“Amras” – Thomas Bernhard

“…tutt’a un tratto la nostra esistenza non poteva contare su null’altro che sui nostri caratteri terribili, feriti da sempre, sospettosi e poco tenaci, in una tenebra che congiurava sempre più contro di noi, perturbando persino le nostre capacità di camminare, di sederci, di coricarci o stare in piedi, e – com’è naturale – la nostra capacità di pensare e di esprimerci, e quella di ragionare in generale, nella tenebra di quella torre…”

In “quella torre” due fratelli, “non ancora ventenni”, Walter e K., sopravvissuti per sbaglio al loro suicidio vivono rinchiusi e nascosti. Ciò per sfuggire alle conseguenze che avrebbe avuto per loro l’aver compiuto quel gesto e cioè le maldicenze pubbliche e, ancor più, “per prevenire le autorità sanitarie” che avrebbero proceduto ad internarli in manicomio così come prescrivono le “barbare norme sanitarie tirolesi” nei casi di tentato suicidio.

A quel suicidio hanno preso parte anche i loro genitori i quali, però, a differenza di Walter e K. non sono sopravvissuti e così, portati lì in tutta fretta da un loro zio, essi si sono rifugiati nella torre, situata in quel di Amras, restandovi per due mesi e mezzo: “Dopo il suicidio dei nostri genitori siamo stati rinchiusi per due mesi e mezzo nella torre” dice K., che è l’io narrante, nell’incipit. “Amras” è, pertanto, il resoconto, fatto da K., della permanenza sua e di suo fratello e della loro convivenza all’interno della torre, a partire dalla vicenda del loro tentato suicidio, ripercorrendo le circostanze che lo hanno determinato nonché la storia della loro famiglia, fino alle conseguenze ultime che la permanenza nella torre avrà per Walter e avrà per K.

Come si evince dal passo sopra riportato, la condizione in cui si trovano i due fratelli, all’interno della torre, è contrassegnata dall’essere nella “tenebra”, ne appaiono infatti prigionieri: “…una tenebra congiurava sempre più contro di noi ..”, ed avvolti: “…nella tenebra di quella torre…”. La torre si rivela infatti un luogo ispirato e dominato dalle tenebre, sia in quanto ambiente, sia per le sensazioni che trasmette e determina, tali da rendere la vita dei due fratelli priva di qualsiasi conforto: “Nella torre, come io so, arredata da nostro zio secondo la sua predilezione per le tenebre, e resa da lui sempre più cupa nel corso degli anni….la nostra vita non era altro che un’unica notte senza sonno…né l’arte né le scienze d’un tratto rappresentarono più un mezzo…per distrarci, meno che mai per liberarci da noi stessi, dalle nostre crisi spaventose,…a ogni libro che aprivo, era come scoperchiare una bara…” dice K.

Da luogo prescelto a scopo protettivo e salvifico la torre si trasforma quindi ben presto per Walter e K. in un luogo da incubo. In cui la loro condizione, già di per sé traumatica e drammatica, viene ulteriormente aggravata e peggiorata dal trovarsi in “quella torre”. Siamo qui di fronte ad uno dei più classici topos bernhardiani quello definito e sintetizzato da Luigi Reitani con “Abitare le tenebre” (L. Reitani – “Abitare le tenebre” – in “Thomas Bernhard. Una commedia una tragedia” – numero monografico di “Aut Aut” (325/2005) pp. 37-49). Laddove, con la consueta ricorsività tipica di Bernhard, ricorre nella sua opera lo schema per cui “…una casa che risponda a un bisogno assoluto di riservatezza e isolamento si trasforma inevitabilmente in un carcere, in un luogo di segregazione che rischia di minacciare la vita stessa di chi vi ha scelto di abitare.” (L. Reitani, cit. pp. 37, 38).

