“La metamorfosi” – Franz Kafka

“La metamorfosi” scritto da Kafka nel 1912 e pubblicato nel 1915 è un testo estremamente polimorfico perché si offre a differenti chiavi di lettura, così come le varie interpretazioni che ne sono state date evidenziano. Da quella che lo ha letto in chiave edipica per gli evidenti riferimenti che vi sono ne “La metamorfosi” al noto conflitto fra Franz Kafka e suo padre Hermann che avrà poi nella famosa “Lettera al padre”, indirizzata da Kafka a suo padre, la sua esplicita e drammatica confessione. A chi ha visto ne “La metamorfosi” un’allegoria del tema della discriminazione degli ebrei laddove, come ha scritto Harold Bloom, “…quasi ogni cosa che Kafka ha scritto si incentra sul suo rapporto con gli ebrei e con le tradizioni ebraiche”(1). A chi ha rilevato, nella condizione a cui si troverà assoggettato il protagonista de “La metamorfosi”, il riferimento al tema dell’alienazione e della spersonalizzazione dell’individuo nella società volendo rappresentare Kafka, secondo chi propende per questa tesi, l’emarginazione alla quale il “diverso” viene tragicamente condannato dalla società.

Ma se queste collocazioni del testo kafkiano, solo per citare le più note e ricorrenti, sono tutte legittime e fondate e considerano le vicende narrate un’allegoria di quei temi, “La metamorfosi” è, in realtà, prima di tutto – per quanto in esso è narrato e per come è narrato – un testo dominato da una ben precisa dimensione che lo connota in modo esplicito, al di là delle possibili metafore che gli si possono attribuire, e cioè la dimensione del fantastico tale da renderlo a pieno titolo ascrivibile a quel tipo di letteratura. Proprio perché l’inaudito, il non naturale, l’impensabile, l’impossibile che sono i tipici elementi fondativi e identificativi della letteratura del fantastico trovano ne “La metamorfosi” una presenza e una rilevanza evidente ed assoluta. Anzi è proprio in questa dimensione che, sin dall’incipit con cui si apre “La metamorfosi”, Kafka ci getta costringendo prima di tutto noi lettori ad accettarla come un dato di fatto non controvertibile e non spiegabile e così per tutto il racconto.

Si tratta – così come lo ha definito Francesco Orlando nel suo saggio su “La metamorfosi” contenuto ne “Il soprannaturale letterario. Storia, logica e forme”, che raccoglie i suoi studi sulla letteratura del fantastico, da lui indagato utilizzando la nozione di soprannaturale, e da poco editi organicamente – di un vero e proprio pugno sul tavolo.

Dice infatti Orlando: “L’inizio è come un pugno sul tavolo: il soprannaturale è gettato davanti al lettore, subito e tutto, con tale violenza e nella sua integralità. E il lettore deve accettarlo, perché se rifiutasse il patto dovrebbe interrompere la lettura. Citando Giuliano Baioni, diremo che “è questa l’unica frattura del racconto che si sviluppa poi per settanta pagine con assoluta, quasi scandalosa naturalezza”(2)….non si tratta infatti di interrogarsi se la tal cosa è successa o meno perché il fatto soprannaturale è indubitabile ed è tutto nella prima frase…sino alla fine, tutto quel che capita …non è che uno sviluppo assolutamente realistico e necessario di questa prima e unica deroga al verosimile, imposta subito con prepotenza inaudita”(3)

Ma anche altri autorevoli studiosi di Kafka convengono sul contenuto espressamente fantastico, prima ancora che simbolico e metaforico, de “La metamorfosi”. Per esempio Luigi Forte quando afferma: “Della Metamorfosi di Franz Kafka tutto si può dimenticare, ma non l’inizio, uno degli incipit che ha fatto il giro della letteratura del Novecento. Ormai quasi un luogo comune per raffigurare il mostruoso come ovvio, secondo la definizione di Adorno. Non una metafora né una connotazione simbolica, ma un dato surreale con i piedi ben poggiati per terra”(4)

E anche Cesare Segre inquadra esplicitamente “La metamorfosi” in quello che egli definisce un “mondo fantastico”: “L’inizio del racconto, memorabile, è anche decisivo: <<Destandosi un mattino da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò tramutato, nel suo letto, in un enorme insetto>>. Il risveglio è spesso, in Kafka, il passaggio a un mondo fantastico. Più precisamente: dal nostro mondo a un altro mondo possibile. Nel nostro mondo non può accadere che un uomo diventi un insetto, ma si possono pensare altri mondi in cui ciò avvenga. E il racconto si sviluppa proprio all’intersezione tra mondo reale e mondo pensato”.(5)

