“La montagna incantata” – Thomas Mann

Nella “Premessa” de “La Montagna Incantata” (“L.M.I.”) Thomas Mann scrive: “Senza temere il discredito in cui versa la meticolosità siamo anzi propensi a credere che soltanto ciò che va in profondità riesca a divertire”. Attenendosi fedelmente a queste premesse egli genera un’ opera che per estensione e profondità avrà una mole tale da indurre lo stesso Mann a definirla “un mostro”: “per la sua mole l’Autore la definì “un mostro”” ( E. Pocar – “Introduzione” in T. Mann – “La montagna incantata” – Corbaccio – 1997 – p. VIII). Questa definizione può essere riferibile, in primo luogo, alla sconcertante vastità dei temi affrontati e ricompresi all’interno de “L.M.I.”.

Ladislao Mittner nella sua “Storia della letteratura tedesca”, così descrive il contenuto de “L. M. I.”: “Nel lunghissimo romanzo c’è di tutto: pittura d’ambiente, meditazioni sul senso e sul valore filosofico del tempo, interi trattati scientifici sulla malattia, una storia d’amore che è anche questa volta maschera del cupio dissolvi, conversazioni da salotto e conversazioni con moribondi, molta psicanalisi con molta intelligente critica della psicanalisi, una drammatica relazione su una seduta spiritica, discussioni di politica e di storia, una vasta galleria di ritratti, tutti interessantissimi, ed un lungo capitolo sulla musica; c’è, verso la fine, un duello che si risolve in un suicidio e non cambia nulla, e c’è anche l’apparente riscossa finale dell’eroe alla notizia dello scoppio della guerra: riscossa che è in realtà, anch’essa, un suicidio. E ci sono, soprattutto, “significati”, spesso forzati o del tutto arbitrari, ma non perciò meno appassionanti”. (L. Mittner – “Storia della letteratura tedesca – Dal fine secolo alla sperimentazione – Tomo secondo – Parte Quarta” – Einaudi – 2002 – p.1077)

Vi è poi l’estrema varietà dei toni e dei linguaggi che si alternano e si fondono. Perché ne “L.M.I.” vi è un’amplissima serie di personaggi che vi appare e Mann, per ciascuno di essi, crea una prosa specifica, adattandola alla natura della loro personalità e al loro ruolo, pur mantenendo “una certa unità di tono [la quale] è assicurata dal persistente umorismo perplesso e spettrale” (L. Mittner, cit., p.1079). Per arrivare infine a quello che è l’aspetto di maggiore grandiosità contenuto ne “L.M.I.”, la cui mole simbolica e narrativa domina tutto il romanzo e cioè quello di farci scorrere di fronte un mondo di vivi che, in realtà, è un mondo di morti e di morte, in quanto la morte permea di sé tutto ciò che accade nel romanzo, essendo che Mann “scrive qui il grande poema della morte” (E. Pocar, cit., p. VII) Ma ciò senza generare alcun sentimento di orrore o di fredda repulsione, né inducendo, in alcun modo, ad alcunchè di macabro. Bensì, al contrario, vi è ne “L.M.I.” un continuo ed ininterrotto pulsare della vita e delle sue manifestazioni, in forme anche assai robuste, tali da apparire quasi inverosimili.

Questo non negare la vita pur parlando della morte, avviene attraverso lo spostamento integrale di tutto ciò che accade nel romanzo in una dimensione che sostituisce la realtà della morte e il suo incombere con una sospensione del tempo che fa trapassare tutto in una dimensione irreale che, a ragione, si può definire “incantata”. L’artificio creato da T. Mann è quindi quello di condurci in un luogo reale e di parlarci di cose reali ma come se fossimo in un altro mondo. Un mondo atemporale e immunizzato, dove la paura della morte è negata e gli si oppone un ozioso quanto ostinato vivere, in preda alle più elementari e istintive pulsioni. Un mondo che per questo suo adagiarsi nel piacere del suo proprio disfacimento appare un mondo a suo modo fiabesco che avviluppa nelle sue spire e del quale si diventa per sempre prigionieri.

