In “Antichi Maestri” ricorrono, a mio modo di vedere, due dimensioni: la dimensione del pensiero e la dimensione della condivisione del pensiero. La prima e più immediata evidenza di ciò è fornita dalla struttura in sé del romanzo adottata da Bernhard. Essa si basa su due personaggi principali. Colui che narra: il “filosofo” Atzbacher (A.) il quale “scrive” il romanzo (“scrive A.” riporta Benhard alla fine del primo capoverso) e l’ottantaduenne critico musicale Reger (R.) di cui A. è amico anzi, come scriverà A. : “R. è il mio padre spirituale”.
Ebbene “Antichi Maestri” è, sostanzialmente, il resoconto, scritto da A., dei pensieri di R. il quale ne ha fatto partecipe A. nel corso dei loro incontri. Oggetto di “Antichi Maestri” sono pertanto i pensieri di R. e il pensare di R. di cui scopriremo, attraverso A., il contenuto. Ora l’esistenza stessa di R. è stata, da sempre, alimentata da quei suoi pensieri e da quel suo modo di pensare che sono per R. un elemento essenziale ed ineliminabile. Ma se non ci fosse A. non solo noi non avremmo testimonianza dei pensieri di R. ma, soprattutto, R. non potrebbe avvalersi di una persona, appunto A., con cui poter condividere quei pensieri. E di questa funzione di A. altrettanto essenziale ed ineliminabile per R. così come è quella del pensare, R. ne dà ampie attestazioni ad A.: “Non ho un essere umano che mi sia più utile di lei…Probabilmente riesco a sopravvivere solo grazie a lei…lei è l’essere umano che mi permette di continuare a esistere, non ne ho effettivamente altri”, perché “posso discutere con lei” , “caro il mio A.” così come R. apostrofa ripetutamente A.
Ma, ancor più definitivamente, se non ci fosse per R. la possibilità di condividere i suoi pensieri con qualcuno, (nella fattispecie con A.) R. sarebbe destinato ad impazzire, da solo con i suoi pensieri, giacché il suo pensare e gli oggetti del suo pensare – i quadri degli Antichi Maestri e in generale le opere degli spiriti magni – non consentono di per sé di stare al mondo, anzi, quegli oggetti ci abbandonano proprio nel momento del bisogno, come egli stesso dice: “Odiamo gli esseri umani ma vogliamo stare con loro, perché solo con e tra gli esseri umani ci è data una possibilità di continuare a vivere e di non impazzire. Soli, infatti, non resistiamo a lungo, così R., crediamo di poter resistere nella solitudine, crediamo di poter sopportare l’abbandono, cerchiamo di convincerci che possiamo tirare avanti da soli, così R., ma è un’idea cervellotica. Crediamo di potercela cavare senza gli esseri umani, crediamo addirittura di potercela cavare senza un solo essere umano e magari ci mettiamo in mente che la nostra unica possibilità è proprio quella di rimanere soli con noi stessi, ma è un’idea cervellotica. Senza gli esseri umani non abbiamo la benché minima possibilità di sopravvivere, disse R., nonostante tutti gli spiriti magni e gli Antichi Maestri che ci siamo scelti come compagni di strada, essi non potranno mai sostituire un essere umano, così R., alla fine sono soprattutto questi cosiddetti spiriti magni e questi cosiddetti Antichi Maestri che ci abbandonano, e ci accorgiamo che gli spiriti magni e gli Antichi Maestri si fanno addirittura beffe di noi nel modo più infame” .
Questo tema del movimento tra la funzione pensante di R. come suo elemento fondativo vitale – tanto da portarlo ad autodefinirsi in conseguenza dell’esercizio che egli fa di questa sua funzione un artista in tutto e per tutto: “ Io mi sento infatti un artista in tutto e per tutto, un artista critico,..e come artista critico, com’è naturale, sono anche creativo, è chiaro, e dunque sono un artista critico, creativo ed esercitante diceva” – e la necessità di radicare questa funzione pensante in un contesto condiviso, ha nella moglie di R. l’altra grande figura testimone di tale condivisione. Essendo la moglie di R. per R. “l’essere umano col quale abbiamo condiviso la nostra vita con la massima naturalezza e nel rispetto e nell’amore” ma anche colei che: “Dopo il nostro matrimonio …non ha fatto altro che questi viaggi dello spirito che io intraprendevo con lei, abbiamo viaggiato in Schopenauer, in Nietzche e in Descartese e in Montaigne e in Pascal, e ogni volta per anni”.