“La metamorfosi”, come peraltro il suo stesso titolo ci comunica, è quindi la storia di una trasformazione tanto inverosimile quanto mostruosa e misteriosa, determinandosi narrativamente una mutazione di stato: dal mondo reale a un mondo immaginario. Il passaggio cioè dall’umano al non umano e, ancor più orribilmente, ad una delle possibili forme del non umano che più ispirano ribrezzo nel nostro immaginario quella di un insetto per la precisione di uno scarafaggio. Di cui il commesso viaggiatore Gregor Samsa un mattino, al suo risveglio, nella casa in cui vive con i suoi genitori e sua sorella, assume le fattezze e le manifestazioni fisico corporee. Ma non, per così dire, la “coscienza”, mantenendo la sua di coscienza cioè quella umana tale e quale a quella che preesisteva in lui prima della mutazione.

In Gregor Samsa si determina quindi una frattura fra anima e corpo, fra un interno che continua ad essere sensibile e, come tale, a provare tutta la gamma dei sentimenti e delle sensazioni umane ed un esterno che si presenta, si muove e si manifesta in tutta la grevità e la penosità che esistere avendo il corpo di uno scarafaggio comporta. Vi è quindi uno sdoppiamento nell’unità, cioè il mantenersi nello stesso soggetto di una doppia natura: quella di Gregor Samsa uomo e, al tempo stesso, quella di Gregor Samsa scarafaggio. E ciò in una modalità irreversibile, senza cioè che Gregor Samsa ritorni mai, nel corso del racconto, ad essere pienamente uomo, né diventi del tutto ed esclusivamente uno scarafaggio.

Diversamente quindi da quello che in molta letteratura fantastica avviene, pensiamo a Jekyll e Hyde di Stevenson, in cui agisce come ne “La metamorfosi” una trasformazione ma dove o si è Jekyll o si è Hyde, non si è l’uno e l’altro contemporaneamente. Avendosi si uno stesso corpo ma due coscienze ben separate che danno vita a due persone e a due personalità completamente ed integralmente opposte e diverse. Invece il dramma di Gregor Samsa è che egli è sempre se stesso pur essendosi trasformato in uno scarafaggio e quindi vive e percepisce tutta la disperazione che questo determina e comporta, divenendo il suo un vero e proprio incubo: “Vivere in un incubo: questo, a prima impressione, il nucleo narrativo della Metamorfosi…Ma l’incubo è quello che vive Gregor. Per gli altri, la metamorfosi è causa di disagio, angoscia, paura, poi, via via, di fastidio, ripugnanza, schifo”(6)

Vi è quindi, già in ciò, un evidente elemento claustrofobico dovuto al fatto che Gregor Samsa è costretto a vivere in quel corpo che lo imprigiona e lo opprime, di cui non si può liberare e non si libererà. Ed è questo il primo dramma che Kafka mette in scena ne “La metamorfosi”: la perdita della libertà, l’impossibilità di emanciparsi dalla costrizione e doversi così rassegnare a subire lo scacco, disumano e devastante, di essere prigionieri di se stessi. Fino al limite estremo della morte che diventa, di fatto, l’unica possibile liberazione, tanto che “…Gregor alla fine cade in uno stato di spossatezza che prefigura l’intima gioia di chi sente svanire la lotta e la tensione: “Della necessità che dovesse scomparire era forse ancora più convinto della sorella”. E’ un viaggio immobile e statico quello di Gregor, un viaggio verso l’ autodissoluzione fin dall’inizio…” (7)

Perché, come in una sorta di sequenza, si susseguono, ne “La metamorfosi”, stadi, differenti e progressivi, che rinchiudono e limitano lo spazio vitale di Gregor Samsa, sia in senso fisico che esistenziale, fino a ridurlo ad una condizione di cattività, accentuando e amplificando ciò la dimensione claustrofobica del racconto. Quando il padre di Gregor Samsa lo scaccia nella sua stanza, dopo che da essa egli è faticosamente e spaventosamente, per chi lo osserva, fuoriuscito, allontanandolo definitivamente da sé e dal resto della famiglia, è proprio quella riduzione alla cattività che si realizza, intesa come l’essere buttati fuori dal mondo: “Il finale della prima parte della Metamorfosi rilancia tristemente quel tema quando il padre assesta un forte colpo al figlio-insetto e lo scaraventa ferito nella sua stanza: “La porta venne richiusa con il bastone, poi finalmente si fece silenzio”” (8)

