nei compiti a cui sono deputati. E se ciò rappresenterà per Liliana una ferita tangibile, per Ingravallo si tradurrà in uno scacco paralizzante. Condizione nella quale si verrà a trovare quando, alla fine del “P.”, egli viene descritto di fronte alla reazione veemente di Assunta – l’altra sospettata fra le “protette” di Liliana – che, nel mentre pronuncia, in faccia ad Ingravallo, quel ““No, nun so’ stata io”…Quella piega nera verticale tra i due sopraccigli dell’ira, nel volto bianchissimo della ragazza, lo paralizzò, lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi”. Laddove, come è noto, quel “…”quasi” lascia aperte diverse ipotesi di soluzione”(26) Ma laddove quel “quasi” segna anche una crasi tra pensiero e azione, tra il compito e il suo adempimento, come il fermarsi al limitare di un senso che sembra apparire per poi sfuggire di nuovo, subito prima di poterlo afferrare, lasciando, appunto, un esito paralizzante.

Ma se per Ingravallo e la Balducci la “diversità” è connaturata alla loro esistenza essa, in realtà, si insinua anche nelle identità di altri personaggi che finiscono per tradirla loro malgrado. Come nel caso del commendatore Angeloni, anch’egli abitante nel palazzo, insistentemente interrogato da Ingravallo, laddove, “L’insistenza del commissario non è priva di insinuazioni sulla presunta omosessualità di Angeloni, colpevole se non altro di [un frequente] andirivieni di garzoni nel palazzo” (27) E come nel caso della contessa Menegazzi quella a cui, prima dell’uccisione di Liliana, rubano i gioielli, che manifesta un “terrore orgasmico” (28) per la rapina subita, terrorizzata e al tempo stesso eccitata per quell’imprevista e, sotto sotto, desiderata entrata in casa del ladro.

Vi è poi la “diversità”, questa volta torbidamente praticata, che si insinua in modo forte e perentorio anche in quel mondo basso e “marginale” – che fa capo all’altro grande nucleo narrativo del “P.” – a cui porteranno le indagini, che ruota intorno a quel personaggio, sorta di moderna Circe, che è Zamira: al suo antro, ai rapporti sessual-professionali delle sue ragazze apprendiste. Non foss’altro per il “ruolo equivoco della donna: sarta, tintora e tenutaria di mescita, ma soprattutto maga e maestra di prostituzione e delinquenza…Zamira…[ha] tratti lascivi e sguardi carichi di malizia…la sua bettola-laboratorio è luogo di sosta per camionisti e carabinieri, propiziatrice di incontri erotici, grazie ad un organico di ragazze incrementabile in caso di necessità. Anche il maresciallo Santarella [che comanda la tenenza dei carabinieri di Marino coinvolta nelle indagini]…si avvale dei servizi di Zamira…Abbronzato, virile…il maresciallo seduce uomini e donne…è rispettato dai malviventi, quasi felici di farsi catturare da lui…abituato a rapide decisioni…a spettacolari partenze in moto: quasi un diavolo dalle apparizioni impreviste, centauro lanciato a tutta velocità sull’Ardeatina”(29)

Ora da queste descrizioni emerge una “diversità” grottesca e corrosiva che irride e smitizza, aprendosi quindi un ventaglio di toni e di forme della “diversità” presenti nel “P.”. Che oscillano fra la tragedia e la commedia finendo, queste due dimensioni, per alternarsi e confondersi. In questo senso se è vero, come è stato rilevato “che la vita e l’opera di Gadda sono improntate a una visione fortemente tragica [è altrettanto vero che] …anche chi ha sostenuto l’ispirazione autenticamente tragica dell’opera gaddiana ne ha messo in luce il carattere ibrido, una forma impura in cui la tragedia si intreccia con modalità espressive come la satira, il comico, l’umorismo e il grottesco” (30)

Ma se queste ultime sono sicuramente le forme espressive che Gadda usa e con le quali inscena quella farsa tragica a cui assistiamo nel “P.”, tanto che il tono prevalente del romanzo resta quello comico-ironico, tuttavia vi è, ben presente, al suo interno, una reale dimensione tragica sintetizzabile nell’idea che “…l’uomo e le sue azioni appaiono come problemi, domande senza risposta, enigmi i cui doppi sensi restano incessantemente da decifrare…”. (31) Vi è quindi un dispositivo tragico racchiuso proprio in quell’impossibile verità contro cui nulla può l’esistenza e l’evocazione dell’ Abisso e della Tenebra che Gadda fa nel “P.” ci parla proprio di quell’impossibile verità e dell’essere proprio essa l’unica verità possibile: “In quanto l’indistinto soltanto, l’Abisso, o Tenebra, può ridischiudere alla catena delle determinazioni una nuova ascesi: la rinnovata sua forma, la rinnovata fortuna.”