Quindi, come con A., in un legame che contiene sentimento e pensiero, stante però che l’esistenza non è riducibile solo a quest’ultimo. Tanto che la morte di sua moglie sarà per R. un piombare nel vuoto come lui dice: “Quando lei ha perso la persona più vicina al suo cuore, tutto le sembra vuoto, dovunque lei guardi tutto è vuoto, e lei guarda e riguarda e vede che tutto è realmente vuoto, e lo sarà per sempre, così Reger. Così capisce che non sono gli spiriti magni e neppure gli Antichi Maestri che l’hanno tenuta in vita per decenni, ma solo quell’unico essere umano che lei ha amato più di ogni altro.”. La moglie di R. e A. sono quindi funzionali, anzi strumentali per R., egli se ne appropria e li usa, ma in realtà è R. che, senza la moglie prima e A. adesso non esisterebbe, in quanto il pensiero così come la creazione artistica se non hanno alcuna condivisione non esistono.
La condivisione si configura qui come legittimazione della soggettività. Sia chiaro che R. attua la condivisione solo con chi è in grado di condividere i suoi pensieri, di fatto solo con A., perché A. riconosce nel pensiero di R. e dà al pensiero di R. un valore, perché come dice A. , R. è un genio: “…un genio come scienziato e forse addirittura come uomo, pensai, un genio R. lo è senz’altro…[laddove]… R. nell’Austria, che è il suo paese, è niente meno che odiato. Un genio come R. qui è odiato. Il genio e l’Austria non sono compatibili, dissi” .
In un suo scritto Bernhard ebbe a dire: “Il cervello ha bisogno di contrasti. Nella misura in cui esso accumula i contrasti ha del materiale” E poi ancora: “…ma perché ho finito proprio per scrivere, perché scrivo dei libri? Per un’improvvisa opposizione contro me stesso, e contro questa condizione – poiché i contrasti, come ho già detto una volta, per me significano tutto…”(1).
Ebbene quello che fa R., la genialità di R. che A. gli attribuisce e che invece lo rende un estraneo, se non addirittura odiato nel suo Paese, come dice A., sta proprio in questo: R. fa un’opera di contrasto, una ricerca di contrasti. Da 32 anni R. si reca, a giorni alterni, al Kunsthistorisches Museum (K.M.) di Vienna, nella sala Bordone dove è esposto il ritratto dell’ Uomo dalla barba bianca del Tintoretto e sta lì seduto nella panca posta di fronte al quadro a contemplarlo. R. non lo contempla in uno stato di ammirazione, anche se quel quadro lo ama e lo ha sempre amato, in quanto a R. lo stato di ammirazione è del tutto estraneo: “Lo stato di ammirazione è uno stato di deficienza mentale” dice R..
Ma lo osserva, così come fa anche con le altre opere degli Antichi Maestri esposte al K.M., per scoprirne i difetti, per trovarne gli errori: “In tutti questi quadri, se li studiamo con insistenza, constatiamo prima o poi una goffaggine, addirittura un vero e proprio errore, persino nelle creazioni più grandi e più significative, se siamo intransigenti, constatiamo un errore palese” Lungi quindi da qualsiasi forma di culto per quelle immagini R. toglie loro la patina di opere indiscusse e le mette in discussione, entra in contrasto con esse.
Ora in questo non solo vi è la radicale consapevolezza che uno sguardo canonizzato diventa sclerotizzato, diventa pietrificazione del pensiero, da qui l’invettiva e la repulsione verso “lo stato di ammirazione” ma, ben più radicalmente, R. fa un’altra cosa ne penetra la fallacia, laddove fallace è ciò che può illudere o ingannare. R. non vuole scoprire altri significati o interpretazioni che quelle opere evocano o inducono. Le studia non per comprenderle meglio bensì per penetrarne e rilevarne gli intrinseci inganni che esse contengono, l’imperfetto che si cela dietro la loro indiscussa perfezione, lo sgradevole che si nasconde dietro la loro ammirevole bellezza: “ Gli Antichi Maestri, come vengono chiamati ormai da secoli, sopportano solo un’osservazione superficiale, se li osserviamo con attenzione a poco a poco si stemperano e alla fine, dopo che li abbiamo studiati per bene…si dissolvono, si sbriciolano davanti ai nostri occhi, e non lasciano che un sapore stantio, nella maggior parte dei casi addirittura un sapore assolutamente sgradevole lasciato nella nostra mente” , dice R..