“L. M. I.” pur nelle evidenze di un forte realismo ha quindi in realtà una sua intrinseca natura magica, possiede l’intima essenza di una fiaba: “potrebbe darsi che la nostra [storia] per sua intima natura abbia anche qualche altro punto di contatto con la fiaba” dice T. Mann stesso nella “Premessa”. Ora se è vero che T. Mann si colloca tra i grandi fondatori del romanzo moderno, “L.M.I.” ne è, in questo senso, un perfetto esemplare proprio per questa sua natura di fuoriuscita dal reale in cui si colloca l’azione e in cui sono immessi i personaggi, e per l’esplicita contrapposizione, che vi è nel romanzo, tra “quelli di lassù”, cioè quelli che vivono appunto su la “montagna incantata” e “quelli di laggiù” cioè coloro che vivono nella “pianura” luogo della realtà e della produttività.

C. Magris riflettendo in tal senso su la natura del romanzo moderno esplicita chiaramente questo punto: “La storia del romanzo moderno non è tanto quella del soggetto che mette giudizio e si integra nella razionalità dei processi sociali, come il Wilhelm Meister di Goethe, quanto la storia del soggetto che non trova posto nella concatenazione sociale, ma semmai ne esce.”(C. Magris – “L’anello di Clarisse” – Einaudi – 1984 – p.19), così come accade non solo a Giovanni Castorp, il protagonista del romanzo, ma a tutti coloro che sono ricoverati all’interno di quel sanatorio di Davos: il Berghof, in cui è ambientata la vicenda. E che lì permangono pressoché stabilmente, per quelle loro interminabili cure che si protraggono senza fine. All’apparenza finalizzate a guarire da quella tubercolosi di cui sono affetti, di fatto, assunte e trasformate in espediente esistenziale per estraniarsi dal mondo e lì vivere intenti esclusivamente a se stessi.

Da luogo di ricovero il sanatorio diventa, quindi, luogo di soggiorno, come se si fosse lì “in vacanza”: una vacanza indefinita e indefinibile, una vacanza dalla vita in attesa della morte e pur tuttavia riempita di vita. Una vita nella quale a fronte dell’assenza del mondo vige la creazione di un mondo nel quale si assiste alla perfetta rappresentazione di quello che, riprendendo ancora le parole di C. Magris, diventa il romanzo moderno in se e per sé: “il romanzo diviene il luogo della malinconia, del divario fra l’esistenza che fluisce nel nulla e il suo significato irreperibile”. (C. Magris – cit. p.19) Ora con riferimento al primo dei due aspetti indicati da Magris e cioè quello relativo al fatto che il “romanzo diviene il luogo della malinconia” vi è, ne “L.M.I.”, una pervasività e un declinarsi della malinconia in innumerevoli forme da quelle più romantico-sentimentali a quelle più decadenti ed esistenziali ma, ancor più in generale, vi è chi ha rilevato come la malinconia sia essa stessa la base e alla base de “L.M.I.”.

In un articolo pubblicato sul sito on line “Germanistica.net – pagine di letteratura tedesca comparata”, Matteo Galli professore di germanistica all’università di Ferrara – richiamando il commento a “L.M.I.”di Luca Crescenzi riportato nell’edizione del romanzo edita ne “I Meridiani” Mondadori, con il titolo “La Montagna Magica” – afferma quanto segue: “l’idea di fondo di Crescenzi è… che la Montagna magica sia un epos sulla melancolia, che Castorp sia un eroe melancolico, che anche Behrens, Settembrini, Joachim, Peeperkorn lo siano, che il sanatorio sia – con esiti alterni – il luogo di cura della melancolia, il mal du siècle dell’Occidente al tramonto.”

Ma anche il secondo aspetto contenuto nell’affermazione di Magris è ben presente ne “L.M.I.”. E’ infatti proprio in quel divario di cui parla Magris che si svolge “L.M.I.”. Dove, a fronte della innumerevole congerie di “significati” che vengono prodotti ora direttamente dall’Autore ora dai suoi personaggi, in un incessante divagare del pensiero e dei pensieri, vi è proprio questo fluire nel nulla dell’esistenza, così come essa si svolge quotidianamente nel sanatorio, da una parte, e questa inafferrabilità dei significati ultimi di quel pensiero e di quei pensieri, dall’altra. In questo comun denominatore dell’irreale che fa de “L.M.I.” vuoi una fiaba, vuoi un archetipo del romanzo moderno, rientra anche la sua possibile lettura nel solco del “perdigiorno” di Eichendorff, il famoso personaggio creato dallo scrittore e poeta romantico Joseph von Eichendorff nella sua novella “Vita di un perdigiorno”.

