“La malora” – Beppe Fenoglio

“La malora” è il secondo libro di Fenoglio, uscito nel 1954, due anni dopo “I ventitre giorni della città di Alba”, a cui farà seguito, nel 1959, il suo terzo libro: “Primavera di bellezza”. Ma se questi ultimi due libri, come poi avverrà per la gran parte della sua opera, hanno per tema la lotta partigiana e i suoi esiti, con tutta la problematicità e drammaticità che quell’esperienza ebbe per Fenoglio  –  che ne colse le implicazioni laceranti di guerra civile e di “violenza pubblica”  –  “La malora” si distacca da questo filone costituendo, nel corpus dell’opera dello scrittore piemontese, un testo contenutisticamente diverso dagli altri.

Tale diversità è data dal suo vertere su un mondo e un ambiente, quello contadino delle Langhe dei primi decenni del Novecento, (periodizzazione prevalentemente accreditata, sebbene nel testo non vi sia alcuna indicazione temporale), narrato nella sua cruda e crudele miseria; facendo di quel microcosmo geografico il luogo di una geografia esistenziale lacerante e violenta tanto quanto lo sarà quella rappresentata da Fenoglio nel narrare la guerra partigiana.

Se infatti “La malora” ha la specificità tematica che si è detto, essa ha però un’intrinseca e organica appartenenza a quegli stessi “motivi” che ispireranno il complesso dell’opera di Fenoglio e cioè quello della violenza che pervade le esistenze e diviene “misura” del mondo, creando un conflitto dirompente e tragico fra umanità e disumanità, fra pietà e spietatezza. Come fosse un dato di natura che, nelle esperienze limite come sono la guerra e la miseria, emerge in tutta la sua forza ed evidenza. In questo senso ne “La malora” muta solo il punto di osservazione, essendo esso incentrato su un versante per così dire “privato” e sulle condizioni materiali dell’esistere nel concreto di quella realtà ma non il senso di tale osservazione, intimamente affine al narrare complessivo di Fenoglio.

Il suo “realismo”,  di cui ci rende partecipi ne “La malora”, lungi dall’ essere riducibile ad una sorta di “verismo”, veicola una visione epico-morale e una dimensione esistenziale profonda e potente che sono cifre costanti della sua opera ed esprime, al tempo stesso, una partecipazione altissima con le vicende narrate. La vita e la sopravvivenza affondano in Fenoglio in una primitività di reazioni e di sentimenti che rimandano a un che di antico e di primordiale ma senza suggestioni nostalgiche e senza alcunché di magico o mitico. Come, per esempio, assumono analoghe narrazioni e ambientazioni in Pavese, anch’egli interprete,  nella sua opera,  di quello stesso mondo contadino delle Langhe.

Quello che importa a Fenoglio sono i rapporti fra gli uomini, la concretezza dell’esistenza quotidiana, il pudore dei sentimenti descritti con frasi asciutte e scabre che incidono l’ immaginazione del lettore. C’è qualcosa di arcaico nei caratteri dei suoi personaggi, nell’asprezza della lingua, modulata su cadenze che sanno di concisione e gravità, nell’essenzialità semplice delle scelte morali, nella grandiosa elementarità dei sentimenti. La parola stessa è un lusso raro in quei rapporti ridotti al minimo, in quella tensione snervante di un’esistenza in continua lotta contro tutto.

Fenoglio ci mette di fronte la brutalità degli uomini e delle loro vite su cui incombe quella dannazione, quella “malora” appunto che li sovrasta e li pervade la quale, come un male oscuro, invade le esistenze e domina le cose. In quella realtà e in quel mondo non è dato sfuggire a quel destino e, come vittime di una inesorabile metafisica, i personaggi hanno le loro vite iscritte in quel destino, nel quale il male alligna ovunque e assume le più diverse configurazioni. E’ un mondo spietato e avaro quello descritto da Fenoglio dove l’umanità che pure tenta di continuo di affiorare è schiacciata dagli eventi e dalla ferocia degli egoismi e delle miserie umane.

Se la letteratura è una continua rivelazione è questo lavoro di continua rivelazione che Fenoglio compie, denudando uomini e cose da qualsiasi retorica e consolazione e affondando nella più estrema e radicale autenticità, nutrita da una compassione umanissima di fronte ai dolori e alle disperazioni che da quegli uomini e da quelle cose emanano. Quando Agostino, il giovane contadino,  protagonista-narratore de “La malora”,  ci racconta la sua storia di perseguitato dalla sorte, noi sentiamo che il suo cuore riesce a mantenere vivo dentro di sé il senso degli affetti e a preservare quel suo carico di tenerezze non spese.