Quello che quindi R. fa è un’operazione di disvelamento dei limiti che inesorabilmente gravano su quei capolavori. Ma non per sostituire una perfezione: quella decretata istituzionalmente dagli apparati critici con un’altra: quella del suo sguardo che manieristicamente finirebbe per riaffermare un’idea di perfezione che si risolverebbe in un bieco perfezionismo. L’ obiettivo di R. sta nel trovare l’errore in sé, nel porre la questione del fallimento della perfezione che c’è nell’artista e nell’arte, laddove il tutto e il perfetto non esistono e non possono esistere.
Ed è proprio uscire dalla repressione/illusione del tutto e del perfetto che libera il pensiero e come dice R. “rende felice”: “Il perfetto non solo rappresenta per per noi una minaccia costante di distruzione, ma in effetti tutto ciò che è appeso a queste pareti e porta l’etichetta di capolavoro ci distrugge, diceva. Io parto dal presupposto che il perfetto, il tutto, non esistano affatto, e ogni volta che ho trasformato in un frammento una di queste cosiddette opere d’arte perfette appese alle pareti, cercando sopra e dentro quell’ opera d’arte, finchè non lo trovavo un errore palese, il punto che rivela in modo inequivocabile il fallimento dell’artista, autore di quell’opera d’arte, ogni volta che mi sono mosso in questo modo ho fatto un passo avanti…nessuno di questi capolavori noti in tutto il mondo, chiunque ne sia l’autore, è veramente un tutto, nessuno è perfetto. Questo mi tranquillizza diceva. Questo, in definitiva mi rende felice. Solo dopo aver constatato ripetutamente che il tutto e il perfetto non esistono, solo allora ci è dato di continuare a vivere.”
E detto questo è ancora R. poco dopo a fissare, secondo me , l’essenza di quel concetto bernhardiano di contrasto: “La mente dev’essere una mente che cerca, una mente che cerca gli errori, gli errori dell’umanità, una mente che cerca il fallimento. Una mente diventa effettivamente una mente umana soltanto quando cerca gli errori…diceva R.”. Questa affermazione ha nell’economia di “Antichi Maestri “, a mio modo di vedere, un valore assoluto, ne costituisce il senso più profondo è, in fondo, la chiave di tutto il testo. Quanto in essa contenuto tocca peraltro temi cardine di Bernhard. I concetti di errore e di fallimento e la decretazione dell’errore e del fallimento, sono stati infatti affrontati varie volte da Bernhard nelle sue opere, qui però, a differenza di altre volte, vengono esplicitati in una chiave dinamica e non autodistruttiva, cioè come condizioni necessarie del pensiero che poi naturalmente, nel momento in cui procede in questo modo, diventa quel pensiero “critico, creativo ed esercitante” che R. si attribuisce.
E’ tra l’altro interessante come qui Bernhard estenda il concetto di ricerca dell’errore da parte della mente, oltre il campo dell’arte, riferendola all’umanità: “La mente deve essere una mente che cerca…gli errori dell’umanità” dice infatti R., presupponendo quindi una condizione ontologica dell’errore e del fallimento come intrinseca nel mondo e negli uomini. E infatti R., in questo contesto di ammissione della pervasività dell’errore e del fallimento, arriva al punto da potersi persino permettere di agire su se stesso il fallimento: se il tutto e il perfetto non esistono, anche in R. il tutto e il perfetto non possono esistere; ma con un autolesionismo che qui ha effetti quasi comici, d’altro canto “Antichi Maestri” ha come sottotitolo “Commedia”.
E ciò invitando, alla fine del romanzo, A. ad assistere a “La brocca rotta” al Burgtheater, laddove A. scrive: “Faticai a credere alle mie orecchie quando mi disse che aveva preso due biglietti…per “La brocca rotta” al Burgtheater” , dato che R. stesso ammette di fronte ad A.: “non c’è niente che io detesti di più…dell’arte drammatica” , e poi ancora:”sono decenni che lei mi sente definire il Burgtheater come il palcoscenico più abominevole del mondo, e adesso, d’un tratto, lei dovrebbe addirittura venire con me a vedere La brocca rotta al Burgtheater” , e infatti scriverà A., concludendo il romanzo: ”Lo spettacolo era tremendo”.