Da subito, già nell’incipit, Mann richiama esplicitamente l’immagine del vagabondo, così come appunto è l’eroe di “Vita di un perdigiorno”, laddove dice, a proposito dell’effetto che il viaggio per recarsi a Davos provoca in Giovanni Castorp: “Due giornate di viaggio allontanano l’uomo (specie l’uomo giovane le cui radici sono ancora poco abbarbicate alla vita) dal mondo di tutti i giorni, da quelli che egli considerava doveri, interessi, affanni, previsioni,… Lo spazio che roteando e fuggendo si dipana tra lui e la sua residenza sviluppa forze che di solito si credono riservate al tempo…Come quest’ultimo, esso genera oblio, ma lo fa staccando la persona dai suoi rapporti e trasportando l’uomo in uno stato di libertà originaria…anzi trasforma in un baleno persino il pedante borghese in una specie di vagabondo…Tale fu anche l’esperienza di Castorp”.

Questa condizione momentanea e iniziale in cui viene a trovarsi Giovanni Castorp e che, al massimo, avrebbe dovuto protrarsi per tre settimane, periodo a cui si doveva limitare la sua presenza nel sanatorio, essendovisi recato per fare visita al cugino Joachim, lì ricoverato, con la previsione di fermarsi appunto non più di tre settimane, diverrà, invece, una condizione che occuperà ben sette anni dell’esistenza di Castorp, tanti quanti saranno quelli che trascorrerà nel sanatorio di Davos. Durante i quali egli incarnerà quelle dimensioni di estraneazione dal mondo, di sostanziale fuga dalle responsabilità e di ricerca di elevazione del proprio spirito vissuta come altamente superiore e nobilitante rispetto alla prosaicità e agli obblighi che la realtà della vita reale contiene, ammalandosi o essendo già ammalato, questo non si saprà, per poter appartenere a quel luogo.

Castorp, in quella sua prolungata stanzialità, in realtà vagabonderà esistenzialmente, fisicamente e intellettualmente in quella terra di nessuno che è il sanatorio, vivendo sempre in un astratto ed eterno presente, libero da vincoli materiali e sociali, in un oscillare fra immedesimazioni entusiasmanti per le scoperte che quella libertà gli offrirà e ripiegamenti malinconici per il subentrare dell’esperienza del disincanto che, a più livelli, gli si rivelerà. Ma la specificità e la rilevanza del “compito” che Thomas Mann affida a Giovanni Castorp va assai oltre il dissidio libertà/disincanto. Le esperienze che Castorp farà in quel suo vagabondare si configureranno infatti come delle messe alla prova con la vita e con le manifestazioni che essa può assumere. La pluralità di tali manifestazioni e significati che Giovanni Castorp sperimenterà non ha lo scopo di stabilire gerarchie o scale di valori, né di prospettare verità ultime e assolute.

Al contrario, esponendolo ad una molteplicità di influssi ed acquisizioni Thomas Mann compie attraverso il suo “eroe” l’impresa di mostrarci come la vita è e resta un mistero. Perché i piani e i livelli che la compongono sono tanti e tali che nessuno di essi è, di per sé, decisivo, né uno esclude l’altro. Ognuno dei personaggi con cui Castorp entrerà in relazione gli metterà infatti di fronte un “aspetto della vita”. Il che non è solo nei termini del contrasto tra diverse visioni del mondo ma, assai più profondamente, è la consapevolezza delle diversità intrinseche alla vita, del suo essere possibile in forme ed espressioni la cui natura rimanda a sfere totalmente estranee tra loro, eppure tutte riconducibili alla vita e atte a rivelarne la sua complessità.

