“Le botteghe color cannella” è un libro incontenibile, inafferrabile, indescrivibile, perché sfugge a qualsiasi possibile delimitazione, impossessamento, definizione. E’ un libro “mondo”, un libro infinito, dove ogni pagina, ogni frase, ogni parola si muta e si distacca da se stessa, si solleva e vola, si libra e si avvolge e apre universi caleidoscopici di immagini e di visioni che stordiscono e affascinano, che incantano ed emozionano.
Il raccontare di Schulz è immaginifico fino all’inverosimile, perché qui il vero si emancipa da se stesso, si libera dal suo essere realtà e si metamorfizza incessantemente in un perenne gioco di invenzioni, di creazioni ma anche di disvelamenti e di acrobatici ribaltamenti verbali. E’ una fuga dalla realtà così come essa è, così come essa appare quella che si svolge ne “Le botteghe color cannella”, per aprire ed aprirci un’altra realtà che da quella reale prende le mosse ma la trasfigura e la ridisegna per mostrarcene l’immensa irrealtà che al suo interno vive, la sua anima nascosta e pulsante, la sua potente affascinazione e la sua multipla fisionomia, il suo eterno ritornare ad un primigenio disordine cosmico dove tutto si muove incessantemente e liberamente. Schulz spezza le catene che obbligano al perseguimento del senso, sfigura la materia di cui corpi e cose sono fatte e prefigura un al di là che non ha bisogno della morte per esistere ma vive e convive con i vivi e nei vivi.
Quello di Schulz è si un ritorno all’infanzia, un rievocare l’infanzia ma la magia non è data dal raccontare l’infanzia in sé, ma dal farlo come se chi racconta fosse regredito a quello stadio, fosse tornato lì a quel tempo e in quei luoghi fosse cioè non l’adulto che racconta il bambino ma il bambino che racconta se stesso con tutta la maturità dell’adulto. “Il mio ideale è di “maturare” verso l’infanzia. Solo questo sarebbe l’autentica maturità” diceva Schulz. E qui in questo universo brulicante di apparizioni, di esplosioni visive, di visionarietà oniriche e fortemente iconografiche oscillanti fra Chagall, Brughel e Hyeronimus Bosch, fatto di creazioni fantasmagoriche di immagini che si incastrano in altre immagini, Schulz compie il miracolo di mantenere vivo il fanciullo che è in lui e nel fare questo crea il suo corrispettivo artistico e cioè la poesia.
Perché “Le botteghe color cannella” è prima di tutto e più di tutto un grandioso viaggio poetico nella poesia dell’esistenza reso in modo intrinsecamente e costantemente poetico. Dice A.M. Ripellino nella sua introduzione: “…la fanciullezza, l’immaturità, appaiono a Schulz archivio di ogni scoperta, registro di portenti, sorgiva inesauribile di poesia”. Schulz è un artista e, dire questo, nel suo caso, ha più di un significato. Lo è nel senso che lo è in quanto scrittore, ma anche in quanto pittore così come egli artisticamente nacque, salvo che in Schulz, come osserva Ripellino, “Il dono pittorico si trasfuse nella creazione verbale”. Tanto che si può ben dire che le prose di Schulz sono disegni fatti di parole, immagini fatte di metafore e iperboli verbali.
E così come il suo disegnare anche la sua prosa contiene un ritornare a un che di primitivo e di originario: “Gli inizi del mio disegnare si perdono in una foschia mitologica” egli stesso aveva detto. Ma artista Schulz lo è anche nel senso che come i veri, grandi artisti egli imprime ed esprime un segno indelebile, unico ed esclusivo e lo è infine perché nel mondo di Schulz domina una libertà espressiva assoluta, precondizione indispensabile del fare e del farsi dell’arte. Schulz infatti non pone domande e non si pone domande, ma si espande e si dilata dentro se stesso come un entomologo dell’interiorità che si avventura nelle sue stesse profondità e le porta a galla. E la parola in Schulz non svilisce mai quell’interiorità nel momento in cui la dice ma trova, al contrario, sempre il tratto per esaltarla, animarla e, infine, trasfigurarla.
