“Ottanta poesie” – Osip Mandel’štam

Osip Mandel’štam – “Ottanta poesie” – Traduzione e Nota introduttiva di Remo Faccani – Einaudi. Collezione di Poesia – 2009

Osip Mandel’štam (1893-1938) è secondo molti il più grande poeta russo del Novecento. Inviso al regime sovietico dal 1934 subì prima il confino, poi il carcere e la deportazione. Il 2 maggio 1938 viene arrestato. In giugno è sottoposto a visita psichiatrica. Il responso della commissione medica dichiarò che Mandel’štam, “in quanto malato di mente”, era – tutte maiuscole – “PASSIBILE DI INCRIMINAZIONE”. L’ 8 agosto a Mandel’štam è comunicata la sentenza che gli infligge una condanna alla deportazione per “attività controrivoluzionaria”. Il 12 ottobre, dopo oltre un mese di viaggio, egli viene internato a Vtoraja Recka in un “campo di transito” nei pressi di Vladivostok. La destinazione finale dei detenuti erano gli spaventosi lagher della Kolymà. L’unica sua lettera dalla Siberia giunge a Mosca il 13 dicembre: il poeta dà notizia delle sue disastrose condizioni di salute (“…sono ridotto allo stremo…quasi irriconoscibile…”).  Osip Mandel’štam si spegne il 27 dicembre a Vtoraja Recka e il suo corpo viene sepolto in una fossa comune vicino al campo. Della data della sua morte sarà messo al corrente per primo il fratello Aleksandr un anno e mezzo più tardi, nel giugno del 1940. La riabilitazione ufficiale di Mandel’štam arriverà il 28 ottobre 1987: aveva dovuto attendere la “perestrojka” gorbaceviana!.

La poesia di Mandel’štam ha lasciato numerose e vivide tracce nella letteratura moderna. Il rapporto di gran lunga più profondo con Mandel’štam lo rintracciamo in Paul Celan. Nel 1959 escono, tradotti da Celan, i quaranta componimenti della plaquette O. MANDELSTAMM, “Gedichte” e, nel 1960 Celan, parlando di Mandel’štam, così si esprime: “raramente, come con la sua poesia, ho avuto la sensazione di camminare – di camminare accanto all’Irrefutabile e al Vero, e grazie a lui”. C’è da notare che la silloge celaniana del ’59 comprende soltanto liriche del periodo 1908-24 e, nel licenziare il suo Mandel’štam, Celan osserva come “ciò che era intimamente inscritto” nelle sue poesie, “quella profonda e dunque tragica concordanza con la propria epoca”, avesse tracciato al poeta il suo cammino, gli “avesse prescritto…la sua sorte”. E’ stupefacente, prodigioso l’intuito, con il quale Celan, partendo dal Mandel’štam giovanile che così fortemente lo attraeva, seppe “vedere” anche il Mandel’štam più tardo che allora gli era quasi del tutto ignoto, e seppe cogliere, in sostanza, il senso unitario, l’”invariante” che ne percorre e ne trama l’opera; occorre perciò che si guardi l’intero arco, il trentennio dell’attività poetica mandel’štamiana, dai ricercati “frammenti intenzionali” dell’esordio alle schegge ultime che recano il suggello del martirio”. (Libera riduzione da “la quarta di copertina; i “Cenni bio-bibliografici”; l’”Introduzione”)

Un tonfo cauto e sordo – un frutto

dal ramo s’è staccato via –

tra l’incessante melodia

del bosco che riposa muto…

1908

*

Splendono di fittizie dorature

nelle selve gli abeti di Natale;

lupi-giocattolo fra le ramaglie

hanno sguardi che mettono paura.

 

Mia tristezza fatidica, presaga,

mia quieta, silenziosa libertà

e tu, sempre ridente, là, cristallo

della volta celeste inanimata!

1908

*

M’è dato un corpo – che ne farò io

di questo dono così unico e mio?

 

Sommessa gioia di respirare, esistere:

a chi ne debbo essere grato? Ditemi.

 

Sono giardiniere, e sono fiore.

Nel mondo-carcere io non languo solo.

