“Tre sentieri per il lago” – Ingeborg Bachmann

Le donne protagoniste di questi racconti di cui l’ultimo: “Tre sentieri per il lago” è stato scelto come titolo dell’edizione italiana di questa raccolta, sono tutte donne rinchiuse, prigioniere di se stesse. Un morso duro e serrato ne tiene legata la loro interiorità, impedendo loro di liberarsi di quel grumo oscuro pervicacemente piantato nei loro sé.

In un’intervista del 1972, lo stesso anno di uscita di questi racconti, Ingeborg Bachmann dice: “ …tutti gli uomini, in tutti i rapporti, parlano ognuno per conto proprio; questa comprensione apparente che si chiama apertura non è affatto tale. Comprensione non ce n’è. L’apertura non è altro che un equivoco assoluto. Nella sostanza, ognuno è solo con i suoi pensieri e i suoi sentimenti intraducibili” (Ingeborg Bachmann – “In cerca di frasi vere” – Laterza – 1989 – p.201)

Ebbene questa è la condizione in cui si trovano le protagoniste di questi racconti: sole con i loro pensieri e i loro sentimenti intraducibili. E sia che esse siano giovani, meno giovani o anziane, indipendentemente dalle relazioni più o meno numerose che intrattengono e indipendentemente dagli uomini presenti nelle loro vite tutte loro appaiono intimamente estranee verso ciò che le circonda, occupate, come sono, a riuscire a stare con se stesse prima ancora che con gli altri.

Per queste donne il mondo esterno e le persone che in questo mondo vivono sono sempre un mezzo, mai un fine in sé. Il mondo e gli altri non sono delle mete finali verso cui proiettarsi o a cui darsi, ma sono solo una circostanza necessaria od obbligata e quindi, in quanto tali, inevitabilmente presenti. Ma se non fosse perché ci sono e perché c’è bisogno che ci siano il mondo e gli altri restano inesorabilmente lontani e distanti, entità con cui non ci si riesce mai a fondersi, nei confronti delle quali si vive un perenne scarto fatto di incomprensioni e che genera inquietudine. A tutto ciò si può pervenire in vari modi.

Nel caso di Nadja la protagonista di “Simultaneo”è il senso di spaesamento e sradicamento che si è impossessato della sua vita: “…ora addirittura poter fare un viaggio con uno che veniva da Vienna…la fantomatica sensazione di un <<essere a casa>> che per lei non esisteva più da nessuna parte” essendo Nadja, con quel suo lavoro di traduttrice simultanea internazionale, una donna ormai deindentificata, metafora quel lavoro: dell’impossibilità di affermare un suo sé: “spesso le accadeva di aprire superstiziosamente i suoi vocabolari per cercare in una parola un appiglio per la giornata,…interrogava quei libri quasi fossero degli oracoli”; e dell’impossibilità di affermare delle appartenenze: “…le sale dei palazzi dei congressi, le hall degli alberghi, i bar, gli uomini, la routine nel trattare con loro, le molte lunghe notti solitarie e le molte notti troppo brevi e solitarie anch’esse, e sempre quegli uomini con le loro cose importanti, uomini che erano o sposati e gonfi e ubriachi o qualche volta, per un puro caso, snelli e sposati e ubriachi, o abbastanza simpatici e terribilmente nevrotici o molto simpatici e omosessuali”.

Nel caso di Beatrix, la protagonista di “Problemi problemi”, l’estraneazione assume tratti totalizzanti e regressivo-fetali: “…da quando era cresciuta e si era energicamente rifiutata sia di continuare gli studi sia di imparare un mestiere, mai più le era venuta l’idea di concedersi a un uomo, e la sua ripugnanza per questa normalità così atroce, a cui tutti gli altri si adeguavano, coincise per lei con la scoperta di una perversione, di quel suo feticistico sonno. Perversa, proprio così, ma almeno lei era qualcosa di speciale in mezzo a tutti quei pazzi normali…anche solo quell’ eterno svestirsi e rivestirsi era talmente faticoso, niente comunque che potesse reggere il confronto con la sua folle passione per il sonno profondo…il sonno era diventato per lei…l’unica cosa per la quale valesse la pena di vivere”. Perché Beatrix non ha fondamentalmente bisogno di niente e di nessuno, per lei l’impossibilità di amare si tramuta in un patologico e narcisistico rispecchiamento di sè: “Sono innamorata, sono veramente innamorata di me stessa, sono proprio un amore!…Dominò quel tumulto di sentimenti perché sentì avvicinarsi dei passi e tra poco la porta della cabina si sarebbe aperta e tutto sarebbe ridiventato atroce, e la vita fuori sarebbe ridiventata meschina come sempre…e lei sarebbe stata di nuovo consumata dalla vita”

Nel caso della “vecchia signora Jordan” la protagonista di “Latrato” l’ autoreclusione esistenziale nel non detto, in relazione a quelli che sono i suoi veri sentimenti, coincide con la paura che ella prova per il figlio Leo, simbolizzata dalle reazioni del suo cane: “La vecchia signora rispose sconvolta: Un cane no, assolutamente no, un cane non lo voglio! Franziska si accorse di aver fatto qualcosa che non andava…Dopo un po’ la vecchia signora disse con tutta calma: Nuri era un cane bellissimo e lo tenevo volentieri…Ma…ogni volta che Leo veniva, bastava che si avvicinasse alla porta e subito Nuri gli saltava addosso abbaiando come un matto e poi una volta per poco non lo ha morsicato, e Leo si è arrabbiato moltissimo…eppure così cattivo non era mai con nessuno altro, nemmeno con gli estranei e allora naturalmente l’ho dato via…Franziska la stava ad ascoltare e intanto diceva fra sé: E’ così dunque…lei ha dato via il suo cane per lui. Ma che razza di gente siamo, si disse – perché era incapace di pensare ma che razza di uomo è mio marito!”