Sebbene la torre non sia stata scelta deliberatamente da Walter e K, e sebbene in essa il clima di tenebra preesista al loro ingresso le caratteristiche e le conseguenze sono simili a quelle in cui altri personaggi, in altri libri di Bernhard, scelgono di “rinchiudersi”. Ma la separazione dal mondo che ne deriva: “…nella torre ci eravamo trovati si può dire come fuori dal mondo” dice K. e l’oscurità sia fisica che metafisica delle tenebre, simbolizzata nella torre dalla sua cupezza, sono in realtà, in Bernhard, quelle condizioni estreme che impedendo di “distrarsi” da se stessi inducono quell’assoluta concentrazione che porta a penetrare le cose nella loro essenza. Come, a tal proposito, evidenzia Reitani richiamando testualmente Bernhard: “”Nelle tenebre” osserva Bernhard nel suo manifesto poetico Tre Giorni “tutto diventa chiaro”” e quindi, prosegue Reitani, “…l’oscurità annulla le distrazioni e favorisce la concentrazione necessaria per attingere al vero” e pur tuttavia quella “…condizione di alterità si rivela distruttiva per l’individuo…” (L. Reitani, cit. pp. 38,39,40).

La vita dei due fratelli in “quella torre” è perciò contrassegnata dalla più cupa disperazione: “Tutto in noi naufragava in prospettive di morte” dice K., eppure in quell’ottenebramento prende corpo la struttura di un processo di elaborazione: “Di continuo e da sempre eravamo stati abituati a osservare ogni cosa che fallisce, ma qui nella torre, perturbati,…tutt’ a un tratto percepimmo la saggezza della putrefazione…Senza null’altro che noi stessi per distrarci da noi stessi, noi, ad Amras, ci scoprivamo nel nostro rapporto di fratelli,…sempre a riproporci la domanda: perché siamo costretti a vivere ancora?”

A partire quindi dal legame che li unisce in quanto fratelli e in cui si afferma la comunanza della loro natura, si attiva, un processo che, dall’essere un iniziale processo di elaborazione del lutto: “…colmavamo di lutto la nostra torre”, dice K., si fa, ben presto, un vero e proprio processo di elaborazione della catastrofe dell’intera famiglia, come osserva Reitani quando afferma: “Per i due fratelli la torre – e le tenebre che essa offre – sono una forma di vita, l’unica possibile dopo la catastrofe. La torre è però anche” – egli prosegue – “una parte del passato familiare, un luogo carico di ricordi e di storia” (L. Reitani cit. p.43). Infatti la torre è ai due fratelli familiare in quanto, dice K. “…sino a qualche anno fa apparteneva ancora a nostro padre”. Pertanto la torre è essa stessa luogo che induce evocazioni e rimanda alle proprie “origini”, portando, come fa fare Bernhard a K., a ripercorrere la parabola esistenziale della propria famiglia fino ai suoi esiti tragici e catastrofici che ne sanciscono il fallimento.

“Amras” è quindi un testo che si fonda sul ricordo e la ricostruzione e, in questo suo essere ricordo e ricostruzione, “Amras” contiene un altro canone bernhardiano fondamentale, quello descritto da Reitani, quando afferma: “… nei personaggi di Bernhard… La loro vera casa è nel ricordo, nella rimembranza estetica… il racconto ricostruisce, ridona maestà e valore ai progetti naufragati, onora le vittime di ogni violenza, ridà senso a ciò che appariva insensato. Non per ultimo gli scritti di Bernhard sono un omaggio ai soccombenti, a chi ha fallito… L’arte di Bernhard rimane un’arte postuma che si realizza quando l’inevitabile catastrofe si è già compiuta. La sua forza non sta nel costruire – e nemmeno nel distruggere – ma nel ricostruire incessantemente nel ricordo la vita, esposta ai dolorosi colpi della natura e della storia”. ( L. Reitani cit. p.49).

Ed è proprio questo quello che la ricostruzione che viene fatta in “Amras” porta alla luce: l’effetto che “i colpi della natura e della storia” assestano alla famiglia di Walter e K., conducendola prima alla decadenza e poi all’annientamento. In “Amras” la storia della famiglia di Walter e K. nell’essere segnata e contrassegnata dal suo declino assume i tratti di un epos della scomparsa, di un’implosione non solo privata ma come se essa fosse una sorta di ultimo testimone di una civiltà destinata alla rovina e, come tale, simbolo di una storia che, nel suo flusso, disperde e distrugge ciò che non ha la forza per resistervi. Il disastro economico che ne è la materializzazione: “…nostro padre era l’uomo più indebitato di tutta la valle dell’Inn…”, dice K., è il punto terminale di una progressiva dissoluzione dei beni che fa piombare da una condizione signorile ed elevata alla più totale prostrazione sia materiale che esistenziale.