 

Già sui vetri dell’eternità è posato

il mio respiro, il caldo del mio fiato.

 

L’impronta lasceranno di un disegno

e più non si saprà che mi appartiene.

 

Scoli via la fanghiglia dell’istante:

rimarrà il caro disegno, intatto.

1909

*

Non c’è nulla di cui serva parlare

non c’è nulla che occorra insegnare;

bella e ricolma di malinconia

è questa buia anima ferina:

 

non c’è nulla che lei voglia insegnare,

in nessun modo lei riesce a parlare,

e come un giovane delfino guizza

per l’universo e i suoi canuti abissi.

1909

*

Tende l’udito una vela sensibile,

lo sguardo si dilata e si fa vuoto,

e afono varca un mare di silenzio

il coro degli uccelli a mezzanotte.

 

Io, come la natura sono povero,

e ho la semplicità che hanno i cieli,

e la mia libertà è illusoria come

le voci, a mezzanotte, degli uccelli.

 

Dinanzi agli occhi ho questa luna esanime,

e un cielo più smorto di un lenzuolo;

è un universo, il tuo, malato e strano,

e sono, o Vuoto, qui pronto ad accoglierlo.

1910, 1922(?)

*

Quando la luna di città si affaccia alle strade e alle piazze

e lentamente rischiara la folta metropoli-selva,

e tutta angoscia e bronzo, la notte crescendo avanza,

e al rozzo tempo si piega, soave come un canto, la cera,

 

e in cima alla sua torre di pietra il cúculo sta lamentoso,

e la pallida mietitrice che nel mondo inanimato si cala

muove piano, in silenzio, l’enorme raggiera delle ombre

e su un pavimento di legno sparge fasci di gialla paglia…

Novembre 1920

*

Come un toro a sei ali, minaccioso

gli uomini, qui, la gran fatica assedia,

e in un turgore di sangue venoso

preinvernali fioriscono i roseti…

Ottobre 1930

*

Non farne parola a nessuno,

dimentica ciò che hai veduto:

uccello, vecchietta, prigione

e qualunque altra cosa – tutto!

 

Se no, ti sentirai avvolgere,

appena schiudi le labbra,

da un tremito di aghifoglie

allo spuntar dell’alba.

 

Ricorderai la dacia, la vespa,

l’astuccio sporco d’ inchiostro

o i mirtilli che mai raccogliesti

da bambino nel sottobosco

Ottobre 1930

*

Stiamocene un po’ in cucina assieme,

l’aria è dolce di bianco cherosene;

 

un coltello tagliente e una pagnotta…

Se vuoi prepara ben bene il fornello;

 

altrimenti raduna e intreccia corde:

prima dell’alba fa’ una grande sporta:

 

fuggiamo a una stazione, ad un binario

dove nessuno ci possa trovare.

Gennaio 1931

*

Oh, che gusto ci dà fare gli ipocriti

e quanto facilmente in noi si oscura

l’idea che siamo vicini alla morte

più nell’infanzia che in età matura.

 

Il bimbo, occhi di sonno ancora gonfi,

succhia un resto d’offesa dal piattino;

io più non ho a chi tenere il broncio

e su ogni via da solo mi incammino.

 

Ma non voglio morire come un pesce

nel deliquio avvolgente dei fondali,

ché troppo cara la libera scelta

di tutte le mie pene e i miei travagli.

Febbraio – 14 maggio 1932

*

Voi, togliendomi i mari, la rincorsa, lo slancio,

e dando al piede il sostegno di una terra forzata,

cos’ avete scoperto? Un principio sagace:

che il moto delle labbra non può venir sottratto

Maggio 1935

*

Quanto vorrei, oh quanto

– non visto, non sentito –

volare dietro a un raggio

là dove non esisto.

 

E tu nel cerchio irradia –

non c’è altra beatitudine –

e da una stella impara

che significa luce.

 

Ciò che ti voglio dire

è che sto bisbigliando

e sottovoce affido

te, mia bambina, a un raggio.