Intorno a Gregor Samsa si farà infatti progressivamente e crudelmente il vuoto. Lo si relegherà in quella sua condizione, condannandolo spietatamente a quel suo destino, senza darsi e senza dargli alcuna speranza. Gregor Samsa si troverà quindi ad essere due volte vittima. Vittima impotente di se stesso e vittima dell’incomprensione e del rifiuto altrui, sia per ciò che riguarda il contesto pubblico che quello privato. Intendendosi i suoi datori di lavoro da una parte e la sua famiglia dall’altra che alimentano, rinforzandolo, quel “…senso di esclusione che il racconto proietta in una luce livida e irreale. Da cui emergono…le terribili icone del potere: il padre-padrone che via via diventa un aggressivo e intollerante avversario, e il procuratore che, di fronte alla riluttanza di Gregor ad aprire la porta, aggredisce il povero commesso viaggiatore con avvertimenti e minacce, quasi un preambolo di licenziamento” (9)

Gregor Samsa subisce quindi l’umiliazione e l’offesa degli altri laddove, ovviamente, quella paterna e familiare è la più terribile. Le quali sono rese ancor più laceranti e dolorose in quanto si manifestano come conseguenza di un intento e di un atteggiamento colpevolizzante. Su Gregor viene infatti gettata l’ombra implacabile di una colpa per quella trasformazione che avrebbe messo in atto. Non solo perché così facendo non è più in grado di essere quella fonte di reddito necessaria al mantenimento della sua famiglia che egli aveva sin lì rappresentato ma perché l’unilateralità di quella trasformazione rompe e trasgredisce il patto di subordinazione ed accettazione delle norme sociali e familiari a cui Gregor si era sin lì assoggettato. Quindi egli, mutandosi in scarafaggio – intendendosi implicitamente che è egli stesso ad averlo fatto e voluto – diventa colpevole di insubordinazione e di infedeltà al patto e ai vincoli che lo legano al lavoro e alla famiglia. E la colpevolizzazione coinciderà con la sua negazione: non essendo più il suo comportamento adeguato egli viene letteralmente condannato.

Non vi è, perciò, non solo nessuna pietà per il suo dramma, ma neanche la presa d’atto di ciò che è accaduto. Cioè l’inverosimile, nel momento in cui viene derubricato ad essere “solo” insopportabile ed inaccettabile – così come lo può essere una disgrazia, essendo in questo modo che, a un certo punto, viene definita la metamorfosi: “…una disgrazia come nessun’altra in tutta la cerchia dei parenti e dei conoscenti” – ebbene quell’inverosimile diventa, paradossalmente, ancor più fantastico, sfociando il tutto nei paraggi della follia.

Tentare di “salvare” Gregor Samsa avrebbe infatti reso il racconto “solo” grottesco, perché avrebbe evidenziato la possibilità di una verità e introdotto un elemento di realismo, più o meno tragicomico. Invece rimuovendo l’evidenza dell’abnorme e continuando a porsi come se Gregor avesse in tutto ciò un suo disegno e una sua volontà, per i quali viene additato come colpevole, si finisce per portare ancor più nel racconto quella dimensione dell’inaudito, dell’impensabile e dell’impossibile che non sono più determinate solo da quanto accaduto ed accade a Gregor ma anche da come, chi gli sta intorno, si pone di fronte a lui e all’evento.

Come osserva Francesco Orlando che, citando Camus, afferma: “Quel che soprattutto allontana Kafka dal realismo ottocentesco, senza che quasi il lettore se ne accorga, tanto l’operazione è sottile, è che la mostruosa metamorfosi, del tutto immotivata e imprevista, viene accolta senza lo sconcerto che in effetti dovrebbe ispirare. Albert Camus ha bene espresso questa caratteristica della scrittura di Kafka quando ha scritto che << non ci si meraviglierà mai abbastanza di questa mancanza di ogni meraviglia>> (10). Il colpo di scena non è soltanto il dato in sé della trasformazione nella sua assoluta inverosimiglianza, quanto soprattutto il modo in cui la cosa viene accolta dalla vittima e da tutti gli altri personaggi: ci si scandalizza si, ci si meraviglia, ma non come di fronte a un fatto mostruoso, o meglio soprannaturale, bensì come davanti a una disgrazia piuttosto insolita, strana ma non inammissibile”(11).