Una lettura in chiave di “diversità” ce la offre infine lo sfondo che le vicende del “P.” hanno. Uno sfondo ben preciso sia come scena primaria nelle quali esse si svolgono, sia come coro e vox che fa ad esse eco e cioè Roma. Italo Calvino nell’affermare che il “P.” è “anche un romanzo su Roma”(32), così descrive la presenza che ha Roma al suo interno: “La Città Eterna è la vera protagonista del libro, nelle sue classi sociali dalla media borghesia alla malavita, nelle voci della sua parlata dialettale (e dei vari dialetti, soprattutto meridionali, che affiorano nel suo melting-pot), nella sua estroversione e nel suo inconscio più torbido, una Roma in cui il presente si mescola al passato mitico, in cui Hermes o Circe vengono evocati a proposito delle vicende più plebee, in cui personaggi di domestiche o di ladruncoli si chiamano Enea, Diomede, Ascanio, Camilla, Lavinia come gli eroi e le eroine di Virgilio. La Roma stracciona e sbraitante…acquista nel libro di Gadda uno spessore storico, culturale, mitico” (33)

Ora la voce romanesca del “P.” è la voce di Roma in senso collettivo che come un coro commenta e soprattutto osserva. Ma tale coro, come è stato notato: “Non è un coro che rappresenta un gruppo unitario…è un coro di gente diversa, dalle identità contrastanti, dalle voci dissonanti. Un’umanità frantumata, atomizzata” (34) che contribuisce a produrre quella babele che non è solo linguistica ma che dà ulteriore forma ed espressione a quella deriva dei principi ordinatori generatrice del caos che è al centro del libro e dell’opera di Gadda. Roma è quindi protagonista nella misura in cui è essa stessa quel caos, in quanto intrinsecamente e costitutivamente immersa in un caos.

In un bel lavoro di tipo intertestuale condotto da Manuela Bertone: “Percorsi intertestuali del Pasticciaccio” (35) è stata rilevata, tra le altre, una intertestualità tra il “P.” e un romanzo di Nathaniel Hawthorne, “Il fauno di marmo”, del 1860, anch’esso ambientato a Roma, che Gadda conosceva. E, con riferimento al romanzo di Hawthorne, tra varie analogie che in esso sono state riscontrate con il “P.”, ne è stata riscontrata anche una relativamente al “clima” narrativo con cui viene descritta Roma e in cui si rileva molto bene quella dimensione “caotica” anzidetta. Scrive a questo riguardo M. Bertone: “Il romanzo di Hawthorne è un antecedente prezioso per Gadda. In primo luogo perché si svolge in una Roma che ben si apparenta alla visione che ne darà lui stesso. Città labirintica, sinistra, caotica, corrotta, sporca, depravata dove…fin dall’antichità, mentre si svolge “l’ampio cammino delle generazioni” convivono civiltà e barbarie” (36)

Roma è quindi l’antitesi della normalità, è un luogo altro e diverso, in sé unico per rappresentare la caoticità del mondo, l’assurdità della realtà, il suo “garbuglio” e la sua frantumazione. In questo senso anche a livello toponomastico Roma viene fatta “esplodere” da Gadda in un repertorio ricchissimo e dettagliato fatto di vie, piazze, chiese, palazzi, monumenti, cimiteri, colli, quartieri e luoghi di interesse storico e civile, risultando oltre 100 i toponimi citati, tra i quali, in un modo o nell’altro, viene fatto “transitare” il romanzo. Al punto che se ne potrebbero ricavare dei veri e propri itinerari gaddiani dentro la città.

Ma in questa policentricità, con cui Gadda trasforma Roma in “luogo letterario”, egli è assolutamente coerente con se stesso dato che, come è stato rilevato: “…anche la rappresentazione degli spazi, dei luoghi e degli ambienti tende ad essere sottoposta alle tipiche procedure di frammentazione, iterazione e stratificazione progressiva che abbiamo osservato in altre tipologie di descrizione…E quando questo accade, la topografia viene sottoposta a un processo di frantumazione, a un movimento centrifugo che sfalda, dissemina, atomizza l’unità della compagine descrittiva, distribuendone i singoli “pezzi” su un orizzonte testuale anche molto esteso…In questo senso l’ambientazione del Pasticciaccio [appare]: dinamica e centrifuga, percorsa dalle traiettorie di vari personaggi e intersecata da multiple, spesso divergenti linee narrative. Il grande reticolo di Roma, delle sue vie, delle sue piazze, lo scenario più ampio dei colli, delle strade suburbane, delle località periferiche e rurali: tutto sembra ampliarsi, ramificarsi, intrecciarsi: tutto lo spazio romanzesco tende a configurare una planimetria espansiva senza un unico centro” (37)

Ed è proprio questa assenza di centro, quel suo essere romanzo multiplo e molteplice che rende “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” quel grandissimo e ineguagliabile romanzo che è.

