Dietro l’apparente leggerezza, scorrevolezza, linearità impressa alla narrazione, “La sofferenza del Belgio” è un romanzo complesso sia per scelte stilistiche(cambi di ritmo, alternarsi di narrazione e rimandi a soggettività interiori, evocazioni di immagini che trascendono il testo, metafore)sia per la numerosità di riferimenti storico-letterari-culturali al mondo e alla tradizione fiamminga e, in ultimo, e soprattutto, per il modo di raccontare la cupezza che incombe su tutto ciò che vi accade.
Cupezza derivante non solo dalle vicende storiche in cui il romanzo è immerso: 1939/40 scoppio della guerra e invasione e occupazione del Belgio da parte dei nazisti, ma anche dalle vicende esistenziali, sociali, familiari e di contesto ambientale di cui “La sofferenza del Belgio” narra. C’è la cupezza dell’opprimente e asfissiante ambiente e contesto religioso e culturale cattolico che permea e scandisce l’esistenza di quasi tutte le vite che si affacciano sulla scena del romanzo, laddove la diffusa devozione incorpora un senso oscuro e malsano di sottomissione e di colpa costanti.
C’è la cupezza di un irrisolto conflitto tra ricerca dell’identità fiamminga e sua relativa affermazione e il Belgio, vissuto come altro da sé, entità statuale, culturale, linguistica separata e lontana dalle Fiandre, sostanzialmente vissuto come nemico del popolo fiammingo, laddove poi tale ricerca ha esiti frustranti e in certo senso velleitari. C’è la cupezza della famiglia o meglio delle famiglie numerose e assai allargate, all’interno delle quali vige un insieme di obblighi sociali, riti, gerarchie a cui sono subordinati i reali affetti e desideri. Un campionario di vite per lo più infelici e irrisolte, dove l’impossibilità di una reale emancipazione e di una effettiva libertà viene riempita da solitarie vie di fuga, ma mai definitive, bensì messe in atto in modo ripetitivo, uguali a se stesse e come tali destinate irrimediabilmente a cristallizzarsi.
Un universo esistenziale, sociale, culturale dominato da un profondo senso di debolezza, dove il singolo con la sua individualità e soggettività tende a scomparire, dominato da forze collettive potenti e superiori a lui: la chiesa, lo stato, i tedeschi, le convenzioni e le norme sociali,le gerarchie familiari, rispetto alle quali solo attraverso il rifugiarsi in mondi immaginari e fantasiosi è possibile recuperare una propria libertà interiore e identità.
Detto questo “La sofferenza del Belgio” pur avendo questa connotazione storico sociale che fa da background non è un romanzo storico. E’invece e soprattutto un canto a suo modo dolente e poetico su quella umanità descritta da Claus che pur tra dolori e solitudini, si inventa e si ritaglia piccoli momenti di felicità,segreti nascosti, passioni interiori, fughe nel fantastico e nell’immaginario, piccoli piaceri della vita, illusioni e sogni, divertimenti e godimenti, non diversamente peraltro da quello che accade alla gran parte degli esseri umani. Un romanzo di grande umanità, in cui un’intensa e profonda capacità di dare voce ai sentimenti più diversi si coniuga con un’altrettanto profonda capacità di dare uno specifico spessore storico ai personaggi e alle vicende raccontate.
Preso appunti. Lo devo trovare.
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Libro letto tanti anni fa ma di cui ho ancora un ricordo molto bello ed intenso. E poi Claus è stato un grande scrittore, non a caso più volte candidato al Nobel. E sebbene la sua opera sia fortemente radicata nel mondo fiammingo al quale Claus apparteneva, ma con cui mantenne sempre un rapporto critico e conflittuale, tuttavia egli nei suoi libri è stato capace di esprimere valori e vissuti che travalicano quel mondo. Anche “Corrono voci”, l’altro suo libro che ho letto è molto bello.
Grazie della visita, buone letture e Buon Anno.
Ciao.
Raffaele
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Non lo conoscevo e vivendo in Belgio è una lacuna da colmare. Andrò a vedere in che periodo l’ha scritto. Le Fiandre oggi sono molto lontane da quello che emerge dal.romanzo e da te riportato. Conoscendo poco la letteratura belga, mi sembra un eccellente punto di partenza. Buon anno. Fritz.
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