“Sotto i tigli” è una raccolta di sei racconti scritti da Christa Wolf tra il 1960 e il 1972, nei quali la Wolf anticipa e sperimenta temi e soluzioni narrative che, in quegli stessi anni e negli anni successivi, affronterà e svilupperà più compiutamente nei suoi romanzi.
Ma al di là del valore per così dire “introduttivo” che questi racconti rivestono rispetto alle sue opere più famose e mature essi, in realtà, contengono già tutta una serie di sensibilità e di punti di vista propri di questa scrittrice che ne rivelano i nuclei della sua poetica. Il primo e più evidente aspetto, presente in tutti questi racconti, è una lettura della realtà e del mondo volta a sovvertire le consuetudini, le regole, i meccanismi, e protesa a svelare le cose non dette e quelle rimosse, dando per contro espressione agli aspetti profondi delle cose, alle verità scomode, alle esigenze più interiori e personali.
Si sente che da parte della Wolf vi è una tensione e una ricerca verso una messa in discussione della razionalità in tutte le sue forme: da quella del pensiero a quella nella vita sociale, da quella presente nella Storia a quella fra le persone e i sessi, essendo questa razionalità un guscio o, meglio ancora, quel guscio che blocca l’esistenza e le esistenze. Mentre emerge per contrasto il tema di una domanda di libertà intesa prima di tutto in senso soggettivo ed esistenziale oltre che in senso creativo e intellettuale. E’, come dice Anita Raja nella sua postfazione, una “operazione di disvelamento che procede di pari passo con la <<ricerca di sè>>”.
Tuttavia, come aggiunge la Raja, “Non si tratta nè di introspezione né di propensione intimistica: l’io della Wolf si costruisce sempre attraverso il contatto col quotidiano; esso esiste in quanto fatto dei tempi e degli spazi della vita sociale, della comune esperienza di tutti i giorni”. Infatti sia nei racconti in cui avviene in modo esplicito, sia in quelli dove la Wolf fa ricorso alla “finzione”, l’espressione letteraria si fa tramite delle esperienze individuali e pone al suo centro il tema delle sensibilità personali sia dirette dell’autrice sia dei personaggi che ella crea o di cui racconta.
Ma è evidente a più riprese come la materia narrativa di questi racconti si nutra in modo diretto o indiretto di quella biografica essendo per la Wolf il senso stesso della scrittura e dello scrivere inscindibile da un confronto continuo con la vita, come ebbe ella stessa a dire in un suo saggio del ’73 dal titolo già di per sé significativo: “Autenticità soggettiva” in cui dichiarava: “Più utile mi sembra considerare la scrittura non dai suoi risultati finali, ma come un evento che accompagni incessantemente la vita, concorra a determinarla e cerchi di interpretarla; come una più intensa possibilità di stare in questo mondo, in quanto potenziamento e concentrazione del pensiero, della parola, dell’azione”.
E così già nel primo racconto la Wolf “rivede” il momento in cui adolescente visse “la Liberazione, l’ora della liberazione” dalla guerra e dalla catastrofe del Nazismo, ponendola, quel momento, di fronte a un “Mutamento di prospettiva” che è, non a caso, anche il titolo del racconto. E nel ricostruire e descrivere le peregrinazioni di lei e della sua famiglia, sfollati e in fuga, appaiono come fantasmi, lungo la strada, tutti gli orrori sottaciuti o non detti che non si potevano più non vedere: “io vedevo tutti noi…come se qualcuno mi avesse tirato fuori dal mio involucro e mi avesse posto lì vicino con l’ordine: guarda! Lo feci, ma non mi divertì” scrive la Wolf in una delle prime pagine del racconto. Laddove la fatica di vedere il vero e di accettarlo di quell’adolescente rivela, in quel raccontare tutto in prima persona e tutto privato, il conflitto umano e storico con chi fu partecipe di quegli eventi o fece finta di non vederli e, più in generale, l’implicita evocazione di quell’enorme processo di rimozione, durante e soprattutto dopo la guerra, messo in atto dal popolo tedesco. E il rifiuto stesso di quella liberazione: “Non avevo voglia di liberazione” e quell’ ”ebbi finalmente motivo di girarmi un poco di lato e piangere” con cui si conclude il racconto, danno tutto il senso di quella dolorosa e solitaria scoperta che di liberatorio aveva assai poco.
Ma il contrappunto tra storico e biografico di questo racconto contiene un altro tema caro alla Wolf che trova nei due racconti successivi: “Marted’ 27 settembre” e “Pomeriggio di giugno” uno sviluppo esplicito. E cioè quello del tempo che si accumula diventando passato e che, come tale, si perde e si disperde destinato ad un oblio inesorabile. Da qui l’esigenza non solo di raccontare il passato e la memoria ma di raccontare il quotidiano, di fissarlo, di dare valore all’esperienza anche nelle sue forme minimali, di non svalutare e “dimenticare” la densità di quel quotidiano e degli avvenimenti che vi accadono. “D’altra parte: fissare tutto è irrealizzabile: bisognerebbe smettere di vivere” si dice ella stessa in “Martedì 27 settembre”.