Nel caso di Miranda, la protagonista di “Occhi felici” la sua abdicazione al mondo e la sua sopravvivenza nel mondo si manifesta letteralmente come rinuncia di “vedere” il mondo: “Ci sono momenti in cui tutti e tre gli occhiali sono chissà dove, scomparsi, perduti e allora Miranda non sa più cosa fare. Josef arriva già prima delle otto di mattina dalla Prinz-Eugen-Strasse e setaccia tutto l’appartamento, sgrida Miranda, sospetta la cameriera e gli operai, ma Miranda sa che nessuno ruba, la colpa è soltanto sua. Poiché Miranda non tollera la realtà, e tuttavia non può andare avanti senza un qualche punto d’appoggio, la realtà di tanto in tanto organizza piccole spedizioni punitive contro di lei…Josef promette di andare immediatamente dall’ottico, perché Miranda senza occhiali non può vivere, e lei lo ringrazia, gli si stringe addosso improvvisamente impaurita… Poi gli occhiali sono pronti, non sono passate nemmeno due ore che già lui li ha ritirati dall’ ottico, e tutto capita di nuovo. Miranda è perduta, deve buttarsi sul letto, aspettare e calcolare il momento in cui Josef è di nuovo nella sua Prinz-Eugen-Strasse. Finalmente lo trova, ma non sa proprio come dirglielo, che gli occhiali nuovi sono caduti nel lavabo. Si, proprio nel lavabo. Mi sento un’invalida, non posso uscire, non posso veder nessuno. Capisci…Poiché sa che gli occhiali non le sono caduti nel lavabo per caso, poiché sa che Josef lo deve perdere e preferisce perderlo di sua volontà”

E, infine l’ultimo racconto. In questo racconto che come detto ha per titolo “Tre sentieri per il lago” e che è il più ampio e corposo, la ferita di cui è oggetto tocca un aspetto fondamentale della biografia letteraria e personale di Ingeborg Bachmann e cioè il suo rapporto conflittuale e di sradicamento con l’Austria. Di cui è testimonianza il suo lungo soggiorno in Italia a Roma dove visse e morì, ma anche le parole che ebbe a dire dell’Austria che definì “questo piccolo, putrefatto paese” (“In cerca di frasi vere” cit. – p.135)

In questo racconto il grumo oscuro è proprio il rapporto irrisolto con le proprie radici che, rimosse, riemergeranno come un elemento identitario e affettivo di cui la protagonista del racconto finirà per prendere consapevolezza e coscienza. Ciò al di là di una concreta ed effettiva riconciliazione.

Nel racconto infatti la protagonista Elisabeth è un’affermata fotografa, ovviamente austriaca, come peraltro tutti personaggi di questi racconti, sempre in giro per il mondo, ormai stabilmente residente all’ estero, nella cui vita si sono susseguite svariate relazioni sentimentali, tutte con uomini più deboli e instabili di lei, salvo uno: Franz Joseph Trotta, con cui vivrà l’unico vero grande amore della sua vita. Nel racconto Elisabeth, tornata nella casa paterna, nei pressi di Klagenfurt, peraltro città natale della Bachmann, per visitare il padre e trascorrere lì alcuni giorni con lui, ripercorre in quei suoi luoghi d’infanzia un flash-back della sua vita professionale e sentimentale da cui traspare costante questo scarto tra i successi professionali e l’incompiutezza e carenza che a livello interiore la sua vita sentimentale e affettiva le ha dato. Salvo l’incontro, come detto, con Franz Joseph Trotta.

Ma questo nome e quello a cui rimanda non sono un caso, come la stessa Bachmann ebbe ad esplicitare in quell’ intervista del ’72, sopra citata: “Non per nulla ho ripreso il personaggio di Trotta. Voglio portarlo avanti. La Cripta dei Cappuccini finisce col fatto che questo Trotta, quando arrivano i Tedeschi nel 1938, sa che il suo mondo scomparirà. Da Roth, ora, veniamo a sapere che spedisce suo figlio in esilio a Parigi. Allora, ci ho pensato su: che cosa succede, poi, del giovane Trotta? Per me la sua vita prosegue negli anni Cinquanta, e questo l’ho descritto frammentariamente nel racconto”.

Alla fine del racconto Elisabeth lascerà amorevolmente il vecchio padre e i luoghi della sua infanzia e rientrata a Parigi dove vive, capirà, anche per effetto di un incontro imprevisto e fortemente simbolico con un cugino di Trotta all’ aeroporto di Vienna che quell’ amore per Franz Joseph aveva avuto per lei radici più profonde e significative di quanto, solo inconsciamente, si era resa conto e che, nell’ amore per Trotta, si erano “mosse” parti del suo sé affettivamente legate alle sue origini, tenute a lungo nascoste dentro di lei. In questo senso Elisabeth risulterà alla fine, l’unica delle protagoniste dei diversi racconti che si “scioglierà” e darà spazio alla propria interiorità e risulterà essere stata capace di una elaborazione su di sé.

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