Quello che in sostanza sconcerta è che tutto si svolge e si svolgerà, nel corso del racconto, come se tutto e tutti fossero comunque e sempre dentro il mondo “umano” esprimendosi e comportandosi secondo le sue logiche e le sue dinamiche e quindi riproducendo tutta l’umanità (che trasmette Gregor) e tutta la disumanità (che trasmettono gli altri nei confronti di Gregor) propria degli esseri umani

E la conseguenza di questa “normalizzazione del soprannaturale”(12) sarà, per l’uomo-insetto Gregor Samsa, essere sospinto nella più assoluta solitudine, difficilmente in questo senso si può riuscire ad immaginare una solitudine più “sola” di quella di Gregor Samsa il quale non avrà più alcuna possibilità di comunicare col mondo finendo per trasformarsi la sua vita in un’ assoluta mancanza di rapporti con la vita. Il che mette a nudo il dato più feroce e disumano de “La metamorfosi” quello dell’intima violenza che lo pervade e lo connota. La sottomissione al soprannaturale assunto come un dato di fatto inspiegabile e, come tale, accettato e metabolizzato dagli attori determina e produce l’instaurarsi della violenza assunta anch’essa come un dato di fatto. In quanto ad essa non si sottrae Gregor che non agisce alcuna fuga né alcuna ribellione da quella violenza, “rifugiandovisi” e adattandovisi e, in tal modo, ammettendo e accettando implicitamente la colpa, anch’essa divenuta così un dato di fatto. La quale violenza viene, a sua volta, perpetrata e continuata su di lui dagli altri senza remore.

Dando vita a un asse che, senza soluzione di continuità, scorre lungo un continuum che parte dall’apparizione del soprannaturale – accettato acriticamente – il quale viene sancito come colpa e, infine, viene assoggettato alla punizione tramite la violenza agita su Gregor. Determinandosi una sorta di terribile complicità tra vittima e carnefici e tra questi al loro interno, pur nella diversa gradazione dei loro atteggiamenti e del loro porsi: “…la violenza del padre; la relativa carità, finché dura della sorella; l’atteggiamento addolorato ma in sostanza un po’ distratto e sotto sotto egoistico della madre; gli insulti della domestica”(13)

Conseguenza, come detto, la solitudine di Gregor che, come sintetizza lapidariamente Francesco Orlando, ci dice quella che è l’essenziale verità de “La metamorfosi”: “…chi è solo è solo, questo è il terribile messaggio del racconto di Kafka” (14)

E, in questo quadro, il pensiero di Gregor ormai moribondo e privo di qualsiasi residua volontà di vivere, rivolto, nonostante tutto, alla sua famiglia: “Alla sua famiglia ripensò con commozione e amore”, dà la misura di quanto, in quella sua solitudine mortale, egli si aggrapperà, in modo struggente, all’unica cosa a cui umanamente poteva aggrapparsi per non morire solo. Un modo, l’unico modo per morire pensandosi non scarafaggio ma essere umano.

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1. Haroold Bloom – “Kafka: pazienza canonica e “indistruttibilità”” in H. Bloom – “Il canone occidentale” – Bompiani – 1997 – p. 401

2.Giuliano Baioni – “Kafka. Romanzo e parabola” – Feltrinelli -1962 – p.82

3. Francesco Orlando – “Il soprannaturale come un pugno sul tavolo: Die Verwandlung di Kafka” in F. Orlando – “Il soprannaturale letterario. Storia, logica e forme” – Piccola Biblioteca Einaudi – 2017 – pp. 80,81

4. Luigi Forte – “Introduzione” in F. Kafka – “La metamorfosi” – Einaudi Tascabili – 2014 – p.V

5. Cesare Segre – “Prefazione. Schiacciato dal potere paterno” in F. Kafka – “La metamorfosi” – I Grandi romanzi. Corriere della Sera – 2002- p.8

6. C. Segre, cit., p. 7

7. L. Forte, cit., p. XIII

8. L. Forte, cit., p. VII

9. L. Forte, cit., p. IX,X

10. Albert Camus – “La speranza e l’assurdo nell’opera di Franz Kafka” in A. Camus – “Il mito di Sisifo” – Bompiani – 1972 – p.155