Pur tuttavia a quell’oblio che inghiotte le cose la Wolf porrà a suo modo un argine, non solo raccontando quel “27 settembre” [1960] che è il 27 settembre di quell’anno qui raccontato, ma lo farà per quarant’anni, tutti i 27 settembre di ogni anno da quello del 1960 fino a quello del 2000, raccogliendo poi il diario di quelle giornate in un’opera a sé dal titolo “Un giorno all’anno”, uscita nel 2003 il cui incipit: “Come accade la vita?” è già esso stesso evocativo di quel fluire della vita con cui la Wolf vuole confrontarsi. Ma quella della Wolf non è una cronaca, un puro e semplice resoconto dei fatti di quella giornata, ma è uno scorrere tra il vissuto , il provato e il pensato.
Nel racconto di questo suo “primo” 27 settembre la Wolf osserva e descrive gli accadimenti della vita privata e di quella familiare a confronto con quelli della vita pubblica, in una pluralità di ruoli e di appartenenze. Rincorre i ricordi della propria infanzia vedendo quella delle proprie figlie. Si ritaglia spazi di riflessione intellettuale e di pensiero. Si sofferma disincantata sul mondo adulto vedendo il mondo fantastico di sua figlia. Descrive le contraddizioni e i contrasti fra le persone all’interno di una fabbrica, in cui si reca come volontaria e che tradiscono la natura dei rapporti umani e il riprodursi delle logiche competitive anche all’interno di un regime socialista, rispetto al quale, pur vivendo sempre nella Germania dell’ Est, fu, da un certo momento in poi, assai critica Ma è un raccontare che si libera delle inezie e delle miserie del quotidiano, della sua cappa razionale, e fa emergere le relazioni con tutte le tensioni e le delicatezze che queste hanno e rivelano.
Anche “Pomeriggio di giugno” è un racconto su un momento tratto dal quotidiano, appunto un pomeriggio, nel proprio giardino, con la propria famiglia. Ma qui, come osserva Anita Raja, “l’idillio del giardino si carica progressivamente di minacce che arrivano dal cielo, dal mondo dei vicini di casa, dagli stessi componenti della famiglia, ciascuno dei quali è portatore di incertezze, di paure, di angoscia di morte” In altre parole come se la realtà esterna incombesse in quel microcosmo privato e familiare, costringendo a vedere e sentire cose non volute e non immaginate che infrangono l’illusione di quel momento di pace e portano, dentro la giocosità di quel momento, tutto il peso di quella realtà: “Io appoggiai la testa al cuscino della sedia a sdraio. Chiusi gli occhi. Non volevo vedere nulla e non volevo sentire nulla”, dirà la narratrice alla fine del racconto. Laddove così come il vedere e il sentire alla fine della guerra si rendeva necessario e inevitabile, qui il non vedere e il non sentire si fa autoprotettivo, quasi a voler difendere il proprio mondo interiore e privato.
Sono invece di tutt’altra natura gli altri tre racconti. A suo modo sperimentale, nonché il più complesso dei sei è “Unter den Linden”, il racconto che dà il titolo alla raccolta, essendo Unter den Linden la strada berlinese in cui il racconto è ambientato e il cui nome significa appunto “Sotto i tigli”. E’ un racconto fortemente centrato sulla soggettività e i sentimenti, sull’ambiguità dei rapporti affettivi e dei legami, sulla fedeltà e l’infedeltà, sull’impossibilità di realizzare e vivere l’amore. “Unter den Linden” si svolge in un sogno e come tale si sviluppa: senza nessi lineari ma per immagini e visioni, molte delle quali simboliche e allusive. Ma se pur nel finale – al momento della fuoriuscita dal sogno – vi è una rivendicazione dell’io narrante femminile di ritrovata libertà e di riappropriazione di sé, intesa come riappropriazione del proprio femminile, tuttavia nello svolgimento del racconto prevale la durezza e la cupezza di una condizione di quel femminile che finisce per trovarsi a vivere come colpa l’espressione dei suoi sentimenti. Laddove è la capacità di amare e di dare valore a tale capacità, propria della sensibilità femminile, che oppone, per la Wolf, il mondo interiore delle donne a quello degli uomini.
Come osserva Anita Raja per la Wolf “Gli uomini conoscono smettendo di amare. Le donne conoscono amando e la cosa più importante per loro è “essere conosciute” [nel senso di <<essere amate>>]. Il nocciolo di “Unter den Linden” è quindi un incontro che non può compiersi, una passione d’amore non consumabile, l’attraversamento femminile dell’infelicità perché chi poteva renderci felici si è sottratto: è narrazione dell’ineffettuato, di una pienezza che non riesce a viversi perché nel momento in cui essa potrebbe rovesciarsi verso l’esterno incontra il vuoto lasciato dalla cultura maschile, l’aridità. La ricerca femminile di sé è quindi particolarmente disperata: persino la forma pronominale – io – è sfuggente, instabile.”