In questo senso i personaggi de “La malora” dilagano dai confini e dai margini delle Langhe e assumono aspetti e tonalità universali, conferiti anche da quella dimensione atemporale in cui le vicende sono collocate e narrate. Perché in Fenoglio c’è una densità materica che va oltre il tempo e lo spazio e che si manifesta in quei veri e propri corpo a corpo esistenziali che legano quegli uomini tra loro e che, a loro volta, li legano alla loro terra e alla loro roba.

Così come vi è una densità materica che si sprigiona tramite il linguaggio, il cui risultato sono quelle “parole precise e vere” di cui parlava Calvino. D’altro canto Fenoglio stesso ebbe a dire: “Scrivo per un’infinità di motivi…Non certo per divertirmi. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti”. Ed è da questo lavoro di scavo e di sottrazione che deriva la lucidità ed essenzialità della sua prosa, che dimostra l’attenzione estrema di Fenoglio per la parola e per la scrittura.

E, ne “La malora”, Fenoglio “crea” la lingua, cioè una sua lingua, in cui lavora ai fianchi l’italiano e lo ibrida con il dialetto. Ma un dialetto a sua volta “ri/creato” e tenuto a suo modo nascosto, perché integrato perfettamente nel testo e reso ad esso sempre funzionale. Ne deriva una lingua anomala che, nella sua oltranza, sottolinea l’ oltranza dei sentimenti e dei destini di cui parla, ma capace di andare persino al di là dei contenuti che veicola e di vivere di una sua propria e pura energia. In questo senso il dialetto, così come usato da Fenoglio, non pone al lettore problemi di comprensione o di “trduzione” perché, pur nello straniamento che trasmette, è sempre potentemente evocativo e, la sua resa narrativa, è sempre fortissima.

“La malora” ha un impianto assimilabile a quello di un romanzo di formazione in cui, una sorta di “crescendo di sventure”, scandisce la crescita e la maturità di Agostino Braida. Il quale vivrà su di sé e vedrà intorno a sé la fine di ogni innocenza, laddove l’età dell’innocenza affiorerà solo come un lontano e rimpianto ricordo.

Ma in quel mondo il patimento arriva presto e inesorabile e accompagna l’intera esistenza nella quale il proprio destino è nel non detto in cui le cose accadono: “Come la mia famiglia sia scesa alla mira di mandare un figlio, me, a servire lontano da casa, è un fatto che forse io sono ancora troppo giovane per capirlo da me solo. I nostri padre e madre ci spiegavano i loro affari non più di quanto ci avrebbero spiegato il modo che ci avevan fatti nascere: senza mai una parola ci misero davanti il lavoro, il mangiare, i quattro soldi della domenica e infine, per me, l’andare da servitore” dice Agostino parlando di quel suo essere stato mandato come “servente” a lavorare e vivere nella cascina di Tobia Rabino, dispotico e spietato fittavolo, il cui bestiale sfruttamento della moglie, dei figli e di Agostino stesso, lo rende una figura di una prepotenza violenta e allucinante.

Ma come accade in quel mondo era stata quella miseria che invelenisce tutti i rapporti a spingere il padre di Agostino a “venderlo” a Tobia come “un agnello in tempo di Pasqua”, così come sarà sempre in nome di quella miseria che avverrà il sacrificio di Emilio, il fratello minore di Agostino. Costretto ad entrare in seminario dove si ammalerà di tubercolosi, per soddisfare i voleri bigotti della fervente maestra del paese, nonché usuraia, la quale avrebbe così estinto il debito che i genitori avevano con lei.

Entrambi, quello di Agostino e quello di Emilio, sono allontanamenti dolorosi in quanto non scelti, laddove, in quel mondo, le proprie scelte e la propria volontà non contano nulla. Perché le logiche dominanti sono quelle del bisogno e della necessità, ma anche quelle dell’accaparrare e del conservare, finendo tutti per vivere in un perenne “calcolo”. Dove l’abisso della miseria diventa un abisso di miserie nel quale il confine tra sfruttatori e sfruttati è minimo, potendo divenire tali condizioni intercambiabili, avendone in comune il più totale abbrutimento, come nel racconto di sé che fa Tobia: “Vi contassi d’uno che da bambino gli è morto suo padre e se lo prese in casa un suo zio. Lo faceva tirare che al paragone voi siete dei signorotti, e a mezzogiorno gli diceva: “Se non mangi pranzo, ti do due soldi”, e bisognava pigliare i due soldi, e a cena: “Se vuoi mangiar cena, mi devi dare due soldi”. Ero mica io quel bambino là? Voi non avete mai provato niente”.