11. F. Orlando, cit. p. 81

12. F. Orlando, cit. p. 82

13. F. Orlando, cit. p. 85

14. F. Orlando, cit. p. 85

17 risposte a "“La metamorfosi” – Franz Kafka"

  1. giacinta 7 dicembre 2017 / 14:44

    L’assenza di meraviglia dinanzi al fantastico, all’innaturale tende a essere fatta propria anche dal lettore se riconosce che l’esistenza in vita stessa non è del tutto ( o per niente ) chiara, determinabile in tutto il suo percorso, conoscibile nelle sue ragioni. Il tema del cambiamento o di qualcosa che comprometta un assetto consolidato è frequente nelle opere di Kafka, è il tratto addirittura distintivo delle sue opere e non sorprende che a trattarlo sia un uomo a cui era stata diagnosticata una malattia che all’epoca non permetteva di fare progetti di lunga durata e di immaginare un percorso sereno e lineare della propria esistenza. Non voglio con questo dire che Kafka abbia voluto rappresentare nelle proprie opere i limiti derivanti da tale stato, anche perchè, penso che il fantastico possa avere una valenza umoristica se non schiettamente ludica. Tutto sommato in letteratura tutto è possibile….

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    • ilcollezionistadiletture 7 dicembre 2017 / 16:10

      Ciao Giacinta
      In effetti quelli a cui fai riferimento sono anch’essi temi e valenze che nella “lettura” de “La metamorfosi” sono state considerate. “La metamorfosi” è stata infatti letta anche come rappresentazione della malattia mortale, messa cioè in relazione alla nota malattia di Kafka a cui accenni. Ma anche l’aspetto umoristico è stato “visto” tanto che André Breton inserì, nella sua famosa “Antologia dello humour nero”, tre brani de “La metamorfosi”.
      Insomma le possibili letture e interpretazioni di questo testo, come di tutta l’opera di Kafka, sono innumerevoli, ma a fronte delle tante possibili domande e delle possibili risposte, le quali possono essere tutte vere, nessuna tuttavia è mai definitiva e questo rende quell’elemento fantastico presente in Kafka e, in questo caso, in modo particolare ne “La metamorfosi”, prima di tutto enigmatico. Come peraltro mi sembra evochino le tue parole quando dici “l’esistenza in vita stessa non è del tutto ( o per niente ) chiara, determinabile in tutto il suo percorso, conoscibile nelle sue ragioni.”
      Un carissimo saluto e grazie per la consueta partecipe attenzione.

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  2. Alessandra 7 dicembre 2017 / 19:26

    Mi ricordo di averlo letto in età adolescenziale, e quindi di averlo preso (con grande ansia e stupore) come un racconto “fantastico”, senza andare a caccia di altri significati. Dovrei magari rileggerlo adesso, a distanza di tanti anni, per vedere se mi trasmette qualcos’altro. Il vero incubo, come ben spieghi, è quello della “consapevolezza” di essere dentro un corpo, oltretutto ripugnante, che non è più il tuo… con l’assoluta impossibilità di uscirne, di trovare una soluzione al problema. Questa era la cosa che più mi stupiva e terrorizzava, quand’ero una ragazzina. Molto bella ed esaustiva la tua analisi, davvero apprezzata!

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    • ilcollezionistadiletture 8 dicembre 2017 / 11:08

      Eh, si è una delle immagini letterarie più claustrofobiche che ci siano quella del povero Gregor imprigionato in quel corpo scarafaggesco. D’altro canto il corpo, il suo corpo era per Kafka una delle fonti del suo disagio, percependosi fisicamente inadeguato. In una pagina dei suoi “Diari” nel 1911 scrive: “Certo è che uno dei principali ostacoli al mio progresso è dato dalle mie condizioni fisiche. Con un corpo così non si può raggiungere niente. Dovrò avvezzarmi ai suoi continui fallimenti…Il mio corpo è troppo lungo per la sua debolezza, non possiede il minimo grasso per produrre un benefico calore, per conservare il fuoco interno, alcun grasso di cui lo spirito possa nutrirsi oltre il bisogno quotidiano senza danneggiare l’insieme.” E chi, meglio di Kafka, è riuscito a rappresentare quella condizione dell’ingabbiamento e dell’ingabbiarsi (che domina nell’immagine di Gregor prigioniero del suo corpo) nella quale si finisce per ritrovarsi senza neanche accorgersene. C’è, a questo riguardo, un aforisma di Kafka, tipicamente kafkiano che dice: “Una gabbia andò a cercare un uccello”, dove, quasi metafisicamente, una cosa inanimata e oggettiva incombe e si protende su ciò che è animato e soggettivo. Dove, di fatto, la realtà interna percepita è peggiore di quella esterna. In quell’aforisma è come se quella gabbia incombesse già anche su di noi.Tuttavia Kafka, come accade anche ne “La metamorfosi”, ha uno spiccato senso del comico e le sue costruzioni, sebbene portino dentro labirinti senza uscita, hanno però sempre un che di fortemente paradossale che tiene aperta la porta anche ad altre soluzioni “fantastiche”..
      Grazie Alessandra per i tuoi generosi apprezzamenti e per la tua sempre attenta condivisione.
      Un carissimo saluto.
      Raffaele