Nel suo procedere Giovanni Castorp scoprirà che non vi è linearità, sequenzialità, progressività dell’esperienza, bensì circolarità, difformità, pluralità delle esperienze. In questo senso ne “L.M.I.” non vi sono ricomposizioni. La questione del procedere dialettico presente in tutta l’opera di Thomas Mann si manifesta anche qui in modo evidente e sistematico. E ciò non solo a livello delle singole e svariate dicotomie presenti ne “L.M.I.” ma, “a monte”, nell’impianto generale dell’opera, coerentemente allo spirito e al senso complessivo della concezione manniana della letteratura. Giuliano Baioni ha ben descritto questo punto allorquando afferma: “Thomas Mann sosteneva la necessità di una letteratura che realizzasse, secondo l’insegnamento di Nietzsche, l’identità di lirica e critica, di immediatezza poetica e di consapevolezza filosofica. Lo scrittore si proponeva così di teorizzare la formula narrativa…che…avrebbe poi definito “una mescolanza di elementi in apparenza eterogenei: malinconia e critica, intimità e scepsi, Storm e Nietzsche, stato d’animo e estro intellettualistico…” (G. Baioni – Nota introduttiva in T. Mann – “Tonio Kroger” – Ed. RCS Corriere della Sera (I grandi romanzi – 23) – 2002 – p.25)

Ed è proprio questa fusione di elementi diversi e contrapposti sintetizzabili nei binomi sentimento e ragione, spirito e mente, che T. Mann realizza ne “L.M.I.”. In un oscillare perenne tra di essi che porta il lettore a partecipare al pathos che scava l’anima e nell’anima dei personaggi e, al tempo stesso, ad assistere al procedere – talora persino pedantesco, ma reso sempre in modo sottile e raffinato – delle loro elucubrazioni e speculazioni. In questo senso sarà facoltà del lettore scegliere se accelerare o rallentare in funzione della sua empatia con le diverse parti e con i differenti contenuti, in base, insomma, alle proprie personali predisposizioni.

Ma come non vi è sintesi fra queste differenze di approcci, se non nell’opera in quanto tale, giacchè non vi è mai in tutta “L.M.I.” il prevalere di un approccio rispetto all’altro, così non vi è mai, in tutta “L.M.I.”, il prevalere di un polo rispetto all’altro tra i singoli poli dialettici che Mann vi introduce dei quali quelli salute – malattia, natura – spirito e vita – morte sono quelli che dominano l’intera opera. Perciò nel dire che ne “L.M.I.” non vi sono ricomposizioni significa che se il gioco delle tesi e delle antitesi è costante, ad esso non corrisponde un punto d’arrivo unico e finale, cioè una sintesi superiore. Gli interrogativi posti restano tali e, alla fine, non vi è una soluzione o una salvezza risolutiva per nessuno.

Una irrisolutezza che è riferibile anche a quella borghesia europea antecedente la prima guerra che fa da sfondo al romanzo e ne è la grande protagonista storica. Il mondo de “L.M.I.” è infatti anche un grande affresco della decadenza della borghesia europea d’anteguerra, essendo T. Mann uno scrittore che viveva dentro la Decadenza europea ma, non per questo, rinunciava a giudicarla. Da qui l’ambientazione e la composizione tutta borghese che Mann fa del sanatorio e dei suoi frequentatori. Laddove la malattia e la morte con cui quei frequentatori convivono indifferenti ne simbolizzano la loro degenerazione e la loro intima debolezza, sprofondati, come essi sono, nella loro mollezza e nel caos etico derivante dalle libertà che lì godono. “Infatti la realtà totalizzante dell’essere malati affranca gli ospiti di Berghof dal rispetto delle forme e convenzioni che regolano la vita di “pianura”. Qui…si impone invece… il soddisfacimento di bisogni e piaceri <<fisiologici>> che portano in se stessi la propria sterilità: è il sesso che…compare solo in forme ripetitive e superficiali; sono i cinque pasti incredibilmente ricchi e variati che scandiscono la giornata e che vengono divorati con appetito incredibilmente invariato; è la schizzinosità con cui viene nascosta la morte dei pazienti, fatti scomparire alla chetichella; è il tabù della morte stessa, innominabile, poiché solo futile evento di allentamento finale delle forme, sgradevole e vergognosa nel suo manifestarsi, ultimo stadio della decomposizione che corrode i corpi dei malati” (Carla Becagli – “Invito alla lettura di Thomas Mann” – Mursia – 1978 – p.103)

