“Zazie nel metro'” – Raymond Queneau

“La verità! – esclama Gabriel (gesto) – Come se tu sapessi che cos’è. Come se qualcuno al mondo sapesse cos’è. Tutta questa roba (gesto), tutto questo, una bidonata, il Panteon, gli Invalidi, la caserma di Reully, il tabaccaio dell’angolo, tutto. Si, una bidonata” Queste parole pronunciate da Gabriel, lo zio di Zazie, a bordo del taxi del suo amico Charles su cui, con Zazie, sta attraversando Parigi, dopo averla presa in consegna dalla di lei madre la quale, occupata in un convegno amoroso col suo “ganzo”, gliela ha affidata, ci dicono l’essenziale “verità” contenuta in “Zazie nel metro’” e cioè che qui la verità non si sa più cos’è e dove sta.

Perché qui tutto è verità e nulla è verità, tutto è verosimile e nulla è verosimile. Umberto Eco, a margine della sua traduzione di quell’altro capolavoro di Raymond Queneau che è “Esercizi di stile”, definì Queneau “Maestro dell’ Artificio” e Franco Fortini a margine della sua esemplare traduzione di “Zazie nel metro’” ci dice, chiaro e tondo, che “…tutta “Zazie”, come quasi tutto Queneau, è sotto il segno dell’ambiguità”. Queneau è stato indiscutibilmente, nella letteratura europea del ‘900, il più grande simulatore di universi, un vero e proprio maestro nel dare voce al potere della fantasia e perciò, si può ben dire, che tutto in Queneau vive nella finzione. E non a caso dico vive perchè la realtà che in Queneau è tutta inventata e immaginata è però, al tempo stesso, concreta e materiale, fisica e corporea, umanissima e popolare, poetica e realistica. Insomma il mondo immaginario di Queneau nasce ed è pienamente immerso nel mondo reale e, soprattutto, ne emana e ne incorpora tutta la sua caotica vitalità. Ed è questa vitalità, incalzante ed esplosiva, pestifera e beffarda che ha fatto e fa di Zazie quel grande personaggio letterario che è.

“Zazie nel metro’”, pubblicato nel 1959 è, prima di tutto, come quasi tutti i romanzi di Queneau, un romanzo divertentissimo, attraversato da una vena allegramente catastrofica, pervaso da una sfrenata disinvoltura, stracolmo di sberleffi e scene esilaranti, percorso da una sequenza pressoché ininterrotta di colpi di scena, teatrali e assurdi, imprevisti e imprevedibili. A suo modo “Zazie nel metro’” lo si può leggere come una favola, ma una favola che non ha niente di fiabesco, dominata com’è da una creatività eccentrica e stralunata che la rende spassosamente demenziale. Perché Queneau infondendo, attraverso il personaggio di Zazie, uno spirito profondamente dissacratorio opera un ribaltamento dei canoni convenzionali delle favole. Se Zazie la volessimo considerare un moderno Cappuccetto Rosso ella, con la sua irriverenza e sfrontatezza è tutto l’opposto del personaggio indifeso e inerme di Perrault. Nel personaggio di Zazie sono connaturati una diversità, uno spirito ribelle, una spregiudicatezza che sono metafora stesse dell’arte e della sua funzione che è quella di superare gli schemi del già detto e del già visto e sperimentare il nuovo attraverso la rottura delle convenzioni, essendo stato, non a caso, Queneau – come ha osservato Calvino – “uno scrittore con un bisogno inesauribile di inventare e di sondare possibilità”.

E così Zazie con la sua sfacciataggine e con la sua impertinenza smonta e scardina la retorica delle cose; la sua poetica è quella di spoetizzare il mondo e di farcelo vedere nel suo nudo disincanto che gli restituisce la crudezza dell’autentico. In tal senso gli effetti comici sono dati proprio dal contrasto tra la schiettezza espressiva di Zazie e le ipocrisie, i luoghi comuni, i falsi moralismi, il non detto e il taciuto che ella, senza farsi alcun problema, irride e mette a nudo, fino al punto da apparire caustica e feroce, prepotente ed egocentrica nella sua disarmante irruenza e nel subdolo candore con cui apostrofa ed agisce. Le sue pungenti verbalizzazioni, accompagnate da quel suo tipico scurrile intercalare, e il suo insistente agire interrogativo, esprimono il superamento dell’idea artefatta dell’innocenza infantile e rivelano tutta la sua indiscreta curiosità, con cui pone in difficoltà o in aperta contraddizione i suoi interlocutori per demistificare, con le sue osservazioni, la logica adulta, ridicolizzandola.

E in un clima perennemente farsesco ruota intorno a lei un nugolo di personaggi farseschi, presi dal quotidiano e reimmessi in un quotidiano folle e spettacolare. E, spettacolo nello spettacolo, vi è la lingua che essi parlano, fatta di vere e proprie invenzioni verbali e di termini onomatopeici, con cui danno luogo a un’incontenibile sarabanda di battute, a qui pro quo gustosissimi, a deliranti non sense, ad un’ un’infinità di dialoghi crepitanti e pirotecnici. Tutto ciò conferisce a “Zazie nel metro’” un innegabile ludicità e giocosità, anche quando le vicende diventano truci e sinistre, prevalendo sempre il tourbillon frenetico nell’azione narrativa e il calembour equivoco ed allusivo nel “parlato”. Un romanzo in perenne movimento dunque che costringe anche il lettore a “correre” dietro ai personaggi e agli avvenimenti e, soprattutto, a correre dietro alle loro incerte identità, facendo Queneau mutare loro la “parte” ad essi inizialmente affidata.