Ma se a dilapidare quel patrimonio è stato il padre : “…negli ultimi dieci anni nostro padre si era giocato e bevuto i soldi nelle belle città italiane…” la causa della “crisi” affonda nella “natura” della famiglia di Walter e K.: “La vita di tutti noi era diventata intollerabile a causa della malattia mortale della mamma e di Walter, ma bisogna conoscere le conseguenze di simili malattie…non più curabili…gli affari di nostro padre che per questo andavano in rovina…” E questa oscura malattia mortale che domina la mamma e Walter e, a partire da loro, l’intera famiglia, è definita da K. come “Epilessia tirolese”.

Una malattia che fa della storia della famiglia di K. la storia di una famiglia patologica, soggetta al predominio di una natura tirannica a cui non si può non ubbidire: “Eravamo stati costretti a passare tutta la vita legati ai nostri genitori come a due pilastri, nel terrore della “Epilessia tirolese” che ci pareva sempre più spaventosa,…questa malattia, sin da un tempo non più precisabile, ci aveva rovinati tutti quanti, questa forma di epilessia nota solo in Tirolo…Nostra madre ne era stata colpita all’improvviso…poco prima della nascita di Walter…Walter nella sua esasperata paura infantile, ben presto ne era stato perturbato e distrutto a poco a poco…mentre io – un bambino funestamente impavido – non ne ero stato neppure lievemente sfiorato”.

Un male quindi che si manifesta con implacabile violenza la cui natura appare subdola e incontrollabile, un male incurabile e in quanto tale onnipotente, imprevedibile e quindi inatteso, misterioso nel suo colpire a piacimento. Siamo in altre parole di fronte alla frase di Novalis che Bernhard riporta in epigrafe: “La natura della malattia è oscura quanto la natura della vita”. Che afferma che non solo è la malattia ad essere inconoscibile, ma lo è anche l’esistenza e ciò perché ad essere oscura è la natura della natura e quindi come ad essa non si può sfuggire, tanto meno si può sfuggire alla propria natura.

Quella malattia che contagia esistenzialmente tutta la famiglia è quindi la causa di quel suicidio collettivo così come racconta K.: “…tutto il pomeriggio del giorno tre, rivelatosi improvvisamente così propizio a tutti noi, ormai aspettavamo soltanto che – quasi per esaudirci – calassero rapide le tenebre, perché fosse finita, perché insieme alla luce del giorno anche noi, genitori e figli, potessimo semplicemente scomparire nel sonno, in fretta, senza fatica, spegnerci, non esserci più…” Ma questa procedura liberatoria, per quanto riguarda Walter e K., fallirà. Essi subiranno quindi un doppio scacco e cioè il fallimento dalla fuoriuscita dal fallimento familiare.

Ma subendo lo scacco delle proprie origini Walter e K. incarnano un altro punto fondamentale e ricorrente nell’opera di Bernhard cioè quello dell’impossibilità di sfuggire a se stessi. Di sfuggire cioè alle proprie origini, come peraltro Bernhard stesso testimonia su se stesso nella sua “Autobiografia” (T. Bernhard – “Autobiografia” – Adelphi – 2011), dalla quale si trae l’evidenza che tutta l’opera di Bernhard nasce dalle sue origini e da esse attinge. In “Amras” ciò si evidenzia sia in relazione alle proprie radici da cui il grottesco attributo di “tirolese” dato all’epilessia che colpisce Walter e sua madre, che appare come una sorta di condanna collegata al luogo natio, sia in relazione ai propri caratteri da cui quel “…la nostra esistenza non poteva contare su null’altro che sui nostri caratteri terribili, feriti da sempre…” riportato nel passo che ho posto in apertura, in cui vi è l’apparire di una lacerazione insita in Walter e K. connessa a una ferita originaria.