23 marzo – primi di maggio del 1937

8 risposte a "“Ottanta poesie” – Osip Mandel’štam"

  1. Elena Grammann 2 marzo 2018 / 22:22

    Effettivamente, difficile che la dittatura del proletariato trovasse un utilizzo per una sensibilità individuale. Un residuo borghese.

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    • ilcollezionistadiletture 3 marzo 2018 / 6:44

      D’altro canto Mandel’štam aveva capito tutto.
      Nel ’33 scrive alcune sferzanti poesie contro il regime bolscevico, fra cui il famoso “epigramma” su Stalin: “Viviamo senza più avvertire sotto di noi il paese”, sparso di immagine caustiche e beffarde.

      Viviamo senza più avvertire sotto di noi il paese
      a dieci passi le nostre voci sono già bell’e sperse,
      e dovunque ci sia spazio per una conversazioncina,
      eccoli ad evocarti il montanaro del Cremlino.

      Le sue tozze dita come vermi sono grasse,
      e sono esatte le sue parole come i pesi di un ginnasta;
      se la ridono i suoi occhiacci da blatta
      e i suoi gambali scoccano neri lampi.

      Ha intorno una marmaglia di gerarchi dal collo sottile.
      I servigi di mezzi uomini lo mandano in visibilio.
      Chi zirla, chi miagola, chi fa il pigmalione;
      lui, lui solo mazzapicchia e rifila spintoni.

      Come ferri di cavallo decreti su decreti egli appioppa –
      all’inguine, in fronte, a un sopracciglio, in un occhio.
      Ogni messa a morte, con lui, è una lieta
      cuccagna e un largo torace di osseta.
      Novembre 1933

      Nel maggio del ’34 Mandel’štam verrà arrestato e mandato al confino.

      Grazie Elena. Ciao. Raffaele

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      • Elena Grammann 3 marzo 2018 / 14:54

        Grazie a te, Raffaele, per le poesie di Mandel’štam, compresa questa ultima. Aveva del coraggio. A proposito di coraggio, e per par condicio visto che siamo alla vigilia delle elezioni, mi è venuto in mente un sonetto scritto da Robert Desnos nel ’43 o ’44 su Pierre Laval, primo ministro del governo collaborazionista di Vichy e anima nera della Francia. (Robert Desnos morirà nel ’45 nel campo di concentramento di Terezin di malnutrizione e di tifo nemmeno un mese dopo la liberazione del campo da parte delle truppe sovietiche).
        Ecco il sonetto, tradotto un po’ alla veloce. L’originale è in un gustosissimo e efficacissimo francese misto di argot – in effetti non tutto è chiarissimo. Per capire meglio: Pierre Laval era stato sindaco di Aubervilliers, e portava sempre cravatte bianche.

        PETRUS D’AUBERVILLIERS

        Strapieno com’è di vino e di pietanza
        Il mal lavato d’Alvernia, bavoso fra i marciti,
        Crede ancor di farcire la rancida sua panza
        Col sangue dei ragazzi che ammazzano a Parigi?

        Non visto? Non preso! Ma è visto, dunque è fritto,
        E il primo lampione servirà ben da forca,
        Senza pubblico, giuria o intralci di diritto,
        Al lurido pappone che ci fa ballar la polka.

        Se la cravatta è bianca, gliela farem di corda.
        Che abbia i coglioni neri oppur che se li morda
        Al gran Monte dei Pegni dovrà lasciare il ceffo.

        Si ingozza, si rimpinza, ci svende e dà per niente,
        Scatta, se appena suonano a Berlino il campanello.
        Ma noi lo suoneremo – senza assise e senza appello.

        Robert Desnos

        (Proprio un bel secolo, il Novecento)
        Buon fine settimana e a presto!