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  3. Silvia Lo Giudice 7 dicembre 2017 / 21:15

    Quello che più mi ha colpito de La metamorfosi, che tu hai analizzato esaustivamente, è che Gregor è l’unico a non scandalizzarsi della sua trasformazione, l’accetta e vi si adatta, vi si rifugia, come scrivi tu. Accetta la colpa, se questo è il suo destino. Mi sono sempre chiesta: perché questa mancanza di un po’ di meraviglia?

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    • ilcollezionistadiletture 8 dicembre 2017 / 11:45

      Perché le cose in Kafka incombono come dei dati di fatto che non hanno una spiegazione. Gli accadimenti sembrano avere sempre una natura ontologica: è così. E, nel momento in cui è così, è dentro quella condizione che i personaggi si muovono. Francesco Orlando nel suo saggio che ho citato nel commento osserva che la “…progressione di conoscenza nel caso di Samsa non solo non prende a oggetto la metamorfosi, ma è tutta dalla parte del sapere e per niente del capire”.
      Gregor prende via via conoscenza della situazione ma non se la spiega e quindi non si meraviglia, cercando soltanto di “stare” in qualche modo in quella situazione, in realtà già intimamente rassegnato, come un predestinato, a quel destino. E, in questo, c’è già tutto Kafka.
      Grazie Silvia per la gradita visita, per l’apprezzamento e la condivisione.
      Un carissimo saluto.
      Raffaele

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      • Silvia Lo Giudice 8 dicembre 2017 / 11:57

        Come Josef K. che è condannato a morte, nel Processo, e non saprà mai perché.
        Il soprannaturale, che è come un pugno sul toglie, trabocca realismo. Ricordo di aver letto La metamorfosi in un solo pomeriggio, vuoi la brevità del testo, vuoi il potere dell’affabulazione, seppur fantastica, ma con connotati fortemente realistici, tanto che a un certo punto, immersa nelle pagine e con i capelli che mi sfioravano la guancia, ho fatto un salto sul divano: erano le zampette di Gregor che mi stavano sfiorando.

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  4. Flavia Salerni 11 dicembre 2017 / 1:49

    Kafka lettura indispensabile. Ti consiglio, qualora non dovessi conoscerlo, anche le botteghe color cannella di B. Schultz. Un saluto 🌻

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    • ilcollezionistadiletture 11 dicembre 2017 / 6:20

      “Le botteghe color cannella” è un libro assolutamente straordinario che conosco bene, di cui trovi all’interno del blog un ampio commento. Condivido pienamente l’indispensabilità della lettura di Kafka. Grazie della visita e dell’attenzione.
      Ciao
      Raffaele

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  5. dietroleparole 13 dicembre 2017 / 17:38

    Credo che in coda al tuo bellissimo commento a questo capolavoro che invita, come sempre la scrittura di Kafka, alla domanda sul senso, ma anche al semplice godimento estetico di fronte all’evolversi di una visione che, da sola, riesce a stupire, a incuriosire, a intenerire e a inorridire con tutta la potenza dell’immagine letteraria, ci stiano bene, come commosso omaggio, le parole dello stesso autore, scritte mentre il racconto nasceva dalla sua penna, si espandeva e trovava il suo compimento. Sono tratte dalle “Lettere a Felice”:

    21/11/1912. “Dio mio, cara, quanto ti amo! E’ notte, molto tardi, ho messo da parte il mio raccontino al quale veramente non ho più lavorato da due sere; nel silenzio comincia ad aumentare e a diventare un racconto lungo. Dartelo da leggere? Come faccio? Anche se l’avessi già terminato. Scritto così è quasi illeggibile e se anche questo non fosse un ostacolo, poiché finora non ti ho certo viziata con la bella scrittura, non vorrei mandarti nulla da leggere. Voglio leggerti io, sì, sarebbe bello leggerti questo racconto ed essere intanto costretto a tenerti una mano, perché la storia è un po’ paurosa. E’ intitolata Metamorfosi, ti incuterebbe molta paura, e forse ne faresti a meno, poiché paura ti devo fare purtroppo ogni giorno con le mie lettere. […] Ora sono troppo triste e forse non avrei dovuto scriverti. Ma oggi anche al protagonista del mio raccontino è andata troppo male, eppure è soltanto l’ultimo gradino della sua disgrazia che ora non avrà più fine”.

    24/11/1912. “Cara, che racconto eccezionalmente ripugnante è mai quello che metto di nuovo da parte per riavermi pensando a te! Ora è già arrivato un pezzo oltre la metà e io in complesso non ne sono insoddisfatto, ma è nauseante oltre ogni limite, e queste cose, vedi, vengono dal medesimo cuore nel quale stai tu, quello in cui tolleri di soggiornare. Non essere rattristata perché, si sa, quanto più vivo e quanto più mi libero, tanto più divento forse puro e degno di te, ma certo ci sono in me ancora molte cose da eliminare e le notti non possono essere lunghe abbastanza per questo lavoro che d’altronde è estremamente voluttuoso”.

    5/12/1912. “Ma tu non conosci ancora il tuo breve racconto: è un po’ selvaggio e assurdo e se non avesse una sua verità interiore (cose che non si può mai stabilire sulle generali, ma deve ogni volta essere confermata o negata da ogni lettore o ascoltatore) non sarebbe niente. D’altra parte, cosa difficilmente immaginabile, data la sua brevità (17 pagine dattilografate), ha un mucchio di difetti e non capisco come mi sia venuto il coraggio di donarti un simile parto, per lo meno assai problematico. Ma ognuno dà quello che ha, io il breve racconto con me stesso per appendice, tu l’enorme dono del tuo amore. Se tu sapessi, cara, quanto sono felice per merito tuo; quell’unica lacrima che la fine del tuo racconto mi fece versare, conteneva anche lacrime della mia felicità”.

    7/12/1912. “Piangi, cara, piangi, questo è il momento di piangere. Il protagonista del mio raccontino è deceduto un momento fa. Se ciò ti conforta, sappi che è morto abbastanza pacificamente e riconciliato con tutti”.

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    • ilcollezionistadiletture 16 dicembre 2017 / 11:50

      “…Kafka, da ultimo, è stremato e insoddisfatto dei risultati:

      …io da solo, – confessa – io con le forze creatrici che sento in me, a prescindere dal loro vigore e dalla loro resistenza, avrei portato a termine, in condizioni di vita più favorevoli, un lavoro più puro, più efficace, più organizzato di quello che ora esiste.

      Poi l’annuncio finale, la notte fra il 6 e il 7 dicembre:

      Carissima, ascoltami, la mia piccola storia è terminata, ma la conclusione scritta oggi non mi piace per nulla, avrebbe dovuto essere migliore, non c’è dubbio.

      Un giudizio che egli ribadirà anche più tardi, in un’annotazione diaristica del 19 gennaio 1914:

      Profondo disgusto per la “Metamorfosi”. Illeggibile la fine. Imperfetta quasi fino in fondo.

      Non è difficile confutare il masochismo dell’autore di fronte al proprio racconto. Quel finale, in realtà, è impeccabile ma agghiacciante….Nella sua analisi delle lettere di Kafka alla fidanzata Canetti ha espresso un giudizio assoluto, inoppugnabile: “Non esiste nulla che possa superare in validità la Metamorfosi, una delle poche grandi e perfette creazioni di questo secolo”
      ( L. Forte – “Introduzione” in F. Kafka -”La metamorfosi” – Einaudi Tascabili – 2014 – p. VIII)

      Grazie di tutto e per tutto. Un omaggio, il tuo, che testimonia la grandissima sensibilità non solo di Kafka scrittore ma, ancor più, di Kafka uomo.
      Un carissimo saluto
      Raffaele

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  6. viducoli 16 dicembre 2017 / 23:47