In altre parole Bernhard nel mettere a nudo le “origini” della malattia, mette a nudo l’impossibilità di disfarsi delle proprie origini così come peraltro accade fino alla fine in “Amras”. Walter, non potendo sfuggire a quella malattia mortale darà tragicamente seguito ad essa gettandosi dalla torre e, coerentemente con quanto detto in precedenza a tal proposito, il luogo che doveva dare protezione diventa un luogo mortale. Ma l’uscita dalla torre e la fine della segregazione non condurrà alla salvezza neanche K. il quale trasferito dallo zio in un’altra sua proprietà, ad Aldrans, una località alpestre e boschiva, non avrà da ciò alcun lenimento.

Gli si manifesta nell’inconscio il fantasma della morte dei genitori e del fratello come si evince dalla descrizione che egli fa di un suo sogno in cui si immagina a macellare un essere mezzo uomo e mezzo maiale, parla di malattie, di funerali, di cimiteri e di morte e, anche quel luogo si rivela di fatto inospitale: “Attraversare Aldrans di sera…non c’è anima viva…io chiamo e nessuno mi sente…per la paura converso con l’eco che produco io stesso…e così, con quella voce che mi appartiene e che nessuno ode, nulla ispira fiducia.”, dice K., portandolo, quel luogo, ad un’ulteriore accentuazione della costrizione a convivere con il proprio sé: “Ad Aldrans, il corpo estraneo più appariscente, al di fuori di me sono io”.

Né la convivenza con i boscaioli che lavorano per lo zio porta a sciogliere l’angoscia e a superare la diversità, anzi la natura dei boscaioli e la natura intorno ai boscaioli appare ancor più oscura e sfuggente, come a sancire la “chimica” malefica di quella natura che assurge a simbolo di una natura maligna, con insita una dimensione metafisica fortissima: “Figli della roccia e delle gole, della pornografia della natura, siamo sempre vissuti soltanto nella chimica delle Alpi tirolesi, piena di presagi, ossessionata dalle profezie,…Sin da bambini vivevamo già nel terrore costante delle apoplessie, nell’orribile angoscia dei terremoti, nella paura che crollassero le case, nella paura della rabbia,…”, dice K.

E, alla fine, la stessa epilessia, quella “malattia mortale”, sembra essere conseguenza di una vera e propria ipersensibilità che, inesorabile, ha scavato dentro tutta la famiglia contagiando anche chi come K. non aveva quella “malattia mortale”, la quale diventa quindi la manifestazione di una condizione che è comunque comune e connaturata: “La verità è che noi, per tutta la vita, abbiamo sempre soltanto avuto paura, i nostri genitori avevano sviluppato in noi una paura smisurata…questa paura, col passare del tempo, con la malattia mortale della mamma, con la malattia mortale di Walter, aveva scavato sempre più a fondo dentro di noi e poi s’era estesa a regioni sempre nuove – soprattutto nel caso di Walter, ma anche in me, nella mia esistenza derivata dalla sua – delle nostre nature corporee, delle nostre nature psichiche, delle nostre nature spirituali così diverse…ma anche i nostri genitori erano i prodotti della terribile ossidazione tirolese, spaurite viscere della valle superiore dell’ Inn…”

Nella sua ultima lettera indirizzata allo zio K. annuncia di essersene andato: “Caro zio, da otto settimane me ne sono andato da Aldrans e anche dal Tirolo”. Un accenno alle “condizioni infamanti” dei “nostri manicomi” fa pensare ad un internamento. Anche se il testamento esistenziale di K. è di non darsi per vinto, di cercare ancora in se stesso. Dice infatti nelle ultime righe: “…fare il tentativo di spiegare la mia inadeguatezza. Non voglio rinunciare ai miei studi, ma in futuro li proseguirò solo in me stesso…”.

“Amras” nella sua dolorosità contiene un afflato affettivo fortissimo in cui la condivisione e la comprensione della comune condizione di fragilità è sempre presente. K. in quel suo essere il superstite: “…di tutti loro io sono il superstite”, si fa testimone di una sofferenza che non è solo sua ma di cui si fa interprete e portatore anche in nome e a nome degli altri. Non vi è mai nelle sue parole alcuna recriminazione nei confronti della sua famiglia né tanto meno di Walter da lui amorevolmente definito più volte: “…il mio Walter…”.