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  2. ilcollezionistadiletture 4 marzo 2018 / 8:33

    I coraggiosi e, tanto più, i poeti coraggiosi fan delle brutte fini. Ma i poeti oltre al sacrificio della loro vita ci hanno lasciato la bellezza e la forza della loro opera la quale resta e ci continua a parlare. E di questo ne abbiamo ancor oggi un estremo bisogno.
    Grazie Elena del bellissimo omaggio che mi hai fatto: di questo prezioso contributo che non conoscevo e che merita di essere conosciuto, oltre che del tuo personale apporto che mi onora.
    Grazie ancora e buona domenica.
    Ciao
    Raffaele

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  3. dietroleparole 9 marzo 2018 / 17:09

    Concordo con te sulla bellezza di queste poesie che persino nella traduzione portano fino a noi quell’anima russa che sa restare in bilico tra un’estrema semplicissima e disarmante dolcezza e l’essenzialità e il rigore della serietà morale. Anni fa sono riuscita a recuperare un libro preziosissimo su Mandel’štam, scritto dalla moglie, Nadežda, che si intitola “L’epoca e i lupi”. Sono le memorie di una donna che è stata vicino al suo poeta durante l’arresto, in carcere, nel durissimo primo confino e poi durante il secondo arresto e che deve rassegnarsi ad accettare la sua presunta morte e le vaghe notizie intorno alle disumane condizioni degli ultimi suoi giorni di vita. Il libro è un tributo di una donna che è stata per diciannove anni la moglie di Mandel’štam e per quarantadue anni la sua vedova, tributo alla sua poesia, sostenuta, accolta, conservata, amata con religioso rispetto, quasi fosse il miracolo di una nuova vita, ma anche tributo ad una intera generazione di poeti e di intellettuali, un’intera generazione di scrittori stroncata dalle purghe staliniane. Il libro è uscito nel 1970 e rappresenta la testimonianza di una donna che è diventata scrittrice a sessantacinque anni per completare un compito: quello di preservare e mantenere in vita, in sostanza far arrivare fino a noi l’opera del marito che grazie a lei ha continuato a circolare clandestinamente fino al crollo dell’Urss: “Tra la notizia della morte di Mandel’štam e il momento in cui ho estratto dal loro rifugio segreto e ho messo dentro la valigia, perché un tavolo non lo avevo, il mucchio delle poesie che ero riuscita a salvare, sono trascorsi circa vent’anni e per tutto questo tempo io sono stata un’altra: ho portato la maschera di ferro. Non potevo confessare a nessuno che non vivevo, ma mi limitavo ad aspettare, nascosta, il momento di ridiventare me stessa e di poter dichiarare apertamente che cosa attendevo e che cosa conservavo con tanta cura”. E’ un libro di memorie, di denuncia e di lucida analisi, scritto da una donna colta e consapevole, ma è anche l’unico modo che ancora ci rimane per ascoltare in diretta la voce del poeta per le mille citazioni che lo rendono preziosissimo. Come questa sulla poesia: “La poesia è il potere” disse Mandel’štam alla Achmatova, a Voronež, e lei annuì inchinando il lungo collo. Confinati, malati, poveri, perseguitati non volevano rinunciare al loro potere. Mandel’štam si comportava come un potente e questo valeva soltanto ad aizzare coloro che lo stavano distruggendo. Per costoro il potere consisteva nei cannoni, nella polizia segreta, nella possibilità di razionare tutto, compresa la gloria, e di commissionare i propri ritratti ai pittori. Ma Osip Emil’evič continuava a ripetere: “Se uccidono in nome della poesia, vuol dire che le tributano l’onore e il rispetto che merita, vuol dire che la temono, e quindi la poesia è il potere”. Insomma, questa è la bambina che il poeta affidava ad un raggio, e forse allora nemmeno sospettava quale forza avesse. Come quella di tante donne russe che amavano i loro poeti.

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    • ilcollezionistadiletture 11 marzo 2018 / 7:02