    Ciao Raffaele.
    Innanzitutto credo sia doveroso dirti tutta la mia ammirazione per avere avuto il coraggio di affrontare in un articolo un testo come La metamorfosi, vero caposaldo letterario assoluto su cui è già stato scritto (quasi) tutto e il contrario di tutto. Ammirazione accresciuta dal fato che nonostante questo Tu sia riuscito a scrivere un articolo così denso dove io – ma non solo io, a giudicare dai commenti – ho trovato parecchi spunti di riflessione.
    Concordo pienamente sulla complessità del testo,che porta – come per tutti i veri capolavori – ad una pressoché infinita compenetrazione di piani d’interpretazione.
    Concordo anche sul fatto che il memorabile incipit comporti una cesura immediata dopo il quale nulla è più come prima e l’apparente normalità di ciò che accade è comunque deviata per sempre dall’aver accettato come normale che un uomo si sia trasformato in scarafaggio. Credo si possa dire che K. usi la stessa tecnica, sia pure riferita ad un fatto (apparentemente) meno traumatico, nel Processo.
    L’elemento fantastico, l’irruzione del soprannaturale (io lo definirei malamente piuttosto un sottonaturale) nella realtà piccolo-borghese del commesso viaggiatore Gregor Samsa sono fuori discussione.
    Tuttavia credo che la domanda principale che dobbiamo porci sia perché K. giunge a scrivere La metamorfosi e le altre sue opere. È solo a causa della sua condizione esistenziale o anche a questa risposta possiamo dare moltissime risposte compenetrantesi? E tra queste, il senso di disgregazione di un mondo, particolarmente accentuato in cacania, particolarmente acuto in una città periferica come Praga, che negli stessi anni il nobile Rilke dovrà abbandonare per poter continuare a scrivere, non ha una parte se non preponderante certo importante? Il crollo delle certezze sociali anche a livello di quali siano i fondamenti ultimi dei comportamenti individuali, certificato a Vienna da Freud, quanto incide sul fatto che Samsa deve essere contemporaneamente Jekyll e Hyde (come fai argutamente notare), che non possa esserci più la rassicurante, ottocentesca separazione netta tra bene e male, in un mondo che fa del bene il male e viceversa? In fondo è ciò che succede alla famiglia Samsa: chi rimane normale diviene aguzzino, e chi è divenuto scarafaggio è l’unico a conservare una sua umanità.
    Tra gli infiniti piani di lettura de La metamorfosi io quindi privilegio quelli in cui l’aspetto di grande metafora di un mondo in disfacimento, dove non vi sono più certezze di nessun tipo, gioca un ruolo importante, accanto ovviamente ad altri.
    Mah, mi rendo conto di essere stato molto confuso (l’ora del resto è tarda e comunque io non ho i tuoi strumenti analitici), ma ci tenevo a dirti i miei pensieri su uno dei testi che mi hanno iniziato alla grande letteratura.
    Grazie per avermi consentito di parlarne.
    A presto
    V.

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    • ilcollezionistadiletture 17 dicembre 2017 / 9:22

      Carissimo Vittorio
      Innanzitutto ti ringrazio di cuore per i tuoi generosi apprezzamenti che provenendo da un lettore esperto e competente come te nonché da un intelligente interprete dei testi quale sei, sono ancora più graditi e gratificanti.
      Accolgo a piene mani le tue considerazioni le quali sono assolutamente condivisibili, costituendo una sorta di postilla al mio commento.
      La nuova e diversa configurazione che bene e male vengono ad assumere ne “La metamorfosi”, associandosi rispettivamente il bene al “diverso” cioè a Gregor, tuttavia percepito dagli altri come “male” e il male al “normale” cioè la sua famiglia che tuttavia si comporta conformisticamente “bene”, costituiscono un altro dei grandi temi, sia sul piano della soggettività, che del disvelamento dell’ambiguità delle norme sociali, de “La metamorfosi”, oltretutto innovativo per allora e assolutamente moderno ancor oggi. A conferma di quanto questo racconto sia ricco e poliedrico.
      Grazie quindi di questo tuo bel contributo che arricchisce ulteriormente la discussione su “La metamorfosi”.
      Un carissimo saluto e una buona domenica.
      Ciao
      Raffaele

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  7. viducoli 16 dicembre 2017 / 23:52

    Siccome non ho ancora trovato il maledetto modo di correggere i commenti postati su blog diversi dal mio, riscrivo qui una frase che rileggendo ho visto essere piena di errori:

    È solo a causa della sua condizione esistenziale o anche a questa questione possiamo dare moltissime risposte compenetrantisi?

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