Ma questo paradosso di un R. che si abbassa consapevolmente ad andare al Burgtheater, “il palcoscenico più abominevole del mondo” a vedere uno “spettacolo tremendo”, senza un motivo apparente:”non so come mi sia venuta l’idea di andare oggi al Burgtheater, a vedere La brocca rotta. Mi prenda pure per pazzo…” dice R., consumando in un sol colpo tutto il suo prestigio di fronte ad A. è un paradosso tipicamente bernhardiano potendosi in esso rinvenire quanto è stato osservato, più in generale, in merito al senso dell’opera complessiva di Bernhard: “…il senso dell’opera complessiva e in fondo monocorde di Thomas Bernhard, la quale, a tutti i livelli, vive di di un paradosso quasi maniacale: creare l’opera, artificioso coacervo di frasi e di vocaboli, per smentirla”. (2), ma, io aggiungerei, come in questo caso, anche per riaffermarla: perché smentendo R., mettendone a nudo il suo errore, Bernhard non fa altro che riaffermare proprio quello che R. ha sempre teorizzato e fatto: mettere a nudo errori e fallimenti.
Perché in Bernhard quasi mai si dà una cosa sola. O si dà una cosa e il suo opposto come in questo caso, o si dà una cosa e il suo doppio, si veda il surreale episodio del gallese che arriva al KM e scopre, esterrefatto, che lì vi è un Uomo dalla barba bianca del Tintoretto identico a quello che lui ha sopra il suo letto in camera sua, convinto com’era che il suo fosse l’unico esemplare esistente: un’ennesima destituzione di fondamento del tutto e perfetto, questa volta attraverso la destituzione di fondamento del concetto di originale.
E restando nella logica di reazione al tutto e al perfetto, va vista, secondo me, in questa chiave anche l’ affabulazione rabbiosamente distruttiva di R. contro tutte quelle mostruose strutture repressive dell’individuo che ne uccidono il pensiero e l’esistenza, nelle quali si viene imprigionati sin dall’infanzia: dallo Stato alla Scuola, dalla Chiesa ovviamente cattolica, alla famiglia, ai tradizionalismi e ai conservatorismi,(simbolizzati da Bernhard/R. con Stifter e Bruckner di cui così scrive C. Magris: “ Stifter è radicato nella tradizione conservatrice austriaca, nella fedeltà ad un’intonazione spirituale secolare…Bruckner che diresse il coro del funerale di Stifter…non pensava di essere un Artista, bensì di svolgere…un ufficio religioso”)(3).
Perché così come R., senza alcun aiuto, libera il suo sguardo dalla oppressione del tutto e del perfetto contenuti nelle opere degli Antichi Maestri, in quella stessa oppressione insita negli apparati di regolazione (Stato, Scuola, Chiesa, Genitori) ci si trova gettati sin da bambini, laddove come afferma R. l’infanzia è :” il buco nero nel quale siamo stati scaraventati dai nostri genitori e dal quale dobbiamo uscire senza alcun aiuto” , avendo come alternative o la presa di distanza che deriva dalla capacità di ridicolizzare (la commedia) o, se no, vi è solo la disperazione (la tragedia)“…tutto si può ridicolizzare…e se non siamo in grado di farlo, allora ci assale la disperazione e ci troviamo all’inferno” dice R..
Ma giunti a questo punto ci si potrebbe chiedere perché continuare ad andare a osservare così a lungo le opere degli Antichi Maestri se il compito di scoprire l’errore palese presente in quelle opere R. dà ad intendere di averlo raggiunto, se l’artificio che esse nascondono se lo è svelato, giacché dice R. : “Questi quadri sono pieni di falsità e di menzogne e pieni di ipocrisia e di autoinganno, e se prescindiamo dall’abilità spesso geniale con cui sono stati dipinti, in essi non c’è nient’altro”, ma perché, in fondo, non vi è altro modo per salvarsi. Perché non si può fare a meno di quell’ ”abilità geniale” pur avendone scoperto i più intimi artifici. Perché è solo con l’arte e nell’arte che ci si può salvare e che R. si salva. Perché “non c’è nient’altro che salvi la gente della nostra fatta se non proprio quest’arte maledetta e dannata, e spesso funesta e disgustosa da far vomitare, così R.”.