E questo brano di “Unter den Linden, in cui l’io narrante femminile sarcasticamente e amaramente definisce e descrive la dolorosità della mancanza d’amore e del gelo a cui tale mancanza conduce illumina quanto sin qui detto: “Noi, forse, un poco ci opponiamo ancora all’impegnativa convenzione in base a cui la mancanza d’amore non è da prendere sul tragico. Un uomo come Lei questa cosa se l’è lasciata alle spalle. E’ uno che per tutto ha una spiegazione e che si rifiuta di soffrire. Noi, purtroppo, stabiliamo un legame col mondo solo grazie all’amore. Per il momento. E un pochino dovremo ancora soffrire. Ma siamo pronte a imparare. Niente paura – anche il dolore che proviamo si atrofizza. Forse ci fa ancora un po’ impallidire la contraddizione in cui siamo invischiate. Ma mostriamo giudizio. Già cominciamo a sottrarci spontaneamente a noi stesse. Non si preoccupi: presto nessuno Le confiderà più le sue pene. Presto non ci unirà nient’altro che la cecità delle nostre anime. Nient’altro che questa strada, dove ci si incontra ormai soltanto per caso, di pomeriggio dopo il peccato. Poiché tutti noi conosciamo il peccato della mancanza d’amore, nessuno più se ne ricorderà. E questa la chiameranno felicità. Ah mio caro, dissi. Non posso rinviare l’amore. Non a un altro secolo. Non al prossimo anno. Nemmeno di un giorno. Aver detto ciò, perlomeno nel sogno, mi fece bene.”
Infine con gli ultimi due racconti – situati in situazioni e contesti immaginari – nel demistificare e irridere le derive pianificatorie che vorrebbero scientificamente “assicurare” la “TOTALE FELICITA’ UMANA”, oggetto di “Nuovi punti di vista e considerazioni di un gatto sulla vita”, o mutare in laboratorio la donna in uomo, oggetto di “Autoesperiemnto”, la Wolf approda, usando i toni di un’ironia disincantata, sferzante e amara, al tema dell’alienazione da sé e dello snaturamento coattivo della soggettività e dell’identità. Dietro l’evidente critica alle logiche della pianificazione socialista che voleva inglobare in quella pianificazione l’esistenza e le esistenze delle persone vi è, ancor più drasticamente, da parte della Wolf il rigetto della razionalità e dell’impersonalità della scienza e della tecnica e del pensiero maschile su cui esse si fondano: “la scienza” dice la protagonista di “Autoesperimento””è si una signora, ma ha un cervello maschile. Anni della mia vita mi è costato imparare a sottomettermi a quel pensiero le cui maggiori virtù sono la non-partecipazione e l’impassibilità”.
Anche in questi racconti vi è quindi un io femminile che si fa portatore di un’istanza di differenziazione e di autonomia che si manifesta con il suo stesso esistere, con il quale rivela prima di tutto a se stesso oltre che al mondo tutta l’ insopprimibilità della sua natura. E in quel verbale che la protagonista di “Autoesperimento” redige “in margine” al verbale ufficiale, dopo essere ritornata “felicemente una donna”, è di quella natura e della sua irriducibilità che ella parlerà e, in forza di quella irriducibilità, con queste parole lo concluderà: “Adesso ci attende il mio esperimento: il tentativo di amare. Che d’altronde porta anche a fantastiche invenzioni: all’invenzione di chi possiamo amare”
(Però la Wolf, per quello che la conosco, non mi convince. Pettegolezzo: ho visto suo marito una volta. Mi è sembrato giallo di una rabbia mandata giù per diversi decenni.)
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Aiuto, mi prendi impreparato sulla “biografia” e sulla vita della Wolf. Sicuramente non è una scrittrice che ho particolarmente “abbracciato” né mai approfondito. La mia conoscenza è limitata a questo titolo che lessi nell’ambito di un gruppo di lettura e di cui mi erano comunque piaciute le tematiche, in particolare quelle sull’ oblio e sul femminile per la quale te l’ho segnalato. Da noi penso che abbia avuto un seguito persino un po’ esagerato rispetto almeno ad altre scrittrici di lingua tedesca, avendo aleggiato su di lei quell’alone femminista che l’ha fatta andare molto di moda.
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Lo penso anch’io. A differenza della Bachmann, la Wolf mi fa l’impressione di una che studia a tavolino quello che deve mettere nei suoi libri (d’altra parte non dimentichiamo che scriveva nella DDR, ein Ding der Unmöglichkeit ).
Non devi prendere sul serio i miei pettegolezzi, non so quasi niente della biografia della Wolf. Ho solo visto il marito (scrittore anche lui, ma molto meno noto) alla presentazione di un libro della moglie e aveva l’aria gialla di uno che si rode, ma magari aveva solo mal di fegato!
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La Bachmann è tutta un’altra cosa, non c’è neanche paragone. Per dirti, sono pure andato sulla tomba della Bachmann, cosa che non mi verrebbe mai in mente di fare per la Wolf.
Caustica e molto divertente (come al solito) a farti venire in mente il marito della Wolf con il mal di fegato.
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