      “A Kiev, il 1° maggio del ’19, Mandel’štam conosce la giovane pittrice Nadja (Nadežda Jakolevna) Chazina (1899-1980), sua futura moglie e inseparabile compagna di traversie e tragedie….Ai primi di marzo del 21 torna a Mosca, da Kiev, insieme a Nadežda Chazina, che d’ora in poi resterà al suo fianco quasi senza interruzioni (il loro matrimonio sarà registrato ufficialmente a Kiev l’anno dopo)….Tra maggio e giugno del ’24 i Mandel’štam, a Leningrado, sono ospiti di Anna Achmatova e dell’assirologo e poeta Vladimir Silejko, secondo marito della poetessa. (Circa quarant’anni dopo l’Achmatova ricorderà: “Nell’estate del 1924 Osip Mandel’štam condusse da me la sua giovane moglie…Quel giorno incominciò la mia amicizia con Nadjuša, che dura ancor oggi. Osip amava Nadja in modo incredibile, inverosimile…Non permetteva a Nadja di allontanarsi da lui neanche di un passo; non le dava la possibilità di avere un lavoro; era follemente geloso; le chiedeva consigli su ogni parola dei suoi versi”)….Grazie all’appoggio di Bucharin tra la primavera e l’estate del 1930 Mandel’štam e la moglie soggiornano nel Caucaso e visitano l’Armenia, che diventerà il luogo di un’esperienza quasi iniziatica…in dicembre tornano a Leningrado. Ma nel gennaio del 1931 la commissione per gli alloggi del locale Comitato degli scrittori rifiuta di concedergli una stanza in città. Da questo momento vivono a Mosca, fra enormi ristrettezze….nel gennaio del ’32, dopo aver peregrinato per un anno da una casa di parenti o di amici ad un’altra, i Mandel’štam ricevono un alloggio nella residenza degli scrittori di Palazzo Herzen: un bugigattolo di dieci metri quadri. In primavera riusciranno ad avere la stanza attigua più asciutta e spaziosa….Nel maggio del ’34 viene inflitta a Mandel’štam una condanna a tre anni di confino…pena che verrà commutata in tre anni di domicilio coatto, che Mandel’štamm decide di trascorrere a Voronež, nella Russia meridionale dove resterà fino al maggio del ’37…Fra ottobre e novembre del ’36 i Mandel’štam traslocano in quello che sarà l’ultimo dei loro tanti alloggi a Voronež….Tra maggio e giugno del ’38 viene perquisito l’alloggio dei Mandel’štam a Kalinin, dal quale però Nadežda Jakolevna aveva fatto in tempo a portar via tutte le poesie inedite dentro una cesta…. Mandel’štam si spegne il 27 dicembre del ’38 nel “campo di transito” di Vtoraja Recka nei pressi di Vladivostok….fin dal principio del ’39, a Mosca e a Leningrado, aveva già preso a circolare la voce che Mandel’štam non fosse ormai più in vita, specialmente dopo che il 5 febbraio Nadežda Jakolevna s’era vista restituire, con l’annotazione “A causa della morte del destinatario”, un vaglia postale da lei inviato a Vladivostok, per il marito”
      “Mandel’štam, in una quartina della fine del ’36, alla vigilia dell’arresto che preluderà alla deportazione in Siberia, scrive:
      “Per qualche tempo ancora proverò meraviglia
      del mondo, dei bambini e della neve,
      ma come una strada è aperto il mio sorriso,
      non docile, non servo.”
      Il 28 aprile 1936, rivolgendosi a Pasternak, Mandel’štam lo informava che se la sua “seconda vita” (di uomo e di scrittore) continuava a durare, a resistere, lo doveva “in tutto e per tutto” alla moglie, sua “unica e inestimabile compagna.””
      (Da i “Cenni bio-bibliografici” pp. XVII-XXIX e dall’ “Introduzione” pp. V-XVI in Osip Mandel’štam – “Ottanta poesie” a cura di Remo Faccani – Einaudi. Collezione di poesia – 2009)
      Un grande amore, due grandi vite, una grande opera.
      Grazie Anna del tuo bellissimo contributo che rende merito della vita di queste due grandi persone.

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      • dietroleparole 19 giugno 2018 / 16:04

        Segnalo, per chi ancora non li conoscesse, due bellissimi saggi di Iosif Brodskij (contenuti in “Fuga da Bisanzio”): uno sulla poesia di Mandel’stam dal titolo “Il figlio della civiltà”, l’altro su Nadezda, scritto in occasione della sua morte avvenuta nel 1980, dal titolo “Nadezda Mandel’stam, un necrologio”.

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