Perché per fare quei “viaggi dello spirito” ed esercitare quel pensiero critico e creativo occorre alimentazione e nutrimento: “E’ dagli Antichi Maestri che io devo andare per poter continuare a esistere, proprio da quei cosiddetti Antichi Maestri che a dire il vero detesto da tempo, da decenni.” .Ma se è vero che l’arte è per R. l’unico rifugio possibile: “Io mi sono infilato di soppiatto nell’arte per sfuggire alla vita… [come] questa gente che dopotutto, come me, odia effettivamente il mondo, da un momento all’altro sguscia via dall’odiato mondo e si rifugia nell’arte, che infatti si trova completamente fuori dall’odiato mondo” è anche vero che nel momento in cui “ho comprato due biglietti per La brocca rotta” dice R. ad A. “in quel mentre ho pensato solamente a lei e a me”.
(1) – T. Bernhard – “Tre giorni [1971]” in Aut Aut n.325 – 2005 – pp.10 – 13
(2) – E. Bernardi – “Prima dell’ultimo spettacolo” in T. Bernhard – “Perturbamento” – Adelphi – 2007 – p.230
(3) – C. Magris – “Danubio” – Garzanti – 1987 – p.137
Recensione illuminante che mi ha presentato in una luce molto più chiara un libro letto con entusiasmo, ma senza capirlo fino in fondo (ad esempio il paradosso dell’arte). Mi interessa in particolare il discorso sulla “necessità di un contesto condiviso” da parte di uno, come Reger, che si può definire un misantropo, e mi interessa anche perché cerco di vederlo in parallelo/contrasto con la figura dello “Zio” nella novella “Un uomo solo” di Stifter che mi hai consigliato. E’ vero che, per Reger, il lavoro artistico presuppone un pubblico (sfogliando il romanzo per cercare i passi in cui Reger parla di sua moglie sono cascata per caso su questo: [è Reger che parla, rivolto a Atzbacher] “Lei lavora da decenni alla sua opera e dice che scrive quest’opera per se stesso, ma ciò è tremendo, nessuno scrive un’opera di scrittura per se stesso…”). Però se guardiamo alla moglie di Reger, cioè all’essere che gli è stato più vicino e di cui egli sente acutamente la mancanza, ci accorgiamo facilmente che come molte altre figure femminili in Bernhard (generalmente sorelle) la consorte è stata schiavizzata: dopo il matrimonio Reger l’ha letteralmente rieducata e costretta a diventare ciò che lui voleva (per esempio, all’inizio la povera “ha resistito con le unghie e coi denti” alle pressioni di Reger per recarsi quotidianamente al KM, ecc.); e in definitiva, perché è morta? E’ morta per le conseguenze di una caduta su una lastra di ghiaccio perché a tutti i costi, nonostante ci fosse il ghiaccio per terra, Reger doveva andare al KM accompagnato da lei. Insomma, che a Bernhard (scrittore) interessi l’altro in quanto altro non sono tanto sicura.
Grazie per le tue brillanti recensioni, che continuo a consultare con profitto, e buon fine settimana!
Elena
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Grazie Elena per la tua “fervida” lettura. Mi fa molto piacere esserti utile in questa tua “rilettura” di Bernhard.
Saperti poi sua lettrice è per me motivo di grande contentezza essendo Bernhard lo scrittore che amo di più in assoluto e ogni suo lettore, peraltro competente come te, è per me un “compagno di strada”.
Quello che dici sulla “prepotenza” di Reger è vero ma, come sempre, in Bernhard si dà una cosa ma anche il suo opposto.
Reger è misantropo, su questo non ci piove dato che “misantropia” è : “Sentimento di avversione per gli altri e per la società, generalmente provocato da incapacità di prendere parte alla vita attiva ed accompagnato da uno scontroso desiderio di solitudine” (Devoto/Oli – “Vocabolario della lingua italuana) E, Reger, è indubbiamente questo. Ma Reger ha anche bisogno degli altri per esistere, ma non perché è interessato agli altri, (in quanto misantropo non lo può essere per sua natura), ma perché da soli si impazzisce, è la natura umana che obbliga alla condivisione. Fuori dalla condivisione si scompare e questo vale sia per la condivisione del proprio pensiero che per la scrittura e sia, in generale, per se stessi come persona.