Note

(1) Siriana Sgavicchia – “Carlo Emilio Gadda” – Le Monnier Università – 2012 – p. 1

(2) Gianfranco Contini – “Introduzione” in C. E. Gadda – “Accoppiamenti giudiziosi” – Garzanti – 1985

(3) S. Sgavicchia – cit. p. 11

(4) Maria Antonietta Terzoli – “Gadda: guida al Pasticciaccio” – Carocci – 2016 – pp. 14-15

(5) S. Sgavicchia – cit. p. 19

(6)S. Sgavicchia – cit. p. 22

(7) Alba Andreini – “Carlo Emilio Gadda. Storia interna del “Pasticciaccio” – Mucchi – 1991- p. 34

(8) Alessandra Ottieri – “La fondazione e (rifondazione) del romanzo italiano. Parte seconda. Pirandello, Svevo, Gadda” in “ITALIANOSTORIA”.blogsite.wordpress.com

(9) Alessandra Ottieri – “Per un’estetica dell’impurità.1” in “ITALIANOSTORIA”.blogsite.wordpress.com

(10) Rinaldo Rinaldi – “Gadda” – Il Mulino – 2010 – p. 123

(11) Mauro Bersani – “Gadda” – Einaudi – 2003 – p.97

(12) Michele Mari – “Gadda” in Michele Mari – “I demoni e la pasta sfoglia” – Il Saggiatore – 2017 – p. 275

(13) Italo Calvino – “Carlo Emilio Gadda. Il Pasticciaccio” in Italo Calvino – “Perché leggere i classici” – Oscar Mondadori – p. 230

(14) Lisa Poretti – “Un personaggio tragico: Liliana Balducci” in (a cura di) Maria Antonietta Terzoli, Cosetta Veronese e Vincenzo Vitale – “Un meraviglioso ordegno. – Paradigmi e modelli del “Pasticciaccio” di Gadda” – Carocci – 2013 – p. 136

(15) L. Poretti – cit. p. 137

(16) Aldo Pecoraro – “Gadda” – Laterza – 1998 – p.135

(17) R. Rinaldi cit. p. 117

(18) S. Sgavicchia – cit. p. 23

(19) A. Pecoraro – cit. p. 134

(20) L. Poretti – cit. p. 134

(21) M.A. Terzoli – “Gadda: guida al Pasticciaccio”- cit. p. 54

(22) R. Rinaldi – cit. p. 117

(23) M.A. Terzoli – “Gadda: guida al Pasticciaccio” – cit. p. 115

(24) M.A. Terzoli – “Gadda: guida al Pasticciaccio” – cit. p. 115

(25) L. Poretti – cit. p. 135/136

(26) M.A. Terzoli – “Iconografia criptica e iconografia esplicita nel Pasticciaccio” in (a cura di) M. A. Terzoli, C. Veronese e V. Vitale – cit. p. 159

(27) M.A. Terzoli – “Gadda: guida al Pasticciaccio” – cit. p. 38

(28) M. Bersani – cit. p.98

(29) M.A. Terzoli – “Gadda: guida al Pasticciaccio” – cit. pp. 58, 61, 62

(30) Federico Bertoni – “”Un grido nella tenebra” L’ombra del tragico nel Pasticciaccio” in (a cura di) M. A. Terzoli, C. Veronese e V. Vitale – cit. pp. 123,124

(31) F. Bertoni – cit. p.125

(32) I. Calvino – cit. p. 227

(33) I. Calvino – cit. p. 227

(34) M. Bersani – cit. p.102

(35)Manuela Bertone – “Percorsi intertestuali del Pasticciaccio” in (a cura di) M. A. Terzoli, C. Veronese e V. Vitale – cit. pp. 29/55

(36)M. Bertone – cit. p. 42

(37) Federico Bertoni – “La verità sospetta. Gadda e l’invenzione della realtà” – Einaudi – 2001 – pp. 242, 264, 265

9 risposte a "“Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” – Carlo Emilio Gadda"

  1. Alessandra 31 Maggio 2019 / 19:24

    Lo voglio (e lo devo) leggere, questo libro, quando avrò l’animo giusto per affrontarlo. Nel frattempo ho apprezzato la tua analisi, puntuale e approfondita come sempre. Amando Gadda, è stato un vero piacere leggerla.