La vita contadina in quel mondo diventa quindi una guerra sotterranea e incessante con quella “malora”, in cui anche l’accidentalità sembra parte di un disegno diabolico e imponderabile come quando Agostino, portato da Stefano, il fratello maggiore, a vedere il segno lasciato dal padre che scivolando era caduto e cadendo lì era morto dirà: “…vederlo m’empì di spavento e di furore, come se fosse il segno che lascia il diavolo”.

Privati di ogni conforto che sia esso divino: “Dio non fu mai con noi” dirà Agostino, che dato dal favore della sorte: “Mia madre non ha mai avuto nessuna fortuna” dice ancora Agostino – ma ciò è una costante per molti in quel mondo – i personaggi de “La malora” finiscono per trovarsi soli con se stessi a fronteggiare la vita. Laddove anche i legami familiari – fortissimi in quanto legami di sangue, fondati sul principio di autorità a cui nessuno si sottrae – non garantiscono però, di per sé, alcuna solidarietà. E l’umanità, al loro interno, anche quando appare, come nel toccante rapporto fra Agostino ed Emilio, resta tuttavia avvolta in una sfera di dolore e di impotenza.

E’ come se l’ attaccamento alla terra, alle cose, ai propri simili, li imprigionasse, a fronte di una tensione verso una liberazione covata e anelata ma, al tempo stesso, continuamente repressa e frustrata. Come se l’esistenza fosse attraversata da una delusione perenne e immutabile, dettata dalla rinuncia e dalle rinunce a cui si è costretti. Di ciò un caso esemplare è quando Agostino intravede una fuoriuscita da quella vita, in quella corrispondenza di affetti con Fede, la giovane “servente” assunta da Tobia, essendosi la moglie ammalata per il troppo lavoro. La dolcezza di Fede dà ad Agostino una gioia ed una energia prima per lui sconosciute, costituendo questo momento uno dei più poetici di tutto il racconto. Ma proprio quando egli comincia ad immaginare una vita diversa, la ragazza è costretta dai parenti ad un redditizio, per loro, matrimonio di interessi, venendo consegnata come una vittima sacrificale allo sposo sconosciuto, del tutto ignorata nei suoi sentimenti.

Di fronte a quella vita di rinunce l’unico rimedio sembra essere solo la morte, ma non la morte che arriva per caso, ma il darsela la morte, come quella che si darà il personaggio di Costantino, che, se pur disperata e sterile, sembra l’unica possibile ribellione alla forza sovrastante de “la malora”. In questo senso il tema della morte incombe a sua volta in tutto il racconto, aprendolo con la morte del padre di Agostino detta, da subito, nell’incipit: “Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra”. Concludendolo con quella di Emilio, “ucciso” dalla tubercolosi contratta in seminario: “…e a me il nostro parroco disse da parte che purtroppo non c’era più forza al mondo che poteva salvarlo”, racconta Agostino. E venendo evocata dallo stesso Agostino quando, terminato il funerale del padre, fa ritorno alla cascina di Tobia e, preso dallo sconforto, dice: “Avevo appena sotterrato mio padre e già andavo a ripigliare in tutto e per tutto la mia vita grama, neanche la morte di mio padre valeva a cambiarmi il destino. E allora potevo tagliare a destra, arrivare a Belbo e cercarmi un gorgo profondo abbastanza”.

Tuttavia Agostino non cadrà nel terribile tranello della fascinazione della morte, rifiutandosi letteralmente ma anche simbolicamente di guardarla in faccia la morte, quando sarà proprio lui a trovare il corpo di Costantino penzolante da quell’albero a cui si era impiccato: “…non mi sono mai lasciato scappare che in faccia non l’avevo guardato, ma quando contavo la mia avventura, e me l’avranno fatta contare cento volte, nei particolari della lingua e degli occhi m’aiutavo con quello che avevo sentito dagli altri”.

In questo senso il viaggio esistenziale che percorre Agostino e che definisce la sua Bildung si incentra proprio su questo processo di “resistenza” alle traversie, alle amarezze, al dolore, ma anche di “resistenza” alle tentazioni autodistruttive così come a quelle volte a cercare illusori eden nella “ricchezza”. E ciò mantenendo vivo dentro di sé un senso etico, morale ed affettivo basato su un rapporto non corrotto con il mondo e le cose, in altre parole acquisendo una coscienza in relazione al mondo e alle cose. Se infatti “la malora” non è eliminabile dal mondo, pensare di contrapporvisi stando all’interno di una logica tutta incentrata sul possesso destina alla sconfitta e all’infelicità.