C’è quindi in Reger un rapporto necessario, direi vitale con la condivisione di cui Reger è non solo consapevole ma ne è consapevole anche per il contenuto affettivo che la condivisione ha, infatti, non a caso, concludo la mia recensione proprio con queste parole: “nel momento in cui “ho comprato due biglietti per La brocca rotta” dice R. ad A. “in quel mentre ho pensato solamente a lei e a me”.
Proprio perché volevo evidenziare questo aspetto della non “mostruosità” di Reger e del suo riconoscimento/riconoscenza verso l’altro che prova, dato che in Bernhard non c’è mai la negazione del sentimento e della sensibilità anzi il paradosso, come sempre, in Bernhard è che c’è l’ipersensibilità.
Tuttavia, dato che, come abbiamo detto, Reger è misantropo, il rapporto con la condivisione è “istintivamente” strumentale e utilitaristico per lui, cosa che dico quando alla fine del quinto blocchetto del testo della mia recensione scrivo: “La moglie di R. e A. sono quindi funzionali, anzi strumentali per R., egli se ne appropria e li usa, ma in realtà è R. che, senza la moglie prima e A. adesso non esisterebbe, in quanto il pensiero così come la creazione artistica se non hanno alcuna condivisione non esistono.”
Ma questo atteggiamento/comportamento di Reger non è né cervellotico né malato ma è assolutamente umano nel senso che esprime un aspetto reale della natura umana.
J. Rodolfo Wilcock il grande scrittore italo-argentino, amico e traduttore di Borges, ha scritto:
“Luogo comune-verità: che l’uomo in qualunque situazione si trovi si trova solo…La solitudine fa fare, perché si rischia l’inesistenza…L’uomo ha bisogno di solitudine, e altrettanto di comunicazione; ma la comunicazione turba la solitudine; farle convivere senza scontro è presupposto della felicità” (J.R. Wilcock – “Lo streoscopio dei solitari” – Adelphi – 1998 – dalla bandella della quarta di copertina)
Ecco, detto in modo più “pacificato”, ma è questo il punto e, Bernhard, com’è suo tipico lo esaspera volutamente.
Grazie ancora, un carissimo saluto e buona domenica.
Raffaele
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Grandissima risposta, Raffaele. Io ero partita con la mia idea e non avevo badato a certe cose (questo è in generale un mio difetto: se una cosa non mi entra nella teoria, tendo a trascurarla). Bisognerà anche leggere questo Wilcock…
Grazie della pena che ti sei data per chiarirmi le idee e buona serata.
Elena
P;S.: sai per caso perché wordpress non mi avverte mai delle tue risposte ai miei commenti?
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Grazie a te Elena per l’apprezzamento. Per me è stato un piacere. Su wordpress ahimè non so proprio cosa dirti, io le notifiche delle tue risposte ai miei commenti le ricevo. Purtroppo in queste cose le mie competenze sono molto primitive e non ti saprei dire se dipende dal tuo “piano” wordpress o dal mio. Se riesci a verificare questa cosa comunque fammi sapere.
Ciao
Raffaele
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Ciao Raffaele.
Ho sbirciato l’interessante dialogo con Elena, con la quale ho anche io uno scambio di commenti. Volevo solo dirti che Elena non ha avuto notifica della tua risposta perché tu, invece di rispondere ai suoi commenti, hai aperto un nuovo commento, che quindi non è rivolto a nessuno in particolare. Perché lei sia notificata devi cliccare Rispondi sotto il suo commento.
Ciao
Vittorio
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Grazie Vittorio per la tua gentilissima “assistenza”. Ahimè io sono proprio un analfabeta digitale, non c’è niente da fare. Avevo completamente dimenticato di usare il comando “Rispondi” per rispondere ai messaggi ricevuti, dato che le risposte che inserivo mi apparivano comunque “Pubblicate”. Ho fatto, a partire da questa risposta, buon uso della tua indicazione
Ancora grazie.
Ciao
Raffaele
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