Ma Schulz non è un virtuoso del disorganico, un funambolo dell’inappariscente, un avveduto cantore dell’immateriale, tutte cose in cui è per altro abilissimo e di cui ne possiede un immenso e naturale talento. La sua poetica e la sua poesia, cioè, non hanno nulla a che vedere con il manierismo ma procedono da un nucleo esistenziale reale, da un’interiorità del sentire che è vibratile e partecipe, da una sensibilità delicatissima, da una immedesimazione costante con le cose e le persone di cui parla e ciò in quanto il nucleo profondo che c’è nel mondo di Schulz e nella rappresentazione che fa Schulz del mondo è, secondo me, un nucleo squisitamente affettivo. La sua visionarietà libera cose e persone dalle loro forme e dalla loro forma e le reintegra in un universo interiore abitato affettivamente da quelle cose e da quelle persone. Uno smaterializzare che svuota il mondo dalla sua pesantezza e lo riscrive poeticamente come eternamente sospeso in un incanto affettivo. Un mondo innocente e dell’innocenza che in Schulz non è mai perduta ma sempre cercata e ritrovata come difesa e salvezza da quella perdita dell’innocenza che, in realtà, nella realtà avviene. Un mondo magico e fiabesco ma intinto in un’ ironia e in un grottesco capace di farsi inquietante e perturbante ma mai tragico e tetragono.
In Schulz non si avvertono sensi di colpa, non si vivono veri incubi, non ci sono drammi, ma improvvise epifanie ammantate di disarmante candore, misteriose palingenesi animate da imperturbabili vortici irrazionali che, così come si destano e si agitano, altrettanto si placano e si dissolvono. E tali epifanie e palingenesi sono come inserti di un altrove a cui solo i personaggi di Schulz hanno accesso, in cui solo essi penetrano per poi fuoriuscirne e riapparire, come se niente fosse, nelle loro vesti mondane. Tutto il mondo di Schulz è attraversato da fremiti metafisici, da un leggiadro spiritismo, dallo stupore e dalla sorpresa che assurgono a cifra del quotidiano, da un meraviglioso che rende possibile l’impossibile, dal trucco e dal trasformismo che spaziano nel reale e lo costringono, in barba ad esso, ad assistere agli stranianti capovolgimenti che in quel reale essi introducono.
Ne “Le botteghe color cannella” si svolge perennemente una festa dell’assurdo in stile barocco, un sospiro cosmico vi alita, un’enfasi galoppante vi imperversa e quasi conscio di quest’enfasi Schulz stesso se ne scusa con il lettore: “Chiedo scusa se descrivendo queste scene piene di enormi affollamenti e di baraonda cadrò in esagerazioni, prendendo involantariamente a modello certe vecchie incisioni nel gran libro dei disastri e delle catastrofi del genere umano. Ma esse mirano a un’unica protoimmagine e queste esagerazioni da megalomane, l’enorme pathos di quelle scene mostra che abbiamo sfondato l’eterno barile dei ricordi, una sorta di protobarile del mito, e che siamo penetrati in una notte preumana, piena di un elemento borbottante, di una gorgogliante anamnesi, e non possiamo più arrestare quel flusso crescente. Ah, notti pescose e brulicanti, popolate di stelle come pesci e luccicanti di squame, ah, banchi di fauci infaticabilmente trangugianti a piccole boccate, a sorsate fameliche tutti i rivoli gonfi, non bevuti di quelle notti nere e diluvianti! In quali nasse fatali, in quali miserevoli reti attiravano quelle oscure generazioni mille volte moltiplicate?”