Come avviene per Tobia Rabino che incarna l’attaccamento alla “roba” di cui è succube diventando, paradossalmente, servo di se stesso in quanto abbrutito dal suo stesso lavorare. O, come era avvenuto per il padre di Agostino che si era dato vanamente ai commerci, abbandonando la terra e tradendo le proprie radici contadine, attratto dall’idea di un maggiore benessere e determinando, invece, la caduta nella miseria della sua famiglia. La cui subdola morte assume, da questo punto di vista, il sapore di una sorta di tragica punizione.

Agostino pur vivendo le avversità del mondo, pur constatandone la sua violenza e la sua corruzione e quindi pur perdendo la sua innocenza riesce a mantenersi antieroicamente non compromesso, salvandosi in quanto capace di salvare la sua integrità e a farsene forte. Cosa che non avverrà per Emilio, ad Agostino per molti aspetti simile, ma vittima innocente proprio perché costretto a rimanere in quella dimensione di innocenza che è il suo imprinting: “…i miei, quando avevano qualcosa da chiedere al cielo, era lui che facevano pregare, perché era il più innocente”, racconta Agostino. Ma estraniato come egli è dal mondo ed impossibilitato a confrontarsi e a contaminarsi con esso, la sua innocenza diventerà la sua condanna e la sua debolezza che lo condurrà a quel suo fatale destino.

Quando Agostino riceverà la notizia che può fare ritorno a casa e alla terra – liberata dalla presenza di Stefano che, come fratello maggiore, ne aveva avuto fin lì diritto, andato a lavorare come garzone, attratto, come il padre, dalla “mira” di una vita più comoda: …”Stefano non aspettava altro che lasciare la terra che tanto era diventata troppo bassa per la sua schiena” – egli si sentirà baciato finalmente dalla merce rara della fortuna: “…la ruota diede un giro e io ebbi un colpo di fortuna, il primo in vent’anni che ero al mondo”.

Può quindi lasciare il suo lavoro di “servente” e compiere il suo “nostos” il suo viaggio di ritorno: “Arrivato a veder San Benedetto, posai il mio fagotto in mezzo alla strada e feci giuramento di non lamentarmi mai anche se dovevo restarci fino a morto e sotterrato e viverci sempre solo a pane e cipolle purché senza più un padrone. E poi scesi incontro a mia madre, che anche per lei quello era il primo giorno bello dopo chissà quanto”. Agostino si ricongiunge alla terra, alla casa, agli affetti, ridando senso e valore alle sue radici in nome della sua “liberazione” e facendosi forte delle rinunce a cui potrebbe andare incontro.

C’è in Agostino un’istanza etica nell’accettazione della rinuncia che si inscrive nell’atto della fecondazione della terra o, se si vuole, della rifecondazione della sua terra che ha un valore di rinascita e di riscatto della propria condizione e che, al tempo stesso, non ha nulla a che vedere con il possesso: “Pure la terra era tutta da ripassare, si vedeva da lontano un miglio che Stefano non ci aveva dato dentro. Ma adesso le avrei fatto sentire la vanga, bastava che tirassi per mio conto come avevo tirato sotto Tobia”, dice Agostino pensando al lavoro che lo attende.

Perché la fatica di quel lavoro trova significato in se stessa e la sua accettazione e riappropriazione è l’unica possibile reale alternativa al male e quindi alla “malora”. Ma ciò non esclude e non elimina quel male che è nel mondo e del mondo e la preghiera di sua madre con cui si chiude “La malora” invoca una protezione che non ha nulla di trascendente ma che, nella sua profonda carica umana e poetica, ha il senso di una preghiera laica che esprime una commozione e una speranza tutte terrene, contro il cieco arbitrio del destino: “Non chiamarmi prima che abbia chiuso gli occhi a mio povero figlio Emilio. Poi dopo son contenta che mi chiami, se sei contento tu. E allora tieni conto di cosa ho fatto per amore e usami indulgenza per cosa ho fatto per forza. E tutti noi che siamo lassù teniamo la mano sulla testa d’ Agostino, che è buono e s’è sacrificato per la famiglia e sarà solo al mondo”.