E così lo zio Gabriel, un omone, ora bonario ora focoso, si scopre che è anche una Gabrielle che fa la “ballerina”, per altro con esiti brillantissimi, in un locale per omosessuali da cui il dubbio, mai sciolto, che omosessuale lo sia anche lui. Tanto che all’ossessivo pressing di Zazie su di lui, a cui ella chiede ripetutamente, con la sua solita rivelatrice indisponenza, cosa sia un “ormosessuale”, egli sfuggirà sempre. Che io “fo il mio numero vestito da donna in un naitclub di culattoni non vuol dir nulla” usa puntualizzare Gabriel e, a sostegno, precisa: “prova si è che ho moglie.” Ma si dà il caso che la candida Marceline, moglie di Gabriel, a cui Queneau appiccica come un refrain, qualsiasi cosa ella faccia o dica, quel tenero, quanto enigmatico “con dolcezza”, alla fine diventerà, misteriosamente e inopinatamente, un Marcelle. Se quindi al centro della discussione sull’interpretazione dei personaggi possiamo collocare quella sull’identità dello zio Gabriel/Gabrielle, in realtà questa discussione la si può estendere alla gran parte dei personaggi, ma anche all’identità stessa delle situazioni narrate, giacchè tutto in “Zazie nel metro’” è circondato da una nebbiosa quanto funambolica improbabilità.

Fino ad arrivare dalle parti del trasformismo vero e proprio, come nel caso del personaggio multiplo di Pedro che, con questo nome, appare per la prima volta in scena ma che poi diventa una mirabolante sequenza di personaggi rispondenti a nomi diversi e corrispondenti ad altrettante diverse identità, tanto che egli stesso a un certo punto dice: “E’ me, è me che ho perso”. E Zazie che ne fa per prima la conoscenza, incerta, in quel momento, se egli sia un satiro o un flic, arriva alla perentoria conclusione che: “Non era un satiro che si fingeva falso questurino bensì un questurino vero che si fingeva falso satiro che finge di essere vero questurino” Quindi non solo il personaggio si moltiplicherà in più personaggi ma anche quando egli è una cosa può esserne altre, riproponendosi lo schema per cui una singola identità ne può albergare altre. Ma anche le identità dei luoghi simbolo di Parigi si confondono, risultando la loro individuazione indefinita, come accade nella macchiettistica discussione tra Gabriel e il suo amico tassista Charles descritta all’inizio. E anche chi come il calzolaio Gridoux un’identità certa ce l’avrebbe tuttavia, anche nel suo caso essa si perde e si annulla, in questo caso in se stessa e cioè nell’indistinta categoria dei calzolai: “E che cosa mai può distinguere un calzolaio da un altro”, dice infatti lo stesso Gridoux.

Siamo quindi dentro un caleidoscopico caos che investe non solo i personaggi ma tutto il “reale” contenuto in “Zazie nel metro’”. Anche le vicende narrate, nel loro svolgersi e nel loro interrompersi per ripartire da tutt’ altra parte, scorrono in modo quasi anarchico, pur essendo sempre abilmente giostrate e sceneggiate da Queneau che riesce a tenere insieme il suo folle carosello pur esponendolo perennemente ai colpi della sorte. E sebbene questa precarietà si dissolva nel riso continuo essa ha in sé tutta l’impossibilità di dare una fissità alle cose, di dare loro, una volta per tutte, una definizione. Ed è alla fin fine proprio in quel “Chiaccheri, chiaccheri, non sai far altro” ripetuto a più non posso dal pappagallo Laverdure, con cui fa il verso a tutto e a tutti, che si manifesta l’impossibilità di sciogliere quell’ambiguità che investe la realtà di “Zazie nel metro’”. Solo chiacchiere appunto che rivelano le deformazioni di quella realtà che sono poi le deformazioni proprie di qualsiasi realtà. Dove le distorsioni del linguaggio inventate da Queneau esaltano le distorsioni a cui il linguaggio, ogni linguaggio è soggetto, impedendo di dire e di raggiungere quella verità sulle cose che, alla fine, è il vero oggetto degli “inseguimenti” che si svolgono in “Zazie nel metro’”.

Tanto che anche nel suo titolo “Zazie nel metro’” non ci dice la verità, in quanto Zazie in quel metro’ non ci entrerà mai a causa di quello sciopero, per lei odioso, che le impedirà di fare quella tanto agognata esperienza. Ella però con quella sua incursione nel mondo adulto, con quel suo voler sempre scoprire il significato delle parole, usando un altro linguaggio e usando un altro sguardo, fa da controcanto a quel mondo, rompendogli le balle, come direbbe lei e riempendo a suo modo di senso il non senso che la circonda. Ma anche lei si porterà addosso le conseguenze di quei due giorni passati a Parigi così. E, alla madre che se la viene a riprendere alla stazione e che gli chiede: “E allora, che cosa hai fatto?”, risponderà: “Sono invecchiata”.

2 risposte a "“Zazie nel metro'” – Raymond Queneau"

  1. viducoli 1 febbraio 2017 / 16:56

    Bellissima analisi che condivido totalmente di uni capolavoro scritto da uno dei pochi autori del secondo dopoguerra che mi interessi.
    Il mio commento, molto più dilettantesco, combacia tuttavia per olti aspetti con il tuo.

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