Ne “Le botteghe color cannella” materia e poesia, apparente ossimoro, convivono per le possibilità di manipolazione e di evocazione che entrambe assumono e, in questo senso, Schulz è un grande plasmatore di tutte e due: “la sua fede nella docilità della materia collima con la fede nella poesia” afferma Ripellino, con riferimento al personaggio di Jakub, il padre di Schulz, figura emblematica e ricorrente nei diversi racconti, di fatto interprete e prim’ attore del mondo di Schulz. E sempre Ripellino sottolinea “la propensione di Schulz per la “fermentazione fantastica della materia” e, inoltre, di come Jakub “si crucci per la sofferenza della materia, “materia oppressa” contro la quale si compie una spaventosa illegalità, inchiodandola in un’eterna immutabile attitudine”. E così ne “Le botteghe color cannella” impera un che di circense, un che di carnevalesco, un che di giocolieresco, un sommovimento continuo delle cose: “Gli oggetti non hanno pace” osserva Ripellino, sottolineando altresi’ come “ nulla [vi] è di definitivo, nemmeno la morte…Schulz manipola il tempo, spostando e imbrigliando gli avvenimenti a capriccio, sovrapponendoli con aberrazioni e sfasature, che danno luogo a informi buffonate”.
E in questo mistero buffo che sono “Le botteghe color cannella”, il metamorfismo di Jakub, il padre, è la più evidente e palese dimostrazione di questa mutazione incessante che le cose e gli uomini hanno. Jakub viene fatto diventare uccello, mosca, gambero e infine scarafaggio e ciò naturalmente richiama alla memoria il Gregor Samsa de “La metamorfosi” di Kafka. Accostamento fatto spesso quello tra Kafka e Schulz ma in realtà quanto mai improprio. Ed è proprio nelle due metamorfosi quella di Samsa e quella di Jakub che si coglie in pieno la distanza tra i due. Se la figura del padre di Samsa è persecutoria e assassina, evidente metafora di quell’ Hermann Kafka, padre di Franz, di cui egli fu vittima, al punto da rivolgergli la famosa “Lettera” che illumina e spiega quanto quel padre fu letale per Franz, al contrario Jakub Schulz, il padre di Bruno, riceve ne “Le botteghe color cannella” una sorta di lirica ovazione dal figlio che ne descrive l’irreale ed eterea esistenza di padre “fantastico” tanto che come osserva Ripellino “…il meraviglioso in casa Schulz è una tal consuetudine, che persino le trasformazioni di Jakub in artròpodo o dittero sembrano fatti ordinari”.
Se “La metamorfosi” di Kafka è la testimonianza di un incubo, di un’angoscia soffocante da cui solo la morte libera, “Le botteghe color cannella” di Schulz sono un’ affettuosissima e partecipata condivisione da parte del figlio delle mattane del padre, quasi ad invertirsi i ruoli tra padre e figlio con il padre più matto del figlio, insomma “…l’antitesi” – come puntualizza Ripellino – “del corpulento, caparbio, dispotico capofamiglia, che Franz Kafka dipinge nella “Lettera al padre” [e] a differenza del padre Kafkiano, che sprizza salute, quello di Schulz era gracile e sempre malato come il figlio, e i malati vanno d’accordo”.
Ma, oltre a ciò, sono i toni e gli stili profondamente diversi. Tanto gelidamente claustrofobici quelli di Kafka, quanto rigogliosamente aggettivati e arabescati, carnosi e al tempo stesso lirici quelli di Schulz il quale, sicuramente, come Kafka, era ben consapevole della violenza del mondo – peraltro di Kafka ne fu traduttore e quindi ben lo conosceva – ma, a differenza di questi, è in quel suo continuo sollevarsi sul mondo che egli trova sollievo e rifugio, è con quella sua inesausta poesia che dà vita alle cose e scopre la vita che anima il mondo. Ed in quella miriade che il suo linguaggio crea e in cui ci perdiamo e ci abbandoniamo leggendolo, Schulz sovverte il mondo e ce lo regala così come vorremmo che fosse.
Magnifica recensione. Bruno Schulz, che ho scoperto per caso appena uscito nell’edizione curata da Cataluccio, è il mio scrittore-guida.
Mi ha incuriosito sempre la coincidenza SCHULZ KAFKA nella metamorfosi in blatta/gambero. Queste pagine toccano anche il confronto tra i due Grandi con acume e sensibilità. Grazie
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Grazie molte per il gentilissimo apprezzamento. Schulz al pari di Kafka è un grandissimo e Cataluccio è un suo degno interprete. E complimenti, da parte mia, per la condivisione di letture così belle e preziose.
Raffaele
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