9 risposte a "“La malora” – Beppe Fenoglio"

  1. giacinta 2 giugno 2017 / 0:04

    Bellissima recensione!
    L’impressione che la scrittura di Fenoglio sia guidata dal bisogno di autenticità è fortissima, infatti.E’ un’impressione che si ha anche leggendo Pavese, ma Fenoglio scolpisce, Pavese disegna, dipinge…
    🙂

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  2. ilcollezionistadiletture 2 giugno 2017 / 6:51

    Grazie Giacinta per il tuo, sempre graditissimo, apprezzamento.
    Molto bella questa tua lettura tra pittura, in Pavese, e scultura, in Fenoglio.
    E’ proprio così ed è così, in modo particolare, per Fenoglio.
    Infatti, quando nella recensione parlo di densità materica in Fenoglio, avevo in mente Burri e le sue crete.
    Si, Fenoglio è proprio uno scultore della “materia”, sia essa quella umana che quella della terra e delle cose.
    Grazie di nuovo.
    Ciao
    Raffaele

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  3. viducoli 3 giugno 2017 / 9:52

    Ciao R.
    Non ho mai letto Fenoglio (tranne forse qualche brano al liceo) ma recentemente ho avuto a che fare un autore che qualche decennio prima aveva ambientato nella campagna senese le proprie storie: Federigo Tozzi. Pur essendo autori – mi par di capire dalla tua splendida recensione – molto diversi, sarebbe forse interessante (e si potrebbe assegnare questo compito a Dragoval e ai suoi Asterismi) indagare come l’ambientazione “contadina” permetta di confrontarsi con i caratteri più arcaici dei rapporti umani e sociali, con un mondo in cui la violenza (si pensi al rapporto con gli animali) è parte stessa della vita quotidiana. In questo senso sarebbe in particolare interessante un’analisi comparata di questo libro di Fenoglio e de Il podere di Tozzi.
    A presto
    V.

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  4. ilcollezionistadiletture 3 giugno 2017 / 10:28

    Ciao V.

    grazie prima di tutto per il tuo generoso e graditissimo apprezzamento.
    Purtroppo io, a mia volta, non ho mai letto Tozzi per cui non sono in grado da fare confronti con Fenoglio, né in generale, né in relazione alle relative ambientazioni che essi danno del mondo contadino.
    Comunque mi sembra un’ipotesi interessante la tua, anche perché si sono fatti collegamenti tra “La malora” e “Mastro don Gesualdo”, e quindi in relazione a Verga, ed anche in relazione al mondo contadino meridionale così come narrato da Jovine, sebbene, secondo me, questi collegamenti, con lo “spirito” di Fenoglio sono molto relativi. Con Tozzi non so se ce ne sono stati.
    Prima o poi leggilo Fenoglio perché merita davvero, sicuramente uno dei nostri più grandi scrittori del ‘900. Sia questo Fenoglio de “La malora”, che quello di “Una questione privata” che sono quelli che ho letto, mi hanno davvero fatto una grande impressione.
    Un carissimo saluto e a presto
    R.

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      • viducoli 3 giugno 2017 / 11:20

        Il fatto che entrambi gli autori, mi par di capire, non sono interessato ad un approccio verista, ma utilizzano i caratteri della società contadina per esplorare gli abissi della coscienza umana.

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  5. ilcollezionistadiletture 3 giugno 2017 / 14:24

    Si, per quanto riguarda Fenoglio è proprio così il “verismo” in lui c’è solo indirettamente, per quanto riguarda il tema della “roba” ma, come hai giustamente colto, il suo è un approccio squisitamente esistenziale, non c’è nulla di “realistico” in senso proprio.Tanto che Anna Banti, a proposito de “La malora” ha scritto: “…su quei campi ingrati si affatica una plebe…più disperata dei braccianti e dei pescatori ottocenteschi di Verga…” E, in effetti, per quel poco che ne so di Tozzi, mi sembra sia così anche per lui.

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  6. Mazzieri Michele 2 marzo 2024 / 19:05

    Appena finito di leggerlo. Adesso vorrei sapere come appaiono le donne negli altri scritti di Fenoglio. Nella Malora ce ne sono quattro e sono gli unici personaggi positivi, gli uomini sono quasi tutti egoisti e schiavi della roba. Fa eccezione Emilio, che, come Patroclo che è l’unico personaggio dell’Iliade con un carattere gentile, trovo abbia un che di femminile

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    • ilcollezionistadiletture 3 marzo 2024 / 10:11

      Si, in quel mondo, basato sulla durezza e sulla violenza, e sulla sottomissione al più forte le donne subiscono inesorabilmente quella situazione. Ma, in generale in Fenoglio sono i più deboli (uomini o donne a seconda dei casi) a subire e a perire, quelli cioè che non ce la fanno di fronte alle prepotenze del mondo e questo lo si vede bene nei racconti raccolti in “Un giorno di fuoco”.

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