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    • ilcollezionistadiletture 1 giugno 2019 / 7:37

      Grazie Alessandra per gli apprezzamenti tanto più graditi visto il “ponderoso” commento, non certo agile da leggere. Ma tant’è, Gadda e il “P.” sono degli “stimolanti” ai quali non sono riuscito a porre freno. D’altro canto la sterminata vastità di studi e di letture che sono state fatte e che si continuano a fare su questo libro sono lì a dimostrarne la sua ricchezza.
      Certo, come dici tu, la sua lettura richiede “l’animo giusto”, ma sono sicuro che anche leggendolo più e più volte si possono fare scoperte sempre nuove e diverse.
      Nel senso che è così “abbondante” che già alla prima lettura se ne ricava moltissimo quindi, anche se non si coglie tutto quello che c’è, pazienza.
      Ancora grazie e un carissimo saluto.
      Raffaele

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      • Alessandra 1 giugno 2019 / 10:29

        E hai fatto bene a non tirare il freno, visto e considerato il risultato. Il tuo è infatti un saggio più che un semplice articolo… che rileggerò con piacere, anzi con rinnovata attenzione, dopo aver letto il libro. Grazie per tutto.

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  2. Elena Grammann 1 giugno 2019 / 23:08

    Ho letto il Pasticciaccio tantissimi anni fa, probabilmente senza capirci gran che (ricordo che avevo trovato più congeniale La cognizione del dolore). Il tuo ricchissimo articolo potrebbe essere uno stimolo a riprenderlo – tanto più che i racconti dell’Adalgisa, letti invece di recente, mi hanno entusiasmato. Credo che di Gadda mi affascini soprattutto il modo mirabile di cogliere il prossimo e vicino, il famigliare, attraverso il décalage dello straniamento, ottenendo, paradossalmente, un effetto di realtà che nel Novecento è ormai precluso a una narrazione diretta.
    Grazie dell’articolo che è un distillato di preziose suggestioni
    Elena

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    • Alessandra 1 giugno 2019 / 23:30

      Ho qui i racconti pronti da leggere, cara Elena (scusatemi l’intromissione). Spero di poter leggere prossimamente un commento anche sulle tue pagine. Anch’io ho amato, moltissimo, La cognizione del dolore, che sicuramente un giorno rileggerò.

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    • ilcollezionistadiletture 3 giugno 2019 / 8:44

      Ciao Elena e grazie per l’attenzione e le attenzioni che hai dato al mio articolo. Grazie davvero.

      Che il “P.” non sia, al primo impatto, facile da padroneggiare è stata anche la mia prima impressione. E che tante cose, ad una prima lettura, possano sfuggire ci sta. In questo senso è sicuramente un libro che richiede di “starci su” per “decodificare” quello che dice.

      Ma come hai ben sintetizzato il “P.” consente di cogliere tutta la grandezza di Gadda che sta proprio in quella sua capacità di partire dal particolare, dall’ordinario, da ciò che è vicino e familiare, persino da ciò che è banale, e, attraverso i suoi procedimenti narrativi ( deformazioni, straniamento, distorsioni, contaminazioni), risalire ad un livello di rappresentazione e visione della realtà altissimo, che ce la fa vedere molto di più e molto meglio, molto più profondamente, di qualsiasi tentativo di farlo in modo esplicito. Senza perdere niente in termini di invenzione, libertà, divertimento, in sintesi, in termini di creatività.

      Della “Cognizione” non ho fatto alcuna esperienza mentre i racconti de “L’Adalgisa”, se pur non in modo integrale, ho avuto occasione di leggerli e sono anch’essi pirotecnici e graffianti come il “P.”. Sicuramente entusiasmanti come dici tu: un’altra “tappa” gaddiana fondamentale.

      Grazie di nuovo, un carissimo saluto e una buona settimana.
      Ciao
      Raffaele

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  3. nicola 3 novembre 2020 / 19:40

    Grazie per il tuo lavoro che ho apprezzato moltissimo. Ma resto ancora nel dubbio se considerare il P. un grande romanzo o solo un esercizio di stile, anche se molto ben riuscito.

    Nicola

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    • ilcollezionistadiletture 4 novembre 2020 / 7:46

      Grazie per il tuo generoso apprezzamento. Rispetto il tuo dubbio dato che il P. è anche un grande esercizio di stile e, in questo senso, conferma tutta la molteplicità dei suoi piani di lettura. Ma proprio quella ricchezza stilistica veicola una grande ricchezza narrativa e, soprattutto, veicola un mondo e un’ idea del mondo che erano quelli che Gadda voleva creare e rappresentare. Ed è per questo che lo si può considerare pienamente e compiutamente un romanzo.
      Grazie ancora.
      Ciao.
      Raffaele

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