Ma questo rifuggire dalla morte e “nascondere” la morte è già esso stesso sintomo dell’impossibilità di superare il conflitto vita /morte, – intorno al quale ruota tutto il “percorso di formazione” di Giovanni Castorp, nonché l’intera opera – e di dare ad esso una risposta razionale. Le vicende finali del romanzo e dei suoi protagonisti vanno infatti tutte in questa direzione. In questo senso “L.M.I.” assunto come “romanzo pedagogico” capace di affrontare e penetrare l’antinomia vita/morte, attraverso una loro conciliazione che riconosca il necessario rapporto fra l’una e l’altra non ha un arrivo. Se, all’inizio del romanzo, Giovanni Castorp è musilianamente un “uomo senza qualità”, alla fine del suo percorso è si giunto a una “conoscenza della vita”, la quale è senza dubbio superiore alla vita immediatamente vissuta, ma che condurrà e lo condurrà comunque alla morte.

L’illusione di una “vita superiore”, come quella da lui intravista nel sogno descritto nel famoso capitolo “Neve”, resterà tale, svanendo allo svanire del sogno. Né l’ illusione umanistico-illuministica del pedagogo Settembrini uno dei mentori di Castorp all’interno del sanatorio, tutta ancorata al dominio della ragione, nel fare della morte la “ragione” della vita, gli offrirà una soluzione, rivelandosi inadeguata perchè troppo schematica e “ottimistica”. Né, per altro verso gliene offriranno Peeperkorn e Naphta che, con i loro suicidi, risolveranno i loro relativi “estremismi” con cui si ponevano di fronte alla vita.

Il carismatico Peeperkorn che irrompe nella seconda parte del romanzo, esaltatore frenetico della propria quasi divinizzata vitalità si uccide perché non regge più agli stimolanti che gli hanno rovinato la salute, dovendo Giovanni Castorp constatare come il sentimento di tipo orgiastico della vita immediatamente vissuta è inconsistente ed aleatorio. Naphta, il gesuita-comunista Naphta, l’altro mentore di Castorp, si ucciderà in quel duello “mancato” con Settembrini, fedele, nel suo assolutismo ideologico, al suo culto del terrore e della morte come salvezza del mondo, in cui Mann incarna tutti gli orrori novecenteschi che i totalitarismi produrranno.

Ma se Mann fa intravedere quale sarebbe voluto essere il suo punto di approdo, allorquando fa dire a Castorp nel suo sogno questa frase: “l’uomo, per riguardo verso la bontà e l’amore, non deve concedere alla morte il dominio sui suoi pensieri”, tuttavia vi oppone un disincantato scetticismo allorquando lascia che Castorp esca dal sanatorio e scenda in “pianura” ma non per optare per quella “vita superiore” intravista in sogno e sintetizzata in quella frase, ma per optare per una vita che può condurlo soltanto alla morte e cioè per la guerra. Nella scelta di Castorp il superamento della decadenza (malattia/morte) di fatto non si verifica e il rientro nella realtà si rivela fittizio. All’atmosfera morbosa del sanatorio, impregnata di morte, si sostituisce una prospettiva ancora più esplicita di morte. E vedendo Giovanni Castorp incamminarsi verso la morte nello sfacelo della guerra mi sono apparse, come una sorta di lapide, queste parole di Gregor von Rezzori lette nel suo romanzo “Un ermellino a Cernopol”: “Nessuno fa mai altro che andare incontro alla propria morte”.

4 risposte a "“La montagna incantata” – Thomas Mann"

  1. viducoli 1 febbraio 2017 / 22:19

    Innanzitutto complimenti per la bella recensione e per avere avuto il coraggio di affrontare cotanto mostro sacro. La mia interpretazione delle opere di Mann differisce un poco dalla tua, essendo centrata sull’autore come grande borghese cantore della crisi della borghesia, con tutte le contraddizioni del caso.
    Mi ha molto interessato però un’analogia analitica: anche io vedo nell’opera di Mann elementi dialettici, hegelianamente intesi, solo che li ho ipotizzati non all’interno di un singolo romanzo, ma nella triade Buddenbrook – Altezza reale – L.M.I., rispettivamente come tesi-antitesi-sintesi proprio rispetto alla crisi.
    Se la mia analisi ti interessa la trovi rispetto ad Altezza Reale.

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