Vi è invece in “Amras” un lucido smarrimento nella consapevolezza di una verità inconoscibile, di una totalità inesistente, essendo possibile descriverne solo pezzi, frammenti, come nella prosa adottata qui da Bernhard. Una prosa scissa, frammentata, disorganica, priva di precise sequenze logico-temporali, fatta di materiali eterogenei: lettere, appunti, citazioni, segmenti di frasi. Una prosa al servizio di una poetica che si basa essa stessa sull’idea che il mondo e l’esistenza sono a loro volta essi stessi nient’altro che frammenti: “La consapevolezza che tu non sei che frammenti, che i periodi lunghi o brevi e anche quelli lunghissimi non sono che frammenti…che la durata delle città e dei paesi non è altro che frammenti…anche la terra un frammento…che tutta l’evoluzione è un frammento…che l’interezza non esiste…che i frammenti si sono sempre formati e continuano a formarsi…che la fine è priva di consapevolezza…che, dopo, nulla esiste senza di te e che di conseguenza non esiste nulla…”

6 risposte a "“Amras” – Thomas Bernhard"

  1. viducoli 14 marzo 2017 / 20:45

    Ciao R.
    Naturalmente non ho letto Bernhard, per cui nel merito non posso commentare la Tua bellissima recensione. Però è uno dei pochi autori del secondo dopoguerra che ritengo, per sentito dire, mi possano interessare, ragion per cui ho nel corso del tempo acquistato parecchi suoi libri che sono lì in attesa di essere affrontati.
    Questo possibile interesse mi viene confermato da quanto scrivi di Amras, in cui ritrovo moltissime tematiche tipicamente novecentesche che mi piace scandagliare. Tra l’altro sia l’ambientazione sia alcuni aspetti del racconto che metti in evidenza mi hanno ricordato un altro dei grandi testi della letteratura austriaca: La torre di Hugo von Hoffmansthal. Sarebbe forse interessante mettere a confronto le idee del teorico della rivoluzione conservatrice con il grande fustigatore della piccola Austria tramite i loro testi maggiori.
    V.

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    • ilcollezionistadiletture 15 marzo 2017 / 7:39

      Ciao V.

      grazie per l’attenzione e l’apprezzamento.
      Bernhard è un vero e proprio “luogo letterario” in cui merita fermarsi e che merita di essere visitato, esplorandone la sua ricchezza e bellezza letteraria e la cristallina purezza del suo pensiero, non meno che la sua graffiante e sarcastica ironia.
      Un assoluto caposaldo della letteratura del ‘900 che, una volta che si è iniziato a conoscerlo, non si può più smettere di farci i conti. Penso che anche per te sarà una bella esperienza.
      Hai intuito molto bene l’esistenza di un collegamento con “La torre” di Hugo von Hoffmannsthal. Infatti Luigi Reitani nella sua postfazione all’edizione di “Amras” della SE del 2005 (vi è anche un’edizione Einaudi dell’89, ma quella della SE è più ricca di apparati, a parità di traduzione, entrambe hanno infatti la traduzione di Magda Olivetti) scrive: il “…carattere mistico della torre riceve parte della sua forza dalla tradizione letteraria che fa di questo spazio il luogo per eccellenza di un sublime isolamento, e certo Bernhard non ignorava la rielaborazione che Hofmannsthal, nel dramma intitolato appunto “La torre”, aveva dato della “Vita è sogno” di Calderon, dove al mondo della realtà e della politica si contrappone il mondo onirico e metafisico della torre in cui è prigioniero il re di Polonia”.
      Peraltro proprio “Amras” potrebbe essere un buon punto di partenza per approcciare Bernhard sia perché è una delle sue primissime opere, essendo successiva solo a “Gelo” che è il primo romanzo di Bernhard uscito nel 1963, laddove “Amras” è del 1964 e poi perché, come dice Reitani sempre nella sua postfazione: “Si può dunque affermare che il testo [cioè Amras] costituisca una sorta di paradigma fondamentale di forme e motivi, che lo scrittore andrà declinando nel tempo.”
      Ciao e grazie di nuovo
      Raffaele

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  2. giacinta 15 marzo 2017 / 8:41

    Bellissimo invito alla lettura. Devo dirti che di Bernhard ho letto un solo libro molti anni fa, Perturbamento, che terminai con molta fatica perchè il senso di disorientamento, se non il vero e proprio senso di annichilimento, che trasmetteva risultava decisamente poco sostenibile.
    Il motivo della torre, della prigione che dà unità ai frammenti mi ha fatto venire in mente il Sigismondo di Calderòn ma anche una famosa affermazione di Amleto,” E’ una bella prigione, il mondo; ricca di celle, gattabuie e carceri.”
    Ti segnalo la storia di un’altra segregazione che mi è venuta in mente leggendo il tuo post

    http://giulianocinema.blogspot.it/2009/11/lenigma-di-kaspar-hauser.html

    Buona giornata!:-)

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    • ilcollezionistadiletture 15 marzo 2017 / 10:47

      Grazie molte Giacinta per le tue parole.
      Con il senso di annichilimento in Bernhard bisogna conviverci anche se, a forza di leggerlo e conoscerlo se ne coglie, dietro l’aspetto tragico che appare, quello comico che, apparentemente, non appare. Il che lo rende sopportabile. Come, peraltro, avviene anche in “Amras”.
      Il riferimento a Calderon è sicuramente indicato, ma anche il richiamo a Shakespeare, oltre che quanto mai appropriato in relazione alla citazione dell’ “Amleto” che riporti, è materialmente presente in “Amras” se pur con riferimento ad un’altra opera di Shakespeare. Bernhard infatti fa dire a Walter, riportando una sequenza di suoi appunti, un verso, in originale, di Shakespeare tratto da “Sogno di una notte di mezza estate” e cioè: “Dark night, that from the eye his function takes…”. Quindi Bernhard in “Amras” ha presente Shakespeare e non è detto che non avesse in mente anche l’ “Amleto”.
      Grazie per la bella, ricca e interessante recensione del film di Werner Herzog su “Kaspar Hauser” che mi hai segnalato; film che a suo tempo vidi e che mi piacque molto.
      Peraltro su la storia di Kspar Hauser tra i “moltissimi libri” come si dice nella recensione, ti segnalo, anche se non ce l’ho e non l’ho letto, quello di Anselm von Feuerbach “Kaspar Hauser – Un delitto esemplare” edito da Adelphi nella collana Piccola Biblioteca Adelphi che so essere “di riferimento” letterariamente parlando, ma magari ce l’hai già presente.
      Grazie di nuovo e un caro saluto
      Raffaele

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  3. dietroleparole 21 marzo 2017 / 13:30

    “Chiudersi nella torre.
    Però il remoto rumore degli uomini aveva sempre finito col raggiungerlo, s’era insinuato negli interstizi, era salito nel suo intimo. Perché il mondo non era soltanto fuori ma nel più recondito del suo cuore, nelle sue viscere, nei suoi escrementi. E prima o poi quell’universo incorruttibile aveva finito per sembrargli un triste simulacro, perché il mondo che per noi conta è questo qui: l’unico che ci ferisce col dolore e la sventura, ma anche l’unico che ci dà la pienezza dell’esistenza, questo sangue, questo fuoco, questo amore, questa attesa della morte; l’unico che ci offre un giardino nel crepuscolo, il tocco della mano che amiamo, uno sguardo destinato a marcire, ma nostro: caldo e vicino, carnale.
    Sì, forse esisteva quell’universo invulnerabile di fronte alla potenza distruttrice del tempo; ma era un gelido museo di forme pietrificate, benché perfette, forme rette e forse concepite dallo spirito puro. Ma gli esseri umani sono estranei allo spirito puro, perché caratteristica di questa sventurata razza è l’anima, quella regione lacerata fra la carne corruttibile e lo spirito puro, quella regione intermedia in cui succede ciò che è più grave nell’esistenza: l’amore e l’odio, il mito e la finzione, la speranza e il sogno. Ambigua e angosciata, l’anima soffre (come potrebbe non soffrire!) dominata dalle passioni del corpo mortale e aspirando all’eternità dello spirito, vacillando perpetuamente fra la putredine e l’immortalità, fra il diabolico e il divino. Angoscia e ambiguità dalla quale in momenti d’orrore e d’estasi crea la sua poesia, che sorge da quel confuso territorio e come conseguenza di quella stessa confusione: un Dio non scrive romanzi.”
    (Ernesto Sabato, “L’angelo